Utilizzare una chiave interpretativa corretta per il presente ci permetterà anche di ricordare e comprendere meglio la realtà e le trasformazioni sociali avvenute dal 12 dicembre del 1969, inizio della strategia della tensione che vogliamo ricordare come devastante pianificazione di una contrapposizione frontale all’ avanzamento delle lotte operaie e quindi un salto di qualità della repressione intesa in un senso più complessivo.
Chiusa la parentesi della “memoria storica”, per entrare nel merito delle questioni poste dall’ordine del giorno, vogliamo innanzitutto mettere in evidenza una considerazione che tutti e tutte diamo come scontata nelle nostre analisi, ma che vale sempre la pena di sottolineare e cioè come la repressione sia e permanga come elemento strutturale costante del sistema economico e sociale capitalistico.
Repressione che ha i mille volti che il capitalismo mostra e muta in relazione ai rapporti
di forza che si esprimono in una data fase del conflitto. Come anche, in un quadro più generale, mutano e si trasformano gli strumenti utilizzati dal capitalismo per il mantenimento del proprio dominio di classe : strumenti come guerra o terrorismo e stragismo di stato, o forme di controllo sociale più fini, pervasive e coinvolgenti dal punto
di vista “culturale” e comportamentale.
Questo vuol dire che la repressione può essere dittatoriale, militare, come anche può assumere una forma di compressione e di regolamentazione di diritti con il sostegno mediatico e di costruzione ideologico di modelli comportamentali criminalizzanti per chi
si schiera da un punto di vista di classe e non accetta la “razionalità” del modello produttivo capitalista.
L’utilizzo parallelo di molti di queste opzioni, come strumenti di sopravvivenza del capitalismo a questa crisi strutturale, ci fa pensare oggi ad una società che potremmo definire di “democrazia autoritaria”, ma l’articolazione di questa definizione ci porterebbe su un’analisi complessiva della fase che in questo ambito sarebbe interessante declinare ma ci porterebbe fuori dall’oggetto della discussione.
Fatte queste brevissime premesse ci interessa soprattutto sottolineare e riportare quella che è la nostra esperienza diretta di repressione in relazione ad un percorso di lotta che tra alti e bassi, vittorie e sconfitte, sta probabilmente rappresentando uno dei punti più caldi di scontro con la controparte di classe.
La logistica, le cooperative, il settore della movimentazione merci sono in qualche maniera paradigmatici delle linee di tendenza che il capitalismo italiano sta percorrendo dal punto di vista della trasformazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro.
Una trasformazione progressiva del mercato del lavoro sintetizzabile con il cosiddetto piano Marchionne: lavoro = perdita di diritti impostata su relazioni sociali e sindacali in senso autoritario che nelle cooperative è già realtà da molti anni.
In particolare la situazione dei lavoratori immigrati nelle cooperative è ancor più, da questo punto di vista, significativa per la loro condizione di ricattabilità e “fame”, per condizioni oggettive, di qualsiasi forma di sostentamento.
Le lotte di questi ultimi anni, che hanno visto con prepotenza emergere un proletariato immigrato, hanno incominciato a mettere in discussione la “normalità” di questo pacchetto repressivo che prevede la completa subordinazione del lavoratore ad ogni decisione dell’azienda.
Sfruttamento bestiale, violenza verbale e fisica da parte di capetti molte volte legati alla criminalità organizzata, salari bassi con orario di lavoro spezzato e distribuito durante la giornata, irregolarità in busta paga, lavoro nero, arbitrarietà nella distribuzione del monte ore lavorate e tutto questo con la copertura e molte volte proprio con il supporto dei sindacati collaborazionisti cgil cisl uil che firmano l’impossibile pur di gestire l’ordinarietà dello sfruttamento di classe.
Quindi, se vogliamo ragionare sulla repressione in senso più ampio dandogli il significato
di un insieme di dispositivi atti a bloccare e reprimere o rendere impossibile l’insorgere di momenti di conflitto, il primo elemento repressivo che vogliamo sottolineare è la precarietà strutturale delle nostre vite.
Ma questa condizione ha prodotto uno scatto di dignità per le condizioni di sfruttamento spesso disumane, portando a lotte anche molto dure dal punto di vista della radicalità
dei contenuti e delle modalità che si sono scontrate con una repressione militare assolutamente inusuale e probabilmente mai vista negli ultimi decenni davanti ai cancelli di una fabbrica.
Queste lotte sono partite in sordina, pian piano allargandosi sulla base del principio che la lotta può pagare e con l’assunzione di dignità e identità di classe di quei lavoratori, all’inizio titubanti, ma che dopo il primo sciopero si rifiutavano di piegare la testa e rientrare al lavoro alle stesse condizioni originarie.
Di quei lavoratori che hanno visto trasformarsi in rabbia quella iniziale ingenua totale fiducia nelle istituzioni democratiche dopo aver assaggiato le prime “democratiche” manganellate mentre difendevano la loro dignità e i loro diritti.
Di quei lavoratori che nella concretezza della pratica del conflitto hanno accresciuto la consapevolezza di essere classe e praticare l’unica arma in mano ai lavoratori e cioè la lotta, l’autorganizzazione senza più delega e la solidarietà che sa provare chi sa di essere dalla stessa parte della barricata.
Da questo punto di vista gli stessi obbiettivi sindacali di egualitarismo per orari e salari poneva la condizione per un’assunzione di responsabilità collettiva e di un fronte comune.
In queste lotte abbiamo infatti visto lavoratori di cooperative diverse sostenere altri lavoratori di altre cooperative, consci che la lotta è unica per tutti e che la vittoria in un’azienda può essere poco significativa se non riesce ad estendere le stesse condizioni migliorative a tutti gli altri posti di lavoro ponendo quindi in maniera oggettiva, anche se non assunta soggettivamente in maniera cosciente, il problema di una trasformazione più complessiva della società
Certo è che questi sono processi lunghi e raccontare esperienze molto significative e formanti, anche dal punto di vista personale per compagni abituati a lotte più “politiche” in senso stretto, non vuol dire certo dire essere riusciti a innestare processi rivoluzionari ma solo che la pratica di massa è l’unico elemento dirimente in relazioni alle analisi più complessive che si fanno e che la pratica può anche essere sconfitta, fatica, relazioni umane e politiche difficili ma sempre nella convinzione che la prospettiva individuata sia quella giusta.
Correttezza della direzione suffragata, oltre che da un’analisi di fase sulle tendenze del capitalismo italiano, anche più concretamente dalle numerose vittorie vertenziali e politiche che si sono riportate e che ancor oggi si riescono a raggiungere aumentando cosi il fronte di lotta e il numero di lavoratori disposti a mettersi in gioco.
Tornando al tema repressione, la premesse fin qui poste sono state quelle di un movimento politico sindacale che si è allargato a molti dei nodi centrali della logistica in Italia (GLS-SDA-TNT TRACO-BARTOLINI…) riuscendo quindi a uscire dai confini della Lombardia per toccare altre regioni chiedendo e trovando unità d’azione con altre strutture sindacali,
Questa continua condizione di conflitto ha creato le condizioni perchè l’ Asso Logistica (la confindustria della logistica) in accordo con lo stesso ministero dell’interni decidesse di intervenire per porre un freno alle lotte.
Un freno repressivo che innanzitutto ha posto la contrattazione aziendale su un piano di scontro frontale per l’imposizione di un potere su un altro, ovverossia che abbiamo assistito ad una progressiva trasformazione di una normale vertenza sindacale, pur decisa e determinata quanto si voglia, in scontro politico a tutto campo dove il nemico di classe ha tirato fuori tutto il repertorio di copertura mediatica, di repressione militare di concertazione sindacale e istituzionale.
In sintesi anche uno sciopero per buoni mensa come forma di recupero di salario indiretto si è trasformato in scontro che metteva in discussione “il comando” e il potere all’ interno del luogo di lavoro.
Logica di acutizzazione dello scontro seguita da un’immediata volontà repressiva che diventava un monito preventivo proprio per fermare l’ allargarsi delle lotte, un segnale di allarme che delimitava paletti oltre il quale c’erano solo legnate e militarizzazione dei cancelli e più che questo, soprattutto la tremenda consapevolezza che ogni picchetto duro e ogni camion fermato si poteva trasformare in licenziamenti su licenziamenti in aumento giorno per giorno.
Abbiamo incominciato a comprenderlo quando, dopo già numerosi picchetti in altre cooperative probabilmente minori, siamo arrivati ad un colosso della logistica, la Gls di Cerro al Lambro, dove non abbiamo visto le solite auto di polizia e carabinieri in veste di controllo dissuasivo, ma la truppa, tanta, troppa truppa schierata davanti ai cancelli e subito da li è partita immediatamente una carica prolungata con particolare violenza indirizzata ai lavoratori immigrati per terrorizzarli e farli desistere.
Una condizione particolare di tensione repressiva , con un carattere anche preventivo, perdurata per più di 40 giorni con la presenza costante di decine di poliziotti o carabinieri davanti ai cancelli che non siamo più riusciti a sbloccare.
Da quel ciclo di lotte è ormai passato qualche anno ma dopo quel forte segnale e quel messaggio chiaro e inequivocabile , un’ “ora basta” indirizzato anche al sindacato SiCobas e alle strutture solidali tra cui la nostra, ora ci troviamo davanti ad una chiusura militare senza alcun tipo di mediazione appena la lotta assume caratteristiche di radicalità con blocco delle merci anche in presenza di rapporti di forza favorevoli dal punto di vista dell’adesione operaia agli scioperi.
Questo non ha però rappresentato una battuta d’arresto per le lotte ma ci ha fatto meglio ragionare e inmaniera più elastica sulle tattiche da seguire volta per volta, azienda per azienda picchetto per picchetto.
E comunque non vogliamo qui e ora fare l’elenco dei picchetti trasformatisi quasi in barricate, con cariche feriti e arresti, ma le immagini tv della carica dei crumiri che attaccano il picchetto all’Esselunga di Pioltello e quelle dell’aggressione poliziesca davanti ai cancelli del magazzino il Gigante di Basiano con 20 lavoratori arrestati e con un lavoratore in coma manganellato a terra dai carabinieri, come le ultime cariche con lancio di candelotti davanti ai cancelli del polo logistico ikea di Piacenza pensiamo siano sufficienti per farsi un’idea dell’ approccio padronale alle lotte autorganizzate e non concertative.
Una pratica di contrapposizione militare e di criminalizzazione che viene scientemente utilizzata la dove ci si ponga su un piano di incompatibilità politica oltre che economica.
In questo senso stanno anche provando a pianificare una serie di provvedimenti giudiziari che portino a processo i lavoratori e soprattutto i militanti delle strutture di supporto per la loro pratica di sostegno alle lotte e a questo proposito segnaliamo che 26 compagni e compagne del Sicobas e del Csa Vittoria saranno sul banco degli imputati nel prossimo gennaio per il primo vittorioso ciclo di lotte e picchetti ai magazzini Bennet di Origgi.
Stiamo assistendo ad una manovra politica a tenaglia che vuole costringere il fronte di lotta su un terreno di compatibilità, di concertazione, di atteggiamento collaborativo, di pacificazione della combattività operaia in continuità all’opera di contenimento filo padronale dei sindacati confederali.
Quindi repressione come elemento squisitamente politico che diventa normalmente “illegale” anche su un piano giuridico quando i licenziamenti che si succedono sono, l’un dopo l’altro, basati su criteri di discriminazione politica e sindacale.
La crisi che stiamo attraversando tende a restringere sempre di più ogni spazio di mediazione politica ed economica.
La strategia social-capitalista di riuscire ad attraversare questa difficile fase con l’illusione di provvedimenti tampone all’insegna di una tanto decantata ma mai vista equità sociale, è una bugia per chiedere ancora sacrifici alle classi subalterne.
Questa crisi sta riducendo i margini di profitto che si vogliono invece recuperare con il taglio alle spese sociali e la riduzione oggettiva dei salari e il nuovo accordo sulla produttività rappresenta l’ultimo capitolo di un ciclo di precarizzazione delle nostre vite che vuole definire in maniera definitiva i rapporti tra capitale e lavoro.
Con questi presupposti crediamo vitale per il capitale riuscire da una parte ad imporre ideologicamente la sottomissione alla proprie esigenze di sopravvivenza e dall’altra applicare un sistema di controllo sociale basato su ricatto e precarietà in cui la repressione sarà elemento sempre più evidente.
Per concludere, crediamo che la determinazione dei lavoratori delle cooperative possa essere ben superiore ai disegni repressivi, come la capacità di resistenza del popolo della Val Susa alla fine prevarrà sugli interessi capitalistici se saremo capaci, insieme a tutti gli altri fronti di lotta, di cogliere e trasformare in coscienza di classe le condizioni oggettive di rabbia e malessere che la crisi pone, se riusciremo a prefigurare un superamento dell’attuale sistema economico e sociale, se saremo in grado di avviare un processo di ricostruzione di un immaginario che preveda la trasformazione radicale dell’esistente nella consapevolezza che non permetteranno mai che ciò avvenga in maniera pacifica.
Pace sociale vince il capitale . Lotta di classe vincono le masse.
I compagni e le compagne del Csa Vittoria di Milano
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