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Salari ridotti, classe frammentata. Un futuro da combattere

L’accordo sulla produttività siglato da Confindustria, altre associazioni datoriali, CISL, UIL e UGL il 16 Novembre scorso, è l’ultimo di una serie di accordi (tutti allegati in fondo all’articolo) che negli ultimi tre anni hanno modificato l’assetto relativo alla contrattazione e alla rappresentanza.
Ricostruire sinteticamente questa storia è utile per capire gli interessi in campo e le tendenze: un rapido confronto con paesi dove modelli simili sono già applicati può darci un’idea del futuro che ci aspetta.

Il 22 Gennaio 2009 Confindustria, CISL, UIL e UGL firmano l’accordo quadro sulla riforma della contrattazione, che supera l’Intesa del 1993. Parte normativa e parte economica diventano di durata triennale – prima duravano rispettivamente quattro e due anni – e si formalizza l’introduzione generale della cosiddetta contrattazione di secondo livello, aziendale, che si affianca al CCNL e può normare, sulla base di deroghe al CCNL, su orari, salario accessorio, produttività d’azienda. L’adeguamento salariale non è più legato all’inflazione nominale ma all’IPCA depurato del costo dei beni energetici importati. Viene inoltre delineato un percorso di certificazione della rappresentanza sindacale su base nazionale, unendo i dati relativi agli iscritti con i dati elettorali delle RSU. La CGIL, pur avendo condiviso un’intesa con gli altri sindacati non molto dissimile dall’accordo, non firma per divergenze sull’indice di rivalutazione del salario di base in sede di rinnovo contrattuale e sulle clausole di salvaguardia della contrattazione aziendale.

Ad Aprile 2009 l’accordo viene recepito all’interno di un’intesa per il Pubblico Impiego.

Nel 2010 c’è lo “strappo” di Pomigliano: la neonata società “Fabbrica Italia”, fuori da Confindustria, sigla un contratto aziendale con FIM e UILM con profonde modifiche su orari e turni e soprattutto col divieto di scioperare contro il contratto siglato.

Il 28 Giugno 2011 Confindustria e CGIL-CISL-UIL firmano un’intesa sulla rappresentanza sindacale, sulla scia dell’accordo del 2009: la rappresentanza certificata secondo le nuove regole è l’unica titolata a firmare i contratti.

Due sono, quindi, le linee di tendenza in atto: superare il contratto collettivo nazionale spostando sempre più peso contrattuale su quello aziendale e rafforzare, attraverso meccanismi di certificazione della rappresentanza, il ruolo e il peso dei sindacati concertativi.

E’ evidente che, in tempi di crisi economica e di debolezza politica della classe, lo spostamento di peso sulla contrattazione aziendale significa automaticamente abbassamento del salario, non solo perchè la classe, frantumata, non è in grado di esercitare un’azione efficace, ma anche perchè legando il salario accessorio alla produttività si scaricano ulteriormente i costi della crisi sui lavoratori.

La riforma degli istituti della rappresentanza, invece, serve a togliere completamente peso ad ogni forma di autorganizzazione dal basso dei lavoratori che, anche in azienda, non possono esprimersi sul contratto, essendo i sindacati “certificati” gli unici titolati: in questo modo possiamo già immaginare l’orrendo mercimonio di diritti svenduti in cambio di posizioni di potere.

La chiave di volta, comunque, è Pomigliano: l’uscita di una società da Confindustria consente di contrattare senza alcun vincolo di accordo precedente, quindi anche al di fuori del meccanismo di bilanciamento tra contratto nazionale e contratti aziendali. In una fase di debolezza della classe ciò significa poter imporre condizioni di lavoro e salariali anche peggiori di quelle che già si potrebbero ottenere sulla base degli accordi.

Il “futuro” è questo: del resto è ciò che succede da anni in Germania (paese al quale ci avviciniamo come modello contrattuale), dove nel corso degli anni il numero delle imprese associate alla Confindustria tedesca è costantemente diminuito, e dove nel 2010 il 50% dei lavoratori non rientrava nè nel contratto nazionale nè nel contratto aziendale: di fronte al complesso meccanismo di deroghe, infatti, i padroni tedeschi, uno su tutti la Volkswagen, preferiscono uscire dai vincoli associativi e contrattare direttamente col singolo lavoratore.

Gli effetti sono evidenti, sia in Fabbrica Italia, dove è stato imposto un contratto capestro che ha fatto scuola in particolare per l’attacco al diritto costituzionale di sciopero, sia in Volkswagen, dove l’ultimo aumento salariale del 3,2% (la metà di quanto richiesto dalla IG Metall) non ha compensato i precedenti anni di moderazione salariale, né altre pratiche antioperaie come l’introduzione della settimana lavorativa di 4 giorni con decurtazione salariale o la delocalizzazione in paesi con ridotto costo del lavoro.

Un obiettivo economico – ridurre il salario – e uno politico – frammentare la classe, indebolirne le capacità di risposta -: attualmente entrambi sembrano pienamente raggiunti, da parte padronale, con la complicità dei sindacati gialli. Come, e a partire da cosa, possiamo invertire la rotta?

Allegati:

Accordo Produttività 16/11/2012

Accordo Rappresentanze 28/06/2011

Accordo Fabbrica Italia 15/06/2010

Accordo quadro 22/01/2009

* http://lacuocadilenin.noblogs.org

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