Menu

Netanyahu ha conseguito una vittoria di Pirro

Netanyahu ha conseguito una vittoria di Pirro

Giudicando dalle apparenze, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha realizzato un colpo perfetto lanciando l’assalto contro Gaza. La scheda di valutazione per l’operazione della durata di una settimana, nome in codice “Operazione Pilastro della Difesa”, sembrerebbe poter riportare un 10 su 10. L’unico inconveniente è che si tratta di una vittoria di Pirro.

Possiamo riandare col pensiero all’illusione generata dalle streghe nella tragedia di William Shakespeare:

Sii sanguinario, audace e risoluto;
irridi al potere dell’uomo,
perché nessuno nato da donna
potrà far danno a Macbeth.

E qui la realtà non è poi così lontana:
Macbeth non verrà mai sconfitto
finché il grande bosco di Birnam non avanzi
verso l’alto colle di Dunsinane
contro di lui.”

L’illusione sta nel fatto che l’offensiva israeliana, distruggendo il quartier generale di Hamas e facendo saltare in aria Ahmed Jabari, il comandante del movimento, in un omicidio mirato, apparentemente possa aver seppellito il movimento di resistenza.

Ma la realtà sbalorditiva è che la “impenetrabile” Cupola di Ferro di Israele sta rivelandosi un mito, visto che si è fatta perforare da più di due terzi dei razzi di Hamas.

[N.d.tr.: “Iron Dome” (Cupola di ferro) è un sistema della compagnia israeliana “Rafael” – ma finanziato dagli Usa – in grado di intercettare razzi a medio raggio (tra 4 e 70 km di gittata).

Ogni batteria è formata da un radar, in grado di intercettare ed inseguire la traiettoria di ogni singolo razzo, e tre sistemi di lancio dotato ciascuno di 20 missili Tamir.

Accanto ad “Iron Dome”, Tel Aviv può contare su un secondo sistema già attivo per i missili a lungo-medio raggio (Arrow), e ne sta sviluppando un terzo per le minacce a medio raggio, “David Sling’s” (la fionda di Davide).]

Cosa rimane ad Israele, se non un’offensiva di terra?

Ma anche tale opzione può rivelarsi un’illusione, come è risultato durante l’operazione israeliana contro Hezbollah in Libano nel 2006, quando i miliziani inafferrabili costituivano formazioni perfino all’interno dei quartieri residenziali.

La cruda realtà potrebbe disvelarsi, così come il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha messo in guardia: “Se i soldati israeliani entrano in Gaza, sono destinati al rischio di incorrere in pericoli di morte o per lo meno venire feriti.”

In buona sostanza, sta diventando chiaro che la realtà politica può risultare per Israele abbastanza scoraggiante. Alla fine della giornata, Israele ha fatto qualcosa che non aveva mai fatto prima nella sua storia: gli Israeliani sono arrivati al tavolo per un negoziato di pace dopo appena tre giorni dal lancio di un’offensiva militare.

10 su 10

Il paradosso è che Netanyahu può essere considerato ugualmente come colui che ha colpito il centro del bersaglio!

Lanciando l’attacco contro Hamas, egli astutamente ha assecondato le pretese di una Grande Israele presenti nell’opinione pubblica nazionale, e potrebbe aver migliorato le prospettive del suo partito “Likud”, che è in alleanza con il partito ultranazionalista “Yisrael Beitnu” di Avigdor Lieberman alle prossime elezioni di gennaio.

La popolarità del Likud era in declino, e il partito veniva minacciato dall’alleanza dell’opposizione di “Kadima Shaul Mofaz”, a guida dell’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, con il partito “Yair Labed”, condotto dall’ex ministro degli esteri Shaul Mofaz.

Netanyahu ha giudicato bene che la società israeliana è diventata una società di destra e militarista, e una dimostrazione di forza sotto la sua dirigenza poteva essere l’esibizione opportunamente ostentata per sottrarre vento politico alle vele dell’opposizione israeliana.

Oggi, Netanyahu può vantarsi che sotto la sua guida Israele ha “degradato” la macchina da guerra di Hamas e ha indebolito la sua minaccia nei confronti di Israele. Egli può andare più oltre, sostenendo che ultimamente Hamas tentava di compiere passi più lunghi delle sue gambe ed egli così ha imposto a questo movimento di calmarsi.

C’è un qualche merito nel giudizio di Netanyahu, con la motivazione che l’interruzione dei collegamenti di Hamas con Damasco (e Teheran) dello scorso anno doveva essere afferrata come il momento giusto per colpire. I nuovi sponsor di Hamas – il Qatar, la Turchia, ecc – sono noti per essere in grado solo di abbaiare e non mordere, a differenza della Siria e dell’Iran.

Per di più, la spaccatura sulla guerra civile in Siria ha creato una certa distanza tra Hamas e Hezbollah, la qual cosa opera a tutto vantaggio di Israele.

Ovviamente, i regimi iraniano e siriano sono stati ridotti al ruolo di spettatori, mentre avrebbero potuto essere i due giocatori che avrebbero fatto la differenza per la capacità militare di Hamas. Così, con l’Iraq ridotto all’Età della Pietra e la Siria coinvolta in una guerra civile che si sta protraendo, Israele ha davvero solo l’Egitto da affrontare, e quindi ha una mano relativamente libera a livello regionale.

L’unico vantaggio di rilievo per Israele dal conflitto attuale è quello che potrebbe impegnare in modo costruttivo il governo egiziano guidato da Mohamed Morsi, che apparteneva ai Fratelli Musulmani. L’invio di due negoziatori israeliani di alto grado al Cairo sottolinea la rapidità con cui il governo di Tel Aviv desidera intrattenere relazioni con il governo Morsi.

Certo, per Tel Aviv si è trattato ben più di una vittoria simbolica, dato che per la prima volta Morsi è stato costretto ad articolare la parola “Israele” in una dichiarazione pubblica al Cairo nella conferenza stampa di sabato 17 novembre.

Senza dubbio, Morsi è stato indotto al ruolo di “mediatore” – dagli Stati Uniti, dalla Lega Araba e da Israele – per mediare un cessate il fuoco.

Esaminando il punto di vista di Tel Aviv, il sostegno di Israele ad una qualsiasi trattativa odierna di cessate il fuoco (anche sotto l’egida delle Nazioni Unite) avrebbe procurato l’implicita approvazione di Morsi, e questo avrebbe rappresentato il tipo di apertura che Israele è disperatamente desiderosa di sviluppare, e che ora può sperare di coltivare solo in un prossimo periodo in termini operativi (con l’aiuto degli Stati Uniti) a livello di base e di governo. Naturalmente, non è ipotizzabile un ritorno all’era di Hosni Mubarak, ma qualcosa è sicuramente meglio di niente.

Chiaramente, il presidente israeliano Shimon Peres non ha perso tempo ad afferrare l’apertura di tali opportunità quando ha pubblicamente apprezzato gli sforzi di Morsi per porre fine alle ostilità, affermando: “L’Egitto è un attore importante in Medio Oriente.”

La manovra israeliana sarà quella di cercare di indebolire i legami dei Fratelli con Hamas, che si sta gradualmente orientando verso le politiche di Morsi nei riguardi di Gaza.

Allo stesso modo, il conflitto di Gaza ha costretto anche l’opinione pubblica egiziana ad affrontare il momento della verità – quella che gli Egiziani si sono intrappolati in una sorta di “terra di nessuno”. La loro simpatia è tutta per i Palestinesi, ma non vogliono un’escalation che potrebbe trascinare il loro paese in un conflitto con Israele. Gli Egiziani condividono affinità culturali con gli abitanti di Gaza, ma sono anche preoccupati che l’enclave palestinese sia divenuta una vasta zona di raccolta di miliziani che possono coinvolgere l’Egitto in una nuova guerra con Israele.

Arrivando alla Turchia, l’altro grande protagonista regionale, Israele ha costretto il primo ministro islamista Recep Erdogan, seppure in modo indiretto, a fare da spettatore in una condizione per la Turchia non favorevole, vale a dire, è il Cairo che è diventato il centro della diplomazia sul conflitto di Gaza, non Ankara.

Murat Yetkin, caposervizio del quotidiano della confindustria turca “Hurriyet”, ha scritto dei bruciori di stomaco di Ankara, che è scontenta per il suo “ruolo secondario” e per la gravosa presa d’atto che il potere regionale dell’Egitto supera l’influenza della Turchia:

“Il ruolo dell’Egitto nella regione è stato ripristinato a seguito della rivoluzione di piazza Tahrir, e il suo governo è più forte di prima … L’opposizione siriana, che ha avuto inizio nei campi profughi in Turchia, ha dichiarato che ritiene il Cairo essere il suo quartier generale. La Primavera araba ha lavorato per l’Egitto, e il paese sta risorgendo dalle ceneri ancora una volta, fornendo un modello realistico per i paesi arabi. E se Morsi riesce a salvare Gaza dalla collera di Israele, può diventare un secondo Gamal Abdel Nasser, oltre a essere l’unico eletto nel mondo arabo.”

L’attacco israeliano contro Gaza ha spostato l’ago della bussola della politica mediorientale. Questo costringe ad imporre un ridimensionamento della politica della Turchia. Israele potrebbe sperare su un maggiore realismo da parte di Erdogan circa i legami della Turchia con Israele.

Israele ha continuato ad insistere che l’interruzione delle relazioni fra i due paesi danneggiava solo la Turchia nei suoi vitali interessi nazionali, visto lo stallo della condivisione di informazioni di intelligence e quindi la perdita da parte di Ankara della sua capacità di mediare i conflitti del Medio Oriente.

Ma a questo riguardo, il giudizio resta sospeso. Erdogan è anche un demagogo. La sua stridente retorica surclassa quella di Morsi quando ha definito Israele uno stato “terrorista”, e poi ha continuato ad asserire che Tel Aviv si sta abbandonando ad una “pulizia etnica”.

Erdogan sembra preferire cavalcare l’onda dell’opinione popolare araba, invece di “aggiustare” i rapporti turco-israeliani.

Nel complesso, visto dall’angolatura della politica estera, Netanyahu ha messo a segno una serie di successi apparenti. A dire il vero, la sua più grande “cattura” ha coinvolto Obama.

Netanyahu ha costretto il presidente degli Stati Uniti ad assumere una posizione di solidarietà con Israele rispetto allo scacchiere del Medio Oriente, malgrado le lampanti differenze tra i due uomini apparse lo scorso anno su diverse questioni, e nonostante che il leader israeliano abbia mal congegnato un amoreggiamento con Mitt Romney nelle fasi critiche delle recenti elezioni presidenziali statunitensi, con evidente fastidio di Obama.

In buona sostanza, le intuizioni contano nella politica del Medio Oriente, e ancora una volta Israele ha dimostrato la sua eterna capacità di menare per il naso il governo degli Stati Uniti.

Netanyahu è un acuto osservatore della politica degli Stati Uniti, e ha stimato di essere in grado di forzare la mano ad Obama, data l’influenza di Israele sul Congresso degli Stati Uniti, sui mezzi di comunicazione e sui centri studi statunitensi, non importano i segnali inquietanti che appaiono di tanto in tanto sui propositi del presidente degli Stati Uniti di cominciare ad operare per una decisiva correzione di rotta della carente strategia degli Stati Uniti per quel che concerne il Medio Oriente.

Le valutazioni di Netanyahu gli hanno dato ragione.

Tra l’altro, l’operazione “Pilastro di Difesa” ha qualcosa in comune con la sanguinosa operazione “Piombo Fuso” (dicembre 2008) – entrambe sono arrivate dopo le vittorie elettorali di Obama.

E non è stato un conseguimento di poco conto, che nessuno in realtà, salvo i paesi arabi, abbia condannato Israele per il suo “diritto a difendersi”. I protagonisti politici influenti, come la Russia, la Cina ed i paesi dell’Europa hanno assunto una posizione neutrale, mentre hanno invocato la “moderazione” da entrambe le parti in conflitto.

Sia la Russia che la Cina si aspettano grandi opportunità di business nel mercato israeliano. (Mosca, conta perfino sulle buone propensioni di Lieberman come immigrato dall’ex Unione Sovietica.)

Senza dubbio, il petrolio del mastodontico giacimento Leviathan e i giacimenti di gas nel Mediterraneo hanno catapultato Israele in una condizione di “partner energetico” ambito.

Gli Europei, i Russi, i Cinesi – Leviathan provoca a tutti costoro grandi emozioni. In altre parole, Israele non è più un caso disperato, con una economia in difficoltà.

[N.d.tr.: Da quando è stata ufficializzata la sua scoperta, il giacimento Leviathan ha alimentato più discordie che speranze. Questo perché i 16 trilioni di metri cubi di gas contenuti nelle sue viscere si trovano a cavallo tra le rispettive aree marittime di Israele e del Libano, e questi paesi stanno già affrontando la questione con toni piuttosto accesi.

Israele, che considera l’approvvigionamento energetico una questione di sicurezza nazionale, ha già paventato la possibilità di una difesa armata contro qualsiasi interferenza esterna nell’area. Il Libano, che non può vantare le stesse forze militari dello Stato ebraico, sta cercando di sottoporre il caso all’attenzione delle Nazioni Unite, sperando in una possibile mediazione a prevenzione della crisi. Sullo sfondo vi sono Cipro e la Turchia: Cipro ha già concluso accordi di delimitazione extraterritoriale con entrambi i contendenti (ma che il Libano vorrebbe ora rinegoziare), la Turchia ha già avvertito che non accetterà l’istituzione di nuove zone economiche esclusive nel Mediterraneo orientale senza il coinvolgimento dell’auto-proclamata Repubblica di Cipro del Nord.]

Infine, il conflitto di Gaza potrebbe aver soffocato la mossa minacciata dall’Autorità Palestinese di forzare un voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre per il riconoscimento di uno Stato palestinese, a cui Israele si oppone con le unghie e coi denti.

I crescenti segnali erano che Ramallah sarebbe stata in grado di mobilitare il sostegno necessario della comunità mondiale, ma plausibilmente, nell’ambito della questione sulla sicurezza regionale in rapida evoluzione, stanno esercitandosi enormi pressioni su Mahmoud Abbas a che non precipiti le tensioni aggiungendone delle altre.

Tuttavia, i “guadagni” – politici, diplomatici e militari – in ultima analisi, dovranno essere valutati a fronte delle “perdite” che Israele potrebbe sopportare per avere scatenato tanta cieca violenza “senza proporzioni” sui civili inermi di Gaza. L’immagine di Israele presso la comunità mondiale ha subito un duro colpo. Ci sono buoni motivi per affermare che le perdite in definitiva sono di gran lunga superiori ai guadagni, e la storia probabilmente è destinata a ripetersi – Israele aggredisce con furore e disperazione realtà impreviste che le si parano incontro, senza risolvere nulla ed anzi forse complicandosi il futuro.

Vero, Israele può avere degradato le capacità di Hamas in termini militari. Ma questo, per Hamas, può solo rappresentare non più che una momentanea battuta d’arresto, visto che è solo una questione di tempo prima che ricostituisca le sue scorte di armi.

La realtà di fondo è che i razzi di Hamas continuano a piovere su Israele, e per giunta i servizi di spionaggio non riescono ad individuarne la provenienza.

È Israele che oggi è chiamato in giudizio per la sua volontà di minare la pace, e non Hamas.

Ancora più importante, i razzi più letali sono di progettazione iraniana. Hamas si rende conto che il sostegno continuo dell’Iran vale il suo peso in oro, e l’Iran aspira a conseguire il risultato conseguito da Hezbollah nel costringere Israele in una situazione di stallo strategico.

In breve, Israele potrebbe avere gettato Hamas nuovamente fra le braccia dell’Iran, la qualcosa dovrebbe apparire ad Israele come qualcosa di terribile.

Anche in termini politici e diplomatici Hamas ha ottenuto un enorme guadagno. Il blocco israeliano di Gaza non è più sostenibile. La processione di ministri degli Esteri della regione in visita a Gaza, martedì 20 novembre, racconta di per sé una storia. Hamas ha decisamente spezzato la strategia di Israele di “contenimento” nel tentativo di isolare Hamas.

Ironia della sorte, anche Israele potrebbe aver cominciato a “trattare” con Hamas senza rendersene conto, visto lo schema e il percorso diplomatico che andrà a svolgersi nei prossimi giorni per porre fine al conflitto in corso.

Israele dovrebbe sapere che il panorama politico della regione è cambiato in maniera fenomenale a favore di Hamas, per il fatto stesso che Khaled Meshal ha tenuto una conferenza stampa in diretta dal Cairo anche quando i jet israeliani stavano martellando Gaza.

In sintesi, la Primavera Araba ha procurato un raccolto amaro per Israele, e l’influenza dell’islamismo nella regione sotto la bandiera dei Fratelli Musulmani va a tutto vantaggio di Hamas.

In questo processo, Israele può avere fatto pendere la bilancia all’interno del campo palestinese in favore di Hamas e della Jihad islamica (contro Fatah), come voci autentiche di resistenza.

La presa di posizione dell’Iran sembra giustificata, ed inoltre gli alleati segreti di Israele, come la Giordania o le oligarchie del Golfo Persico, sono stati costretti a fare un passo indietro.

La lotta per imporre un “cambio di regime” in Siria diventa sempre più complicata, così pure l’agenda degli oppositori della resistenza. Nel bel mezzo del vortice nella regione, le mosse repentine di Gran Bretagna e dell’Unione europea di questa settimana per accordare un riconoscimento diplomatico all’opposizione siriana tradiscono il nervosismo su questa linea.

Il punto è che, fintanto che la questione palestinese rimane al centro del tavolo, l’Occidente avrà difficoltà a rendere razionale la propria squilibrata priorità per un “cambio di regime” in Siria – mentre l’Occidente non fa nulla, d’altro canto, per contribuire a risolvere la questione centrale del conflitto arabo-israeliano.

Quindi, Israele può aver fatto un cattivo servizio agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Francia e ai loro alleati nella regione, portando nuovamente al centro dell’attenzione il problema irrisolto palestinese.

Allo stesso modo, mentre l’Egitto fa da mediatore per un cessate il fuoco nel conflitto in corso, Israele non può aspettarsi che l’Egitto imponga il blocco israeliano di Gaza al valico di confine di Rafah, o che faccia rivivere la cooperazione di intelligence dell’era Mubarak.

Vale a dire, Morsi potrebbe avere semplicemente cercato di tener testa per il presente alle pressioni dei suoi competitori, mentre continueranno i suoi orientamenti strategici rispetto alla questione palestinese e sui rapporti dell’Egitto con Israele.

Morsi ha già dimostrato di essere un maestro della tattica, e da lui ci si può aspettare che mantenga Israele sulle spine per quanto riguarda le sue intenzioni.

La prova del nove sarà il Sinai, che attualmente è una polveriera. Non ci sono soluzioni facili per riportare il Sinai, dove ora non vige legalità, sotto l’autorità di Israele e dove i miliziani stanno riorganizzandosi, mentre i servizi di sicurezza dell’Egitto ne hanno perso autenticamente il controllo.

Le scelte che Israele deve affrontare sono pesanti, e l’attacco a Gaza potrebbe avere ulteriormente complicato le questioni.. Il difetto fondamentale nella strategia di Netanyahu è che attualmente il Medio Oriente è una regione mutata completamente.

Come ha analizzato Nic Robertson della CNN, ora Hamas si trova in una posizione completamente nuova. Ancora intrappolata all’interno di confini che delimitano un territorio sovraffollato con una popolazione accalcata nei quartieri stipati di Gaza, che sei anni fa aveva eletto Hamas, solo ora può confidare su più amici all’esterno.

Il cambiamento è arrivato sulla scia della Primavera araba che ha spazzato via alcuni dei vecchi alleati di Israele nella regione, sostituendoli con dirigenti più in sintonia con Hamas …

L’Egitto è ben lungi dall’essere l’unico paese nella rivoluzione regionale che comincia a isolare Israele … Pertanto, cosa rimane ad Israele? In poche parole, mentre Israele è più forte militarmente, si trova in una posizione politica più debole di quanto non fosse nel 2009.

La retorica politica egiziana di oggi, mentre non è all’altezza di abrogare il trattato di pace con Israele, ha decisamente assunto una linea filo Hamas.

Il mondo arabo nella sua universalità si dimostra avverso al trattamento che lo Stato di Israele impone ai Palestinesi. In passato molti leader arabi erano dei dittatori che prendevano direzioni di percorso molto diverse dai punti di vista manifestati per le strade arabe. Ora non più. I leader della regione democraticamente eletti nel periodo successivo alla Primavera Araba sono fin troppo consapevoli che integralisti radicali sono in attesa di un’opportunità.

Obama sembra comprendere il problema guardandolo dritto in faccia, e vede l’assoluta necessità di mettere mano ad una ristrutturazione fondamentale del dialogo degli Stati Uniti con il mondo musulmano.

Nella sua prima conferenza stampa dopo la vittoria elettorale di mercoledì scorso, Obama ha fortemente sottolineato il fatto che la sua mente sia concentrata nell’impostare la politica degli Stati Uniti quasi esclusivamente sui problemi rappresentati dalla Siria e dall’Iran.

Sufficiente per dire che Obama ha tenuto saldi questi suoi propositi anche quando Netanyahu lo ha sottoposto a pressioni al momento del precipitare della crisi su Gaza, e questo è un indizio che la sua strategia è ben lungi dall’essere labile.

Al contrario, Obama arriverà per costrizione, prima di quanto immagini Netanyahu, a rompere l’impasse che sta ora danneggiando seriamente gli interessi di lunga prospettiva degli Stati Uniti in Medio Oriente.

Il cuore della questione è che la strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente deve affrontare una crisi profonda, e a meno che, e fino a quando, le profonde contraddizioni non saranno risolte, gli Stati Uniti non potranno uscirne favorevolmente, o amministrare con oculatezza le loro risorse per “riequilibrarle” in Asia, dove si prefigura una storica sfida ai più larghi destini degli Stati Uniti come superpotenza.

Ci sono momenti in cui nell’ebbrezza della vittoria di una battaglia, può sfuggire all’attenzione che la guerra sia stata persa. Questo potrebbe essere uno di questi momenti. Netanyahu può aver vinto la battaglia nel costringere Obama a sostenerlo, ma non è lontano il tempo in cui si renderà conto che, dopo tutto, non si è trattato di una vittoria.

di M. K. Bhadrakumar

http://www.atimes.com/atimes/Middle_East/NK22Ak03.html

Medio Oriente, 22 novembre 2012

L’ambasciatore Melkulangara Bhadrakumar è stato diplomatico di carriera presso il Servizio per gli Affari Esteri indiano. I suoi incarichi hanno riguardato l’Unione Sovietica, la Corea del Sud, Sri Lanka, Germania, Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Kuwait e Turchia.
Bhadrakumar è uno specialista per le questioni concernenti l’Afghanistan e il Pakistan, e scrive sui temi dell’energia e della sicurezza per diverse pubblicazioni tra cui “The Hindu”, “Deccan Herald” e “Asia Ondine”. Vive a New Delhi.
Bhadrakumar è il figlio maggiore del defunto MK Kumaran (1915-1994), un famoso scrittore comunista, giornalista, traduttore e attivista del Kerala.

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *