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Guerra, piani Marshall e austerità

La realtà sa presentarsi in modo davvero, ma apparentemente, paradossale. Non passano che pochi mesi dalla presa d’atto della sostanziale difficoltà con cui i poli imperialisti in competizione cercano di sfogare le rispettive mire di egemonia, che una grave emergenza sanitaria dà il là a quel terremoto che segnerà, in una forma o nell’altra, una svolta decisiva per gli equilibri geopolitici mondiali, da molto tempo in “stallo” a dispetto di missili e dichiarazioni bellicose.

Come se non bastasse, queste prime scosse fanno decisamente a pugni con la situazione di “arresti domiciliari forzati” con cui l’intero paese, e ormai anche il resto d’Europa, si trova a dover fare i conti, tra la comprensibile voglia di “uscire fuori e fare quel che è necessario” per cambiare i rapporti di forza in essere e la consapevolezza che le quattro mura di casa sono il luogo migliore, per sé e per gli altri, dove spendere l’attesa.

Ma le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, nonché i governi delle altre regioni del pianeta alle prese (per tempi di espansione o “volontà politiche”) con focolai paragonabili a quelli in Italia, non attendono certo “che passi la nottata”. Mettono in moto tutti i proprii strumenti per farsi trovare nella miglior posizione possibile nel momento in cui lo scontro – di nuovo, indipendentemente dalla forma con cui avverrà – emergerà con la forza che solo i tornanti storici sanno esprimere.

La faglia che si è aperta nella classe dirigente

In questa partita, è di grande interesse la mossa effettuata da quel pezzo di borghesia nostrana che trova voce, tra gli altri, nel quotidiano Milano Finanza e che nei giorni scorsi ha messo sul piatto una serie di questioni dirimenti. Tutte, dalla prima all’ultima, intimamente politiche: l’Unione europea per come è stata raccontata (non certo per come si è sempre rivelata) è morta; il neoliberismo per come è stato raccontato (non certo per come si è sempre rivelato) è morto; per resuscitare c’è bisogno di un nuovo piano Marshall, per questo secolo, però a valle di mamma Cina. La quale anche, per come è stata raccontata… non è mai esistita in quelle fattezze.

Ci sarebbe da far cascare dalla sedia mezzo paese, non fosse per la confusione assordante generata, in qualche modo anche comprensibilmente, dagli aggiornamenti quotidiani sui “numeri del coronavirus”.

Partiamo dalla logica e dalle proposte. A differenza della narrazione acritica presente sull’argomento, la sedicente “Europa dei popoli” muore col suo atto istitutivo più importante, Maastricht 1992, e viene sepolta a un passo dalla nascita suo fiore all’occhiello, l’Euro, battezzato  in Jugoslavia nel 1999.

Da allora ogni mattone posto a fortificare l’architettura dell’Unione rappresenta contemporaneamente una falla per la coesione e la solidarietà interna dei paesi (si intende al livello di Stati, non certo delle popolazioni): si pensi alla fallita Costituzione europea, al Tfue, al “six-pack”, al Mes, al “fiscal compact”, al “two-pack”. Trattati dagli acronimi incomprensibili, che dovevano rendere invisibile ai più ogni passo elaborato per cementificare i rapporti tra i membri (tesi prima della morte dell’Ue), hanno di fatto condotto alla disgregazione dell’intero impianto. Così come quel pezzo di borghesia la registra oggigiorno (tesi della “morte dell’Ue”).

Operazione fallita dunque, dicono, meglio cambiare strategie politiche e, perché no, politiche economiche. Tra le altre cose infatti, come accennato, l’idea di ridurre lo Stato a guardiano della competizione tra capitali, affinché alcuni paesi “virtuosi” potessero tirare meglio le fila dei movimenti di merci, denaro e persone (versione tedesca del neoliberismo, noto come ordoliberismo), ha prodotto l’abbattimento delle tutele lavorative e sociali faticosamente conquistate negli anni delle lotte operaie, mettendo in competizione forzata milioni di lavoratori in una macroregione che ha visto convergere tendenzialmente al ribasso (alcuni sono andati meglio, molti invece peggio) i salari, e deprimendo perciò le possibilità di consumi e profitto. Se il lavoratore non può comprarsi la nuova macchina elettrica è un bel problema per i costruttori, e anche sul lato mercati finanziari si sono visti tempi migliori.

Per questa ragione, meglio far rientrare dalla finestra ciò che era stato sbattuto fuori dalla porta, ossia lo Stato. Quindi via con l’assunzione pubblica per tutti quei lavoratori che dovessero perdere il posto di lavoro in questa emergenza (e il “Jobs Act” ne ha destabilizzati parecchi); shock fiscale a sostegno della domanda aggregata, in barba a chi continua a vedere nell’offerta di lavoro il motore dell’economia; richiesta di ingente sostegno economico in cambio di affiliazione geopolitica al paese che meglio ha reagito alla pandemia, e che con più forza si candida a essere l’antagonista degli Stati uniti sul trono dell’egemonia globale. La Cina comunista val bene la messa.

Quando si invoca un piano Marshall il significato “materiale” è presto detto ed è riassumibile in un verbo: ricostruire. Che implicitamente significa ammettere che c’è stata già – ed è in corso a velocità crescente – una distruzione di dimensioni belliche. Ma il portato politico dell’azione rimanda anche alla costituzione di un blocco alleato, e subalterno, in grado di essere prima trincea dinanzi al nemico.

Questi due remainder danno seguito a due ordini di idee, uno di carattere speculativo e uno più concreto.

Il primo è che l’isolamento del paese, dovuto alla disgregazione dei legami europeisti, lo ha messo nella condizione di poter essere ago della bilancia, in loco, nel crescente confronto tra Stati Uniti e Cina, con i due colossi a fare “gara di solidarietà” per accaparrarsi il partner strategico nel sempre più centrale Mediterraneo. Tweet di Trump e visite di Pompeo da una parte, e medici e mascherine dall’altra, ne sarebbero l’espressione, mentre il resto dell’“Unione che conta” ha dato il benservito a Roma con le parole della Lagarde, con la riforma del Mes (probabile la chiusura oggi, durante la riunione dell’Eurogruppo) che provvederà invece a trascriverle nero su bianco.

Il sogno di un Piano Marshall

Sia chiaro che la tesi della disgregazione dell’Ue è tutta tranne che già data, qui si tenta solo di raccordare i fili a partire dalle raccomandazioni avanzate. Ma, speculazioni a parte, spesso destinate a essere smentite in momenti di profondi cambiamenti, è il secondo ordine quello più interessante: l’invocazione di un nuovo piano Marshall segue il riconoscimento che il capitale in eccesso distrutto è abbastanza grande da dover immaginare un piano di ricostruzione paragonabile, idealmente s’intende, a quello successivo alla Seconda guerra mondiale.

I piani di austerità allora sono stati una guerra combattuta nei luoghi di lavoro, hanno talmente affossato la ricchezza di questo paese che un nuovo ciclo di accumulazione basato su politiche economiche espansive sarebbe di nuovo possibile, a partire da investimenti che – qui – nessuno si può permettere di osare.

In ballo c’è la transizione energetica dai combustibili fossili, il partenariato strategico con il prossimo, possibile, boom economico del continente africano e l’aggancio alla locomotiva cinese, ben più performante (e magari generosa) del trenino tedesco. Quello statunitense invece sembra essere da tempo a corto di carburante.

In chi reclama oggi una rinnovata collaborazione tra Capitale e Lavoro c’è tutta l’ammissione che la guerra-non-guerreggiata del primo al secondo è finita perché i margini di sfruttamento sono oramai insufficienti. La “new economy” ha terminato presto la sua spinta, l’agricoltura la fanno le macchine, l’industria è perlopiù delocalizzata e sempre più automatizzata, lo Stato sociale è stato già spolpato, il terziario avanzato non può impiegare altre grandi porzioni di forza-lavoro. Se si vuole evitare la palude, meglio ripartire subito, c’è spazio abbastanza.

Eccolo dunque, il secondo grande rimosso di questo paese: dopo la “guerra a bassa intensità” degli anni Settanta (per capirsi, date e definizioni possono fornirle i più esperti), quella a “dosi di austerità” scatenatasi tra caduta del Muro, Tangentopoli e Maastricht è ancora lì, sepolta sotto l’ammasso di “propaganda da regime democratico”.

Il cambio di rotta impresso negli Novanta, e questa consapevolezza, sono ancora un nostro problema.

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