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Gli USA irrompono nei giacimenti “non convenzionali”

La crisi energetica è forse la minaccia più grave per un modo di produzione che vive solo espandendosi all’infinito. Ma viviamo in un modo limitato, “finito”, e le risorse energetiche fin qui sfruttate industrialmente – le più potenti ed efficaci – sono idrocarburi. Ovvero risorse non riproducibili, che una volta consumate non possono essere né rigenerate né prodotte industrialmente.
Tutti gli studi sulle riserve (petrolifere, di gas, ecc) sono concordi nel dire che siamo ormai pericolosamente vicini al punto medio della curva, ossia all’aver consumato il 50% delle disponibilità naturali. Che c’è da preoccuparsi? Per la legge di Hubbert, una volta superato questo punto l’estrazione comincia a diminuire. Un dramma, rispetto a una domanda sempre crescente.
Per rimandare nel tempo il superamento di questo “picco” le grandi compagnie multinazionali dell’energia hanno preso a sfruttare “giacimenti non convenzionali”, come le rocce o le sabbie bituminose, con grande uso di acqua e crescenti costi energetici. I prezzi del greggio sono ora abbastanza alti da rendere abbordabile l’estrazione di petrolio e gas con tecniche più costose in termini economici. Ma queste tecniche (come l’hydrofracking) sono anche energeticamente costose. Per estrarre idrocarburi in questo modo, insomma, bisogna spendere una quantità di energia spesso abbastanza vicina a quella che si otterrà dal “prodotto” ricavato.

Il rapporto Aie non distingue più di tanto tra estrazione convenzionale e non, e su questo rapporto Il Sole 24 Ore costruisce un articolo molto interessante e ben informato. Solo che prende in considerazione solo l’aspetto economico dello sfruttamento (negli Usa) dei giacimenti non convenzionali, tralasciando gli aspetti fisici che lo rendono una sciagura. Non si tratta soltanto dei danni ambientali che un simile sfruttamento provoca, quanto della sottrazione di risorse chiave – come l’acqua, che ovviamente nell’hydrofracking è elemento centrale – ad altri usi.

Qui di seguito il pezzo dal quotidiano di Confindustria e alcune informazioni importanti sulla “produzione petrolifera” al tempo della scarsità di nuovi giacimenti.

Dal 2020 gli Stati Uniti saranno primi al mondo nella produzione di petrolio e gas. Quali effetti sul prezzo dell’oro nero?

Vito Lops
Entro il 2020 gli Stati Uniti supereranno l’Arabia Saudita quale maggiore produttore di petrolio nel mondo. Ma nel 2015 avranno già strappato alla Russia il primato sulla produzione di gas. E nel 2030 il traguardo più atteso: l’indipendenza energetica. Lo sostiene l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) nelle sue previsioni annuali sulle forniture e la domanda di energia. Stime che evocano il ricordo del film “Il petroliere”, interpretato da Daniel Day-Lewis, che interpreta il ruolo di un minatore texano che trova un giacimento di petrolio (nella foto).

Il sorpasso atteso
Secondo l’Aie, l’aumento della produzione negli Usa e l’introduzione di veicoli sempre più efficienti in materia di consumi hanno fatto diminuire considerevolmente la dipendenza dalle importazioni di energia dall’estero, al punto che «il Nord America diventerà un esportatore netto di petrolio nel 2030».

«Gli sviluppi nel settore energetico negli Stati uniti sono profondi», ha scritto l’Aie nel suo ultimo World Energy Outlook. «Attorno al 2017, gli Stati Uniti diventeranno il principale produttore di petrolio, superando l’Arabia Saudita – ha sottolineato Fatih Birol, il capo economista dell’agenzia, in un conferenza stampa a Londra – gli Stati Uniti diventeranno l’incontestato numero uno mondiale nella produzione di gas attorno al 2015, superando così la Russia».

Dall’inizio dell’anno, ha precisato l’agenzia, gli Stati uniti hanno estratto circa 6,2 milioni di barili di greggio, contro i 5 milioni del 2008. A fronte di questo aumento della produzione, unito a misure per ridurre i consumi, gli Stati Uniti vedranno ridursi progressivamente le importazioni di petrolio, fino a diventare, attorno al 2030, esportatore di greggio. L’obiettivo dell’indipendenza energetica non sarà quindi più un obiettivo irraggiungibile, ha concluso l’Aie, e il Paese, che oggi importa circa il 20% del suo fabbisogno, «diventerà praticamente autosufficiente».

Allo stesso tempo, l’Asia continuerà a sostenere la domanda globale di energia, che dovrebbe crescere di oltre un terzo entro il 2035, passando dagli attuali 87,4 milioni di barili al giorno registrati nel 2011 a 99,7 milioni di barili al giorno.

Tecniche di estrazione “vintage”
Il sorpasso atteso degli Stati Uniti potrebbe avvenire grazie all’efficientamento delle tecniche di estrazione, in particolare attraverso l’uso combinato della fratturazione idraulica (hydrofracking) e delle perforazioni orizzontali (horizontal drilling). Si tratta di tecniche non modernissime (hydrofracking ha orgini nel 1940 e l’horizontal drilling nel 1980) ma la combinazione delle due sta avendo effetti dirompenti nella produzione energetica statunitense di petrolio e gas metano (lo shale gas, ottenuto dalle argille) perché aumetano la permeabilità del suolo e incrementano il tasso di recupero delle materie prime.

Rischio di ripercussione su acqua e ambiente
Tecniche non esenti da critiche da parte degli ambientalisti. La fratturazione idraulica – che sfrutta la pressione dell’acqua per creare una spaccatura nella roccia e che viene solitamente effettuata dopo una trivellazione orizzontale – è sotto osservazione per i rischi di contaminazione chimica delle acque del sottosuolo e dell’aria.
E poi c’è il tema dell’acqua, essenziale per la produzione di energia: nella generazione elettrica; nell’estrazione, trasporto e lavorazione di petrolio, gas e carbone; e, in misura crescente, nell’irrigazione delle colture destinate alla produzione di biocarburanti. «Si stima che i prelievi di acqua per la produzione di energia siano stati pari a 583 miliardi di metri cubi nel 2010», allarma l’Aie. Di questi 58 miliardi di mc, «il consumo di acqua – vale a dire il volume prelevato ma non restituito alla sua fonte – ammontava a 66 miliardi di mc» . Lungo l’orizzonte di proiezione, «l’aumento atteso del consumo di acqua dell’85% riflette la transizione verso una generazione elettrica a maggior consumo di acqua e la crescente produzione di biocarburanti».

Dove andrà il prezzo del petrolio?
Il prezzo del petrolio, sempre secondo l’Aie, crescerà moderatamente in concomitanza con la domanda. Il greggio arriverà a circa 125 dollari al barile in termini reali (al netto dell’inflazione) nel 2035, dai circa 108 dollari registrati attualmente.

Le incognite, però restano. Del resto il petrolio ha già abitutato gli investitori a violente escursioni nel prezzo. Dopo aver raggiunto il picco storico a 147 dollari al barile nel luglio del 2008 è crollato nel 2009 in area 50 dollari per poi ritornare nel 2012 intorno a quota 100 (con il Brent londinese a 108,7 dollari e il Wti di New York a 85).

La posizione di indipendenza energetica verso cui si proiettano gli Stati Uniti potrebbe cambiare gli attuali equilibri con i Paesi dell’Opec (l’Organizzazione dei produttori del petrolio fondata nel 1960 per porre un freno al predominio delle aziende anglo-americane, allora conosciute come le “sette sorelle”). Ed è questa una delle più grandi incognite che si pone sul fronte energetico negli anni a venire.

Da svariati anni, in particolare da quando gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno raggiunto un accordo dando vita alla United States-Saudi Arabian joint economic commission (Jecor) c’è una sorta di tregua. Un compromesso nella produzione del petrolio in modo tale da regolare domanda e offerta ed evitare repentini aumenti dei prezzi. Questo anche per evitare altri embarghi, come quello annunciato il 16 ottobre del 1973 quando l’Iran e i cinque Stati del Golfo Arabo, Arabia Saudita inclusa, annunciarono un aumento del 70% del prezzo del petrolio (mossa che seguiva la guerra dello Yom Kippur, la principale festività ebraica che ricorre il 6 ottobre quando Egitto e Siria sferrarono un attacco militare contro Israele).

L’embargo, poi “limato” con un aumento del prezzo tra il 5 e il 10%, terminò il 18 marzo 1974. Pochi mesi furono però sufficienti per causare effetti dirompenti: i prezzo del petrolio dell’Arabia Saudita schizzò oltre gli 8 dollari quando all’inizio del 1970 era a 1,4. Una lezione mai dimenticata.

Guerra delle valute
L’Aie non fa riferimento al tema valutario, strettamente collegato alle materie prime dato che il dollaro è oggi la valuta di riferimento utilizzato nello scambio di materie prime (oro, petrolio, ecc.) e assolve quindi alla implicitamente alla funzione di riserva di valuta mondiale. Se gli Stati Uniti raggiungeranno l’indipendenza energetica gli altri Paesi potranno scambiarsi più agevolmente il petrolio in altre valute? Il quesito è tornato alla ribalta negli ultimi mesi quando la Cina ha deciso di pagare in yuan le forniture di petrolio provenienti dalla Russia dopo che l’Iran nel 2010 ha aperto nell’isola di Kish una Borsa dove sono scambiati derivati sul petrolio in euro.

da Il Sole 24 Ore

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Il Picco dei Negazionisti

Di Richard Heinberg. 

Da Energy Bulletin. Traduzione di Massimiliano Rupalti

In questi giorni, non si legge altro che “Tristi notizie per i Discepoli del Picco del Petrolio”, secondo il Financial Post.
L’ultimo esempio:Leonardo Maugeri, un membro del Geopolitics of Energy Project al Belfer Center for Science and International Affairs della Kennedy School — e critico di lungo corso dell’analisi del Picco del Petrolio – ha appena pubblicato un nuovo rapporto, “Petrolio: La Prossima Rivoluzione”, nel quale prevede un netto aumento della capacità produzione mondiale di petrolio e il rischio di un collasso del prezzo del petrolio. Il suo rapporto ha innescato una valanga di articoli di stampa con titoli come “Nessun Picco del Petrolio in Vista”, “Il potenzale boom petrolifero statunitense scuote le politiche energetiche,” e “Il Picco del Petrolio Semplicemente non è più una Minaccia”.

Queste seguono a ruota una serie di altri articoli che propagandano un aumento di produzione di petrolio da depositi di scisti “tight” negli Stati Uniti – pezzi con titoli tipo “Il  Picco del Petrolio ha raggiunto il Picco?” e “ L’idea del Picco del Petrolio è Morta?” E quelli che a loro volta cavalcano l’onda del largamente festeggiato libro di Daniel Yergin “The Quest”, che ha foraggiato una frenesia contro il Picco del Petrolio nei media lo scorso anno.

Il recente diluvio di trionfalismo cornucopiano ha provocato alcune risposte riflessive, comprese “L’idea di Picco del Petrolio ha… raggiunto il picco?” e “Il Picco del Petrolio è Morto?”, entrambi i quali vagliano le prove e concludono che la produzione mondiale di petrolio si comprende meglio se visto attraverso le lenti dei “picchisti” piuttosto che da quelle degli occhiali rosei dei detrattori del Picco del Petrolio.

Non c’è dubbio che i picchisti continueranno a produrre articoli riflessivi, ben ragionati e pieni di fatti che delucidano la precarietà delle forniture globali di energia. Tuttavia, il gran numero e la loro prominenza mediatica dei pezzi “Niente Picco del Petrolio” (sul Wall Street Journal e New York Times, persino su NPR – National Public Radio) sta avendo effetto. I siti picchisti hanno un declino del traffico in rete. E mentre ora molta più gente ha sentito parlare del Picco del Petrolio che non pochi anni fa, molti credono, sbagliando, che la sua assunzione fondamentale sia stata in qualche modo “smontata”.

Coloro fra noi che sono stati dietro a questa discussione per più di un decennio – dai giorni nei quali il geologo petrolifero Colin Campbell ha coniato la frase “Picco del Petrolio” e il “movimento” consisteva più che altro in discussioni quotidiane su un’oscura mailing list – hanno visto crescere la cosa come un fenomeno di specie, con libri, newsletter, siti web organizzazioni dedite sia all’analisi sia all’attivismo come cittadini. Evidentemente la crescente preoccupazione del pubblico circa l’inevitabile declino della produzione mondiale di petrolio ha infastidito qualche personaggio potente che ha annodato le proprie corde in cerca di un po’ di dati favorevoli (declino dei prezzi del petrolio, crescita della produzione) per usarli come pretesto per un linciaggio pubblico. La mentalità cornucopiana è sicuramente diffusa fra i leader nell’industria del petrolio  (Rex Tillerson, Amministratore delegato di ExxonMobil, recentemente ha detto su cambiamento climatico e sicurezza energetica “Noi [esseri umani] abbiamo passato la nostra intera vita ad adattarci. Ci adatteremo… è un problema di ingegneria e ci sarà una soluzione ingegneristica”). Ma una simile incapacità di immaginare null’altro che finali felici è diffusa anche fra molti ambientalisti, come ho avuto modo di imparare lo scorso fine settimana all’Aspen Environment Forum, dove ho avuto un dibattito con Mark Lynas, autore di “Sei Gradi” e di “Le Specie di Dio”. Mentre gli ambientalisti vengono spesso accusati di essere allarmisti, essi possono anche manifestare un tratto di tecno-ottimismo ‘si può fare’. Stewart Brand (fondatore di Whole Earth Catalog), che è stato un altro relatore alla conferenza si è trasformato in un futurista pro-nucleare, pro geo-ingegneria e verde brillante. Jim Kunstler, anch’egli ad Aspen, ha riassunto il suo punto di vista sull’evento: “Il tecno-narcisismo scorreva come uno Slurpee fuso (una specie di granita). . . .

Nel corso del dibattito, Lynas più di una volta ha citato una litania sulle previsioni sbagliate dei pessimisti, a cominciare da Malthus. Analogamente, Daniel Yergin ha guadagnato punti dichiarando che le profezie di un picco di produzione di petrolio nel mondo sono state provate come sbagliate ad ogni piè sospinto per un secolo o più. E’ strano che le previsioni sbagliate degli ottimisti abbiano un’attenzione pubblica così insignificante al confronto, dato che sono almeno altrettanto numerose. L’esempio più rilevante: intorno al 1998, quando la discussione odierna sul Picco del Petrolio era appena agli esordi, la Intenational Energy Agency (IEA), il Dipartimento Americano per l’Energia e l’USGS (United State Geological Survey) avevano fatto tutti previsioni dicendo che la prosduzione mondiale sarebbe cresciuta costantemente fino a raggiungere i 120 milioni di barili al giorno nel 2020, mentre i prezzi sarebbero rimasti ad un livello di 20$ al barile (in dollari del 1998) anche oltre quella data. Nel 2004, quando era già chiaro che quelle previsioni non avevano alcuna opportunità di realizzarsi, Daniel yergin ha dichiarato che i prezzi del petrolio sarebbero rimasti a 40$ al barile per i successivi 15 anni, né l’IEA, né la DOE né l’USGS né Daniel Yergin hanno previsto una situazione nella quale la produzione di petrolio greggio avrebbe raggiunto un plateau per 7 anni a cominciare dal 2005 o nella quale i prezzi sarebbero schizzati fino ai 147$ a barile come hanno fatto nel 2008. Sì, alcune delle previsioni sul Picco del Petrolio della produzione mondiale secondo le quali il declino sarebbe cominciato fra il 2005 e il 2008 erano premature, ma è ovvio che i picchisti abbiano avuto punti di vista più precisi e utili sui livelli dei prezzi e della fornitura del petrolio mondiale durante lo scorso decennio. Quindi è umanamente comprensibile perché il risentimento si sia consolidato fra gli Yergin ed i Maugeri del mondo.

E così, uno zampillo di nuova produzione da depositi scistosi di “tight” ora serve da pretesto per dicharare vittoria. I picchisti avrebbero dovuto vederlo arrivare, dopotutto; gli alti prezzi del petrolio, infatti, innescano aumenti delle riserve e della produzione da risorse di qualità inferiore. Infatti, alcuni dei migliori analisti lo hanno visto arrivare. Ricordo Jeremy Gilbert, ex ingegnere petrolifero della BP, che parlava del potenziale della nuova tecnologia di produzione ad una conferenza dell’Association for the Study of Peak Oil (ASPO) un paio di anni fa. “Dei giacimenti che stiamo attualmente inseguendo ne eravamo a conoscenza da lungo tempo, in molti casi”, notava, “ma erano troppo complessi, troppo fratturati, troppo difficili da produrre. Ora la nostra tecnologia e comprensione [sono] migliori, il che è buono, perché questi giacimenti difficili è tutto ciò che ci resta”.

Il dibattito sul Picco del Petrolio non è un evento sportivo. Ciò che conta non è quale parte vince, ma quale realtà abbiamo di fronte. Vedremo il proseguimento di un plateau nella produzione globale di petrolio greggio? Quanto a lungo durerà? Quanto sarà grande in percentuale il contributo alla produzione di “tutti i liquidi” totali di sabbie bituminose, scisto ed altri non convenzionali? Quale sarà l’impatto climatico visto che il petrolio mondiale arriva da forniture sempre più derivate da risorse di qualità inferiore? E quale sarà l’impatto economico?

Noi del Post Carbon Institute speriamo di risolvere alcuni dei problemi relativi al petrolio non convenzionale in un rapporto (in uscita a settembre) di David Hughes, un seguito del suo rapporto del 2011 verifica sullo stato della produzione di gas di scisti negli Stati Uniti. Ma le più grandi domande ambientali ed economiche continueranno senza dubbio a generare incertezze per un po’.

Tuttavia, ci sono poche osservazioni che un analista energetico serio non possa contestare. I costi dell’esplorazione e della produzione petrolifera sono saliti alle stelle (la Bernstein Research stima che quest’anno l’industria abbia bisogno di prezzi nella gamma dei 100$ al barile per giustificare nuovi progetti). I giacimenti petroliferi super giganti che costituiscono ancora il 60% della produzione di greggio mondiale sono vecchi e quindi il modesto contributo di quelli non convenzionali, che ci si aspetta che siano sia cari che lenti da mettere in produzione, devono spingere contro una marea di esaurimento e declino. E’ solo questione di quando il declino della produzione complessiva comincia, non se. Intanto, alcuni dei combustibili conteggiati dalla IEA nella categoria “tutti i liquidi” (etanolo, liquidi del gas naturale) hanno un’energia significativamente inferiore per unità di volume che non il petrolio greggio convenzionale. Così, un aumento in barili giornalieri di “tutti i liquidi” non necessariamente significa un aumento della quantità di energia consegnata alla società. Inoltre, tutti i combustibili liquidi non convenzionali (compresi i biocombustibili, sabbie bituminose, petrolio “duro”) offrono un basso ritorno energetico sull’energia investita per produrli (EROEI). Quindi, anche se il numero di barili di combustibili liquidi consegnati al mercato sta ancora gradualmente aumentando, la quantità di energia utile netta resa disponibile dalle industrie del petrolio e dei biocombustibili, se vengono conteggiati i costi per produrla, è probabilmente già in declino. E questo è quasi certamente vero negli Stati Uniti – la locandina promozionale per la produzione di petrolio non convenzionale. Infine, le quantità di greggio disponibili per l’esportazione stanno rapidamente declinando via via che i paesi produttori ne usano di più per il proprio consumo – lasciandone ogni anni di meno per i paesi importatori come Stati Uniti, Europa e Cina (questo tasso di declino è molto più alto che non il tasso di crescita relativamente inferiore della produzione mondiale di “tutti i liquidi”).

Intanto, l’impennata dei prezzi del petrolio ed il crollo dei rendimenti energetici reali dai combustibili liquidi hanno già lasciato una carneficina al loro passaggio, mentre un sistema finanziario globale arroccato su un monte di debito è stato affrontato colpo su colpo dal fallimento dell’economia reale nell’espandersi come ci si aspettava. Risulta che la produzione industriale ed il commercio globale dipendano dall’energia, non solo dal credito e dalla fiducia. In giugno si sono visti prezzi del petrolio più deboli, ma questo era dovuto ad un’erosione accelerata della forza economica mondiale (che porta all’aspettativa di una caduta della domanda di petrolio), non alla moderazione dei prezzi di produzione del petrolio o all’aumento della produzione sostanziale.

Come molti picchisti hanno continuato a dire, sapremo per certo quando la produzione globale di petrolio raggiungerà il picco (in termini di tasso di produzione in barili al giorno) solo quando possiamo vedere un declino costante nello specchietto retrovisore. Ma allora, sarà troppo tardi per la società per prepararsi agli impatti economici del picco del petrolio. Quindi, il “movimento” del Picco del Petrolio – non come esercizio di analisi, ma come sforzo per avvisare il mondo e prevenire la catastrofe – è destinato al fallimento? Forse. Ma per lo stesso motivo per cui lo è gran parte del movimento ambientalista, se non tutto. Non cambiamo sostanzialmente il nostro comportamento collettivo finché la crisi non ci arriva addosso.

Ma anche se non possiamo evitare una crisi, possiamo preparare una parte della popolazione alle sue conseguenze. Possiamo costruire la resilienza della comunità. Possiamo seminare le conversazioni pubbliche con l’informazione che minano l’inevitabile, riflessivo sforzo di incolpare il disfacimento economico con facili capri espiatori. Inoltre, il futuro sarà migliore se proteggiamo almeno qualche specie, qualche habitat, qualche zona selvaggia, un po’ d’acqua e un po’ di suolo prima del crollo dell’economia causato dall’energia, di modo da avere una base ecologica per l’attuale esistenza in assenza di macchine, aerei, iPads e di combustibile abbondante ed economico.

In breve, le cose andranno meglio per noi se resistiamo alla negazione piuttosto che se ci impegniamo in essa.


da Ugobardi.blogspot.it

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