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Rovesciare il tavolo

Una forte sinistra di classe, presente a se stessa non tanto e non necessariamente come puro dato numerico, ma sul terreno qualificante della consapevolezza storica e dell’identità culturale, avrebbe colto al volo il significato profondo d’un cambiamento che, qui da noi finge di raccontare se stesso attraverso le scelte di politica economica, l’attacco ai diritti o l’appello all’union sacrée di fronte alla patria in pericolo. Una sinistra vera avrebbe intuito soprattutto i gravi rischi legati al ruolo di laboratorio politico che la finanza assegna al “governo tecnico”, in vista di un inedito e per molti versi sconvolgente rovesciamento di antiche posizioni. Non è retorica: e inquietante, fa impressiona che apertamente si parli di “postdemocrazia”. Lo si fa, con la stampa indifferente, il consenso dei soliti intellettuali “aperti al cambiamento” e il silenzio di una sinistra che, come priva di strumenti di analisi, non fa più del presente la cerniera tra passato e futuro e l’alimento della dialettica tra dato teorico e azione concreta.

Una sinistra senza aggettivi, senza codicilli fatti apposta per dividere, una sinistra viva, se la sarebbe posta la domanda: ma è proprio normale che la borghesia metta in discussione Montesquieu? Rientra nelle nostre esperienze “vissute”, si può leggere semplicemente e semplicisticamente come un moderno “fascismo” il ruolo pedagogico che il “democratico” Monti assegna non al suo governo, ma addirittura a ogni Esecutivo in quanto Istituzione, nei confronti dei Parlamenti? E’ normale, o travalica il disegno fascista e apre una pagina nuova e più oscura il fatto che una borghesia s’immagini – e di fatto realizzi – un’Europa Unita che liquida il concetto borghese di “cittadinanza” tutelata da “Costituzioni” scritte da apposite assemblee elettive? Siamo di fronte a un’esperienza comune che sta nei confini delle nostre conoscenze storiche, o si delinea una sorta di moto eversivo preventivo, che parte dall’alto e ha nel mirino la cosiddetta “sovranità popolare”?

La risposta non è facile, ma è di certo negativa. Probabilmente non siamo di fronte a un “vissuto” che si “modernizza” e si contestualizza senza segnare soluzioni di continuità. E’ in atto una guerra feroce e non dichiarata per sostituire la tradizionale cultura di un “diritto costituzionale” con un “diritto dei trattati” che cancella non solo la delega, intesa come simulacro di consenso, ma ogni forma di partecipazione; una guerra per dare ad accordi tra governi il valore di voto popolare. E’ andata così da Maastricht al Fiscal Compact e non si tratta di “pratica politica”, ms di mutamento genetico, di una filosofia della storia che pensiona Montesquieu, La stretta di un “nuovo” che non si dichiara è ormai soffocante e c’è il rischio che la difesa dei diritti scivoli a destra, nel fango dei nazionalismi, o si colori delle tinte fosche di un antieuropeismo che nella Grecia violentata fa già le sue prove allarmanti e sa di nazismo.

Se la cultura borghese sconfessa se stessa, occorre forse che siamo noi a salvarne ciò che di essa è a poco a poco diventato figlio della nostra storia, eredità di lotta e ci appartiene, perché siamo stati noi a innervarla di vita vera la “democrazia” borghese, noi a dare muscoli e sangue agli Istituti creati dalla borghesia per garantirsi pace sociale quando il saggio di profitto lo consentiva. E’ così per il sindacato – al di là delle sue degenerazioni – così per i partiti, così per la partecipazione. Ci si può dividere sui modi, ma su un dato oggettivo si può e si deve stare uniti: “pensiero unico neoliberista” e feticcio monetario sono i pilastri su cui poggia un disegno di annichilimento della persona, che costituisce l’anima della “postdemocratica”. In questo senso, la creazione di una nuova area monetaria, con l’abbandono dell’euro, la nazionalizzazione delle banche e il rifiuto di pagare il debito, potrebbero rappresentare la via obbligata per profittare della crisi della democrazia borghese e costruirne una nostra, vera, che nasca dal basso, ripristini i diritti sociali di che lavora e di chi il lavoro non ce l’ha e torni a porre il tema fondamentale dell’emancipazione in termini di nuova “Costituzione”.

Dobbiamo trovare il coraggio di dirlo: non è vero che prima di tutto viene il lavoro. L’abbiamo visto all’opera quest’inganno, in decenni di storia repubblicana. E diventato solo rassegnazione: lavoro è anche call-center”, interinato, prestito e sfruttamento condotto alle estreme conseguenze. E allora no, allora il nuovo articolo uno deve essere l’emancipazione dal feticcio del lavoro, perché il lavoro per il capitale significa schiavitù. Alla borghesia “postdemocratica” va lanciata la sfida sul suo terreno: voi ci volete servi e ci chiamate lavoratori, ma sbagliate, perche per noi lavoro è diritto di libertà e garanzia di dignità a tempo indeterminato.

Nunc et semper. Fino alla fine.

Qui si rovescia il tavolo, qui si fa avanzare un’alternativa, qui si scava, se necessario, la trincea. E poi si vedrà.

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