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Il lavoro si riprende la parola

Le strade di Roma hanno mandato segnali importanti. Nel giorno in cui al Senato si discuteva del decreto Poletti sul lavoro (o meglio sulla precarietà senza limiti), migliaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori hanno occupato snodi centralissimi della Capitale come Piazza Venezia e Corso Rinascimento ed hanno portato la loro protesta fin dentro il Senato. Questa volta uno dei “palazzi del potere” non era vuoto, ma pieno di quelli che stanno decidendo sulla sorte di milioni di lavoratori; e che sono stati costretti a interrompere i lavori dal volantinaggio in aula da parte di alcuni sindacalisti dell’Usb. Fuori e a ridosso del “palazzo” altri lavoratori bloccavano la strada.

Poco prima migliaia di lavoratrici e lavoratori comunali avevano occupato prima la piazza del Campidoglio e poi invaso la sottostante Piazza Venezia contro il taglio dei salari che il decreto Salva Roma (o Ammazza Roma) impone all’amministrazione comunale della capitale.

L’imbarazzato e imbarazzante silenzio stampa su questa giornata di conflitto non deve trarre in inganno. Il colpo si è sentito e i lavoratori hanno preso parola affermando con forza che non sono disponibili ad accettare condizioni di schiavitù salariale per i “lavoratori di domani”, né a funzionare da bancomat per le misure antipopolari imposte dall’Unione Europea al nostro paese; sia a livello nazionale che delle singole amministrazioni locali.

Lontano da Roma, a Rimini, si celebra il congresso della Cgil dove si va consumando lo strappo tra la fine dell’epoca della concertazione con i sindacati dichiarata dal governo Renzi e quella attuale, l’epoca che non la prevede più se non nella forma della complicità.

Due scenari diversi: il primo indica il conflitto come strumento di difesa e affermazione degli interessi dei lavoratori, il secondo indica i lavoratori come variabile del tutto dipendente dal capitale e dai suoi istituti locali o sovranazionali. In questa divaricazione c’è la cifra della stagione di conflitto sociale che, una volta diradato il polverone elettorale, si aprirà nel paese.

Ne deriva una lezione da comprendere a fondo. Questa stagione può e deve in ogni modo vederci tutti al lavoro per la ricomposizione di un blocco sociale antagonista, a partire dalla individuazione/rivendicazione dei suoi interessi sia generali che immediati. Ritenere che il lavoro e le sue organizzazioni conflittuali non siano parte decisiva di questo blocco sociale, o addirittura contrapporre ad esso una nuova composizione “non garantita” (come sollecita esplicitamente il modello idologico di Renzi), può rappresentare una fuga dalla realtà che il movimento antagonista e di classe non può permettersi.

Il percorso da perseguire non può che essere quello di una solida e condivisa alleanza politica e sociale degli interessi di classe – non per questo meno faticosa e complessa, nella pratica – da contrapporre agli interessi rappresentati dal governo Renzi e dall’Unione Europea.

Il prossimo semestre europeo a presidenza italiana può rappresentare efficacemente il banco di prova di questa alleanza e delle sue potenzialità di resistenza, lotta, iniziativa. È la finestra temporale che mostrerà quanto le politiche “europee” costituiscano ormai l’ossatura imprescindibile di quelle “nazionali”. Politiche che vanno interdette, inceppate, contrastate ogni giorno, in ogni territorio e da tutte le “nostre” figure sociali. Nella prospettiva della rottura, perché questa Unione Europea non prevede di essere “riformata”.

 

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