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Santiago Carrillo: più ombre che luci

Risulta difficile affrontare l’analisi della figura di importanza storica – su questo non c’è alcun dubbio – rappresentata da Santiago Carrillo. E risulta ancora più complicato remare contro e non lasciarsi trascinare da questa ondata di ‘beatificazione’ che coinvolge molti di coloro che hanno partecipato a quell’immenso esercizio di gattopardismo politico che fu la cosiddetta Transizione spagnola.

Non pretendo assolutamente con queste poche righe infierire su chi non può più replicare. Credo però sia necessario più che mai concentrarsi sul ruolo di Santiago Carrillo durante la Transizione. Più necessario che mai perché ci troviamo in un momento in cui quel regime sorto dalla Transizione è messo in discussione. Fino ad ora, al meno tra la maggioranza della popolazione, era stata accettata la versione ufficiale di una Transizione che ci aveva condotto verso uno stato di democrazia piena e di benessere ineguagliabile. Ora, anche se parliamo di una maggioranza sociale, ciò è quanto meno messo in discussione.

E il ruolo di Santiago Carrillo fu centrale in questo inganno, rappresentato dalla Transizione, in cui cadde la classe lavoratrice del nostro paese. Non possiamo dimenticare che era il Segretario Generale dell’unico partito di opposizione al franchismo organizzato e di massa. Per tanto, se si voleva che tutto cambiasse per non cambiare nulla, se si pretendeva che la stessa oligarchia continuasse a guidare il paese, era necessario neutralizzare il Partito Comunista di Spagna.

Il Partito Comunista di Spagna fu l’unica forza politica, di grandi dimensioni, che mantenne attiva la lotta contro il franchismo, e l’unica che mantenne la sua struttura all’interno del paese durante la dittatura. In questo il merito di Carrillo è discutibile, e sicuramente ci furono altri dirigenti e militanti che ebbero un merito maggiore del suo nel proseguimento della lotta. Inoltre – e questo è stato cruciale – il PCE ebbe la rara ‘abilità’ di sfinire o mettere da parte i quadri politici più preparati, indipendentemente anche dalle loro visioni o opinioni politiche, come dimostrano i casi di Joaquín Maurín, Fernando Claudín o Manuel Sacristán, che non ebbero l’influenza che il loro contributo intellettuale avrebbe meritato.

Carrillo, e il partito che lui dirigeva, attuarono durante la Transizione in maniera supplicante, e accettarono, in maniera implicita, di dover chiedere perdono per il fatto stesso di continuare a esistere. Questa posizione questuante si esplocitò in modo molto chiaro con la foto di tutta la direzione del PCE, capitanata da Carrillo, ritratti mentre accettavano la legalità monarchica e quella bandiera che era stata issata da coloro che avevano messo fine alla legalità repubblicana.

Non è facile capire se Carrillo formasse parte delle manovre tedesco-americane che propiziarono la Transizione, o se semplicemente cadde nella trappola che gli tesero e distrusse il Partito Comunista per ambizione o inettitudine.

Sarebbe estremamente grave se Santiago Carrillo avesse partecipato al processo iniziato dalla socialdemocrazia tedesca, in connivenza con la CIA, per la creazione di un PSOE che non avesse avuto più niente a che vedere con la tradizione del socialismo spagnolo, trasformandosi invece in uno strumento perfetto per l’instaurazione di un modello bipartitico. Il ruolo del PCE, nel contesto di questa operazione, avrebbe dovuto essere quello di un partito testimoniale che abbandonasse le prospettive di lotta in cambio di una presenza istituzionale.

Un’altra possibilità è che Carrillo si credesse il nuovo Togliatti e pensasse fosse giunto il momento della sua Svolta di Salerno, e se così fu il suo errore fu monumentale. Una formazione politica inconsistente, e una maledetta tradizione che incitava a copiare modelli altrui, condussero forse Carrillo a pensare che il PCE avrebbe potuto raggiungere risultati elettorali buoni quanto quelli che stavano ottenendo i suoi omologhi italiano e francese (Berlinguer e Marchais, ndr). Anche se il contesto spagnolo dell’epoca non poteva affatto essere comparato né con il momento della decisione di Togliatti né tantomeno con l’influenza che il PCI ebbe nella stesura della Costituzione Italiana.

Fatto sta che il PCE, in cambio esclusivamente della sua legalizzazione, rinunciò a tutto. Rinunciò a qualcosa di così importante per tutti gli esseri umani, e specialmente per i militanti politici, come sono i simboli: la lotta per la repubblica o la bandiera repubblicana i più significativi. Ed il PCE, guidato da Carrillo, distrusse le sue strutture organizzative e liquidò le cellule per dotarsi di organismi territoriali omologabili a quelle del resto dei partiti esistenti. Inoltre, affinché il cambiamento di modello organizzativo fosse accompagnato da un cambiamento della tipologia dei militanti, era necessario trasformarli in affiliati.

La responsabilità di Carrillo nella firma dei Patti della Moncloa è enorme. Quest’accordo, nel quale si santificavano la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’economia di mercato, fu respinto dall’UGT, il sindacato socialista, e da alcune sezioni delle CCOO, il sindacato allora legato al Partito Comunista, ma non da lui e dal suo partito. I Patti della Moncloa furono la certificazione della rinuncia alla lotta di classe al di fuori delle istituzioni e il via libera definitivo alla perpetuazione del potere dell’oligarchia sorta durante il franchismo. Alcuni dirigenti, come Francisco Frutos, molto più tardi Segretario Generale del PCE e allora dirigente del PSUC (Partit Socialista Unificat de Catalunya, ndr), descrivevano i Patti della Moncloa come una “autostrada verso il socialismo” e possiamo anche credere che Frutos lo pensasse, ma certamente è ingenuo crederlo di Carrillo.

E tutto ciò comportò i tristi risultati del primo appuntamento elettorale e una disillusione tale da accelerare il disfacimento del partito e l’assottigliamento rapido della sua militanza.

Carrillo non ha mai ammesso le sue responsabilità in questo disastro, e con la sua espulsione-fuoriuscita dal PCE cercò anzi di far intendere che il problema fossero il PCE e il comunismo stesso, ma mai i suoi errori e tradimenti. E’ certo però che Carrillo mise fine al Partido Comunista de España, cioè pose fine al PCE come progetto rivoluzionario e come strumento di trasformazione sociale. Inoltre, insieme con altri dirigenti, fu colui che pose le basi per la posteriore ‘dissoluzione morbida’ del PCE, perché questo fu, affinché il partito continuasse a esistere formalmente ma rinunciando ad un suo intervento politico autonomo.

Carlos Gutiérrez (militante del Movimiento de Izquierda Alternativa)

 

Di seguito la versione originale dell’articolo:

Carrillo: más  sombras que luces

Resulta difícil abordar el análisis de una figura histórica como ha sido, de eso no cabe ninguna duda, Santiago Carrillo. Y resulta aún más complicado remar contracorriente y no dejarse arrastrar por esa ola de “beatificaciónes” que se extiende sobre todos aquellos que participaron en ese inmenso ejercicio de gatopardismo político que fue la llamada Transición española.

De ningún modo pretendo en estas líneas cebarme con alguien que ya no puede replicar o hacer leña del árbol caído. Creo que es más necesario que nunca centrar el papel de Santiago Carrillo y  tratar de explicar cuál fue su papel en la Transición.  Y lo creo más necesario que nunca, por que nos encontramos en unos momentos en los que el régimen surgido de la Transición está en cuestión. Hasta ahora, al menos entre la mayoría de la población, se había aceptado la versión de una Transición que nos había llevado a un estado de democracia perfecta y de bienestar inigualable. Ahora, incluso si hablamos en términos de mayorías sociales, esto es, cuando menos, discutido.

Y el papel de Santiago Carrillo en ese engaño a la clase trabajadora de nuestro país que supuso la Transición fue central. No podemos olvidar que era el secretario general del único partido de oposición al franquismo organizado y de masas.  Por lo tanto, si se quería cambiar todo para que nada cambiara, si se pretendía que la misma oligarquía siguiese con las riendas del país, era necesario neutralizar al Partido Comunista de España.

El Partido Comunista de España fue el único, de tamaño significativo, que mantuvo la lucha contra el franquismo, y el único que mantuvo su estructura en el interior.  El grado de mérito de Carrillo en esta cuestión es discutible, y seguramente hay otros militantes y algunos dirigentes que tuvieron mucho más merito que el en este mantenimiento de la lucha. De igual modo, y esto ha sido crucial, el PCE tuvo la rara “habilidad” de apartar o aburrir a sus cuadros políticos más preparados, esto, independientemente de las diferencias de pensamiento,  lo podemos comprobar durante toda su historia, nombres como Joaquín Maurín, Fernando Claudín o Manuel Sacristán no tuvieron la influencia que merecía su bagaje intelectual.

Carrillo, y el partido que dirigía, actuaron durante la Transición  de un modo suplicante, y aceptaron que, de un modo implícito, debían pedir perdón por existir.  Esa postura suplicante se escenificó de un modo muy claro con la foto de toda la dirección del PCE, capitaneada por Carrillo,  aceptando la legalidad monárquica y la bandera que había sido enarbolada por los que acabaron con la legalidad republicana.

No es fácil discernir si Carrillo formaba parte de la operación germano-americana que propició la Transición, o sí cayó en la trampa que le tendieron y destruyó al Partido Comunista por ambición o ineptitud. Desde luego sería extremadamente grave que Santiago Carrillo hubiese participado en el proceso iniciado por la socialdemocracia alemana, en connivencia con la CIA, para la creación de un PSOE que no tenía nada que ver con la tradición del socialismo español, y que sería una perfecta herramienta para la instauración de un modelo bipartidista al uso. El papel del PCE, en el marco de esta operación, sería  el de un partido testimonial y  que abandonaba las perspectivas de lucha a cambio de una menguada presencia institucional.

La otra posibilidad es que Carrillo se creyese el nuevo Togliatti y pensase que había llegado el momento de su Svolta di Salerno, particular, si es así, su error fue monumental. Una formación política inconsistente, y una malhadada tradición, que  acostumbraba a copiar modelos, pudo hacer que Carrillo considerase que el PCE podría alcanzar resultados electorales tan buenos como los que conseguían sus homólogos italiano y francés. Desde luego que no se podía comparar ni el momento de la decisión de Togliatti ni toda la influencia que tuvo el PCI en la redacción de la Constitución Italiana.

Lo cierto el que el PCE, sólo a cambio de su legalización, renunció a todo. Renunció a algo tan importante para todos los seres humanos, y en especial para los militantes políticos, como son los símbolos: la lucha por la república o la bandera republicana son los más significativos. Y el PCE, liderado por Carrillo, destruyó sus estructuras y liquidó las células en aras a dotarse de unos organismos territoriales que fueran más homologables al resto de partidos. Y aún más, este cambio de modelo organizativo tenía que venir acompañado de un cambio del tipo de militante, era necesario ir mutando de militante a afiliado.

La responsabilidad de Carrillo en la firma de los Pactos de la Moncloa es vital. Este acuerdo, en el que se santificaban la propiedad privada de los medios de producción y la economía de mercado, fue rechazado por UGT, el sindicato socialista, y por algunas secciones sindicales de CCOO, por aquel entonces sindicato ligado al Partido Comunista. Los Pactos de la Moncloa fueron la certificación de la renuncia a la lucha al margen de las instituciones y  el paso definitivo para la consolidación del programa que iba a conseguir la perpetuación de la oligarquía surgida del franquismo. Algunos dirigentes, como Francisco Frutos, bastante más tarde Secretario General del PCE, y entonces dirigente del PSUC, calificaban a los Pactos de la Moncloa como una “autopista al socialismo”, podemos pensar que tal vez Frutos lo pensaba, pero sería demasiado ingenuo creer lo mismo de Carrillo.

Y todo esto trajo consigo los flojos resultados en la primera cita electoral y un desánimo que hizo que, a partir de ahí, la destrucción se fuese acelerando y  la militancia fuera descendiendo de un modo extremadamente rápido. Carrillo nunca acepto su responsabilidad en este desastre, y con su salida, expulsado, del PCE pretendió dejar claro que el problema era el PCE y el comunismo, pero de ningún modo sus errores o traiciones. Lo cierto es que Carrillo acabó con el Partido Comunista de España, acabó, al menos, con el PCE como proyecto revolucionario y como herramienta de transformación social.  Además el, junto con otros dirigentes, fue el que sentó las bases para la posterior “disolución blanda” del PCE, esto es, para que el PCE siguiese existiendo formalmente, pero que renunciase a la intervención política autónoma.

Carlos Gutiérrez (militante del Movimiento de Izquierda Alternativa)

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1 Commento


  • `vito terranova

    Fare una analisi del genere su Santiago Carrillo,mi sembra molto semplicistico.Sapevamo che la transizione,non si realizzava come volevamo noi,pero in quei tempi non c`era molto da scegliere,per iniziare un cammino verso una democrazia e libertà.(Bisogna avere presente la forza dell`esercito,come dopo si vide nel tentativo del colpo di stato,con la responsabilità anche del Re).
    Carrillo con tutti i suoi errori è morto comunista e repubblicano.
    In relazione all indebolimento del PCE,penso che la responsabilità ricada su la maggior parte dei dirigenti del momento,che non sono stati all`altezza della situazione,ne della base,.(Molti sono passati,da un giorno all`altro nel PSOE),
    I dirigenti si sono allontanati dalla base,come è capitato anche in Italia,Francia ecc.

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