L’emergenza del Covid-19 è un potente moltiplicatore delle criticità che soggiacciono ad un sistema che rischia di entrare in agonia, sancendo il declino di un Paese che ha imposto la sua egemonia dopo la fine del mondo bipolare.
Due aspetti ci sembrano particolarmente rilevanti: la crisi del modello economico e quello del modello sociale praticamente contemporanee.
Il primo aspetto di questa crisi strutturale è il feedback di una guerra mondiale del petrolio innestata dagli effetti economici del Coronavirus sullo sfondo di una già feroce competizione internazionale e di un acuito scontro inter-imperialistico
Il secondo aspetto è la conseguenza diretta del virus stesso su una società che non ha prodotto ancora gli anticorpi per reggere e superare la pandemia, tanti sono i limiti che si sono fin qui evidenziati nell’affrontarla ed il gap esistente tra dimensione del problema e scelte effettuate.
A tenere in saldo il timone in questa tempesta c’è Donald Trump, cioé un bugiardo patologico – The Washington Post ne ha contate 16.241, dall’inizio della sua presidenza – figlio di quella classe politico-economica delle “porte girevoli”, più incline a costruire narrazioni, e poi a smentirle, che non a trovare soluzioni a problemi, sempre pronta ad accontentare il complesso militare-industriale e l’establishment economico.
Che questo avvenga l’anno delle elezioni presidenziali, in cui ancora in corsa per le primarie democratiche c’è un socialista dichiarato, cioè l’unico teoricamente in grado di proporre soluzioni sensate per fare uscire il Paese dal baratro in cui si sta cacciando, non è un particolare di poco conto. Così come non è insignificante che il suo competitor sia un mediocre politico centrista, Biden, ripescato dall’establishment democratico come ultima ancora di salvezza nella sua guerra contro Sanders.
Uno che, in caso diventasse presidente, ha dichiarato una settimana fa, porrebbe il veto sull’assistenza medica gratuita ed universale proposta dal senatore del Vermont.
Altro dato: Trump è il one man show senza sfidanti delle primarie repubblicane, i quali non hanno quindi un piano B, se la fiducia nell’attuale Presidente fosse compromessa.
La potremmo chiamare la “tempesta perfetta” su un sistema che, a causa dello stress test cui è sottoposto, rischia di essere triturato; e chissà cosa tireranno fuori dal cappello per distogliere l’attenzione da questa doppia pietra d’inciampo.
Diciamo che la chiusura di un mese dei collegamenti passeggeri con l’UE è un colpo di teatro non da poco…
La variabile Borse
Ma l’ennesimo crack borsistico consumato giovedì, al pari delle ancora peggiori performaces delle borse occidentali, è una spia che i provvedimenti di politica economica intrapresi o prefigurati – che siano l’ulteriore taglio dei tassi da parte della FED, il pompaggio di liquidità per impedire la cessazione dei prestiti inter-bancari, le promesse di salvataggio ed una politica fiscale destinata a tagliare quei 700 miliardi di dollari che alimentano la Social Security – non hanno minimamente tranquillizzato i mercati.
Qualcosa s’è rotto, il giocattolo si è inceppato, e la coazione a ripetere di queste scelte, reiterate negli anni, si è trasformata in un circolo vizioso, una spirale senza sbocchi; anche perché è la finanza che traina l’apparato produttivo statunitense, in una relazione di implicazione reciproca, visto che se il “sottostante” dei castelli di carta della finanza perde il suo pur suo labile ancoraggio all’economia reale, tutto salta in aria. Come sta avvenendo con petrolio ed gas di scisto.
Il settore automobilistico, per esempio, come ha dimostrato una recente inchiesta del Financial Times, è il più esposto in questa dinamica. E rischia di non potersi più “finanziare sul mercato”.
La bolla finanziaria scoppia, semplicemente. Stavolta probabilmente con effetti più devastanti, vista la sua dimensione – 253.000 miliardi di dollari nel terzo trimestre dell’altro anno – e la sua natura. Il valore finanziario delle azioni che fino a tempo fa erano considerate “much riskier company”, cioè un investimento particolarmente rischioso, è una percentuale altissima del totale; la quota di corporate bond ad alto rischio che si rinnovano nei prossimi 5 anni è del 40% e secondo Ruchir Sharma, CGS di Morgan Stanley, «1/6 delle azioni delle compagnie quotate in borsa non guadagna abbastanza cash flow per coprire gli interessi sul debito» .
I nodi vengono al pettine e non solo per gli Stati Uniti, come dimostra il crollo delle borse europee ed asiatiche.
Partiamo dal petrolio e dal gas di scisto, una gigantesca, folle, scommessa da tutti i punti di vista – da quello economico a quello ambientale – di difficile sostenibilità, se non attraverso un indebitamento già in sofferenza in precedenza, senza alcuna proporzione tra il rendimento effettivo e l’investimento finanziario: 250 miliardi di dollari di investimento dopo la crisi del 2008 sono stati implicati nei debiti dei produttori americani indipendenti.
Sono 110 miliardi di dollari in bonds delle compagnie energetiche, una cifra che dà la misura di come il petrolio e il gas di scisto siano stati più veicolo di investimento finanziario che di vera e propria rendita economica, per questa materia prima per le aziende.
Le compagnie hanno puntato sulla riduzione dei costi come sull’aumento dei volumi, ma ancora di più sull’indebitamento.
Gli Usa l’altro anno sono diventati – sì – il più grande produttore di petrolio al mondo, ma al prezzo di indebitamento stratosferico.
Il costo di produzione dello shale oil si aggira attorno ai 50 dollari al barile – la qualità di greggio WI oscillava, prima del tonfo, tra il 53 e i 63 dollari al barile -, mente la Russia, per produrre un barile del suo greggio, spende circa 20 dollari, l’Arabia Saudita 2,8.
Un differenziale abissale!
Si può immaginare l’effetto a catena che provoca la quotazione attuale del greggio attorno ai 30, e potrebbe anche scendere fino a metà del costo di produzione del petrolio da scisto.
Già nel terzo trimestre ben 32 compagnie energetiche avevano dichiarato fallimento.
In realtà, i punti di deboli di questo castello di carte sono aumentati: le compagnie che hanno implicazioni negative nelle cancellazioni dei viaggi, quelle con le supply chain spezzate e quelle legate alle spese discrezionali del consumatore secondo il “FT”.
In tutto questo anche i tradizionali “beni rifugio” alla fine perdono di valore. I treasuries – buoni del tesoro statunitensi a trent’anni – sono arrivati allo 0,88%, superando in negativo la soglia psicologica dell’1%.
E capite cosa vuol dire per un investitore che cerca alti rendimenti, come l’orco della fiaba cerca carne umana, accontentarsi di queste magre cifre, tenendo conto del feedback negativo per tutti quegli investitori dell’“euro-zona” che in quest’anno sono diventati i maggiori sottoscrittori del debito pubblico americano, grazie al “costo zero” del denaro nella UE, dovuto al quantitave easing e ai rendimenti negativi offerti di alcuni titoli europei similari, come i Bund tedeschi.
Questa massa enorme di ricchezza fittizia si deprezza, con ricadute disastrose sull’economia reale.
L’emergenza della pandemia sta mostrando tutti i limiti di un modello sociale che derubrica la salute dei cittadini a mera speculazione economica.
Tutti i reportages delle migliori testate giornalistiche statunitensi sull’argomento sono agghiaccianti e ci raccontano un Paese allo sfascio, nel tutelare la salute dei propri cittadini.
Prima c’è stata la pervicace negazione del potenziale pericolo e la riduzione in silenzio degli esperti scientifici statunitensi che dicevano il contrario, fino all’ultima sparata trumpiana del “foreign virus” in cui ha effettuato una inversione a U rispetto alle precedenti narrazioni.
Nel frattempo, sostanzialmente non si effettuavano i test, non permettendo di fatto alcun monitoraggio del contagio; il che implica non poterlo tracciare nella sua evoluzione e non potere abbozzare alcuna iniziativa di contrasto.
Ma un mix di cattiva informazione, pessima organizzazione e “resistenza” degli apparati medici privati, ha fatto danni incalcolabili e ha rallentato la messa a punto di una massa sufficiente di analisi, dimostrando che “il privato” non è poi così convertibile alle necessità del pubblico.
Le misure per impedire la diffusione del virus sono state quindi vaghe, tardive e in alcuni casi devastanti, come nel caso dell’improvvisa chiusura dei campus universitari, senza però farsi carico del destino degli studenti – tra l’altro oberati di debiti – che hanno nell’università tutta la loro vita: dormitorio, mensa, altre svariate attività.
Una studentessa ha paragonato il provvedimento ad uno “sfratto”: «Harvard si aspetta che torniamo a casa, ma casa per molti di noi casa è il campus», soprattutto per gli studenti a basso reddito o quelli provenienti dall’estero, che devono seguire le lezioni per questioni burocratiche legate al loro status giuridico negli States.
Non parliamo poi della totale mancanza di rispetto verso il personale ospedaliero o delle case di cura a diretto contatto con i malati. Non sorprendentemente, uno dei primi “focolai” individuati, e che ha fatto una strage, è un centro per gli anziani.
Il vaccino, la cui individuazione è affidata ai grandi gruppi farmaceutici privati è un altro aspetto inquietante, e rischia di essere solo un lucrosissimo affare per questa parte del big business.
Incominciano così ad essere approvate, a livello di singolo Stato, misure di contenimento molto blande, ma neanche lontanamente paragonabili a quelle predisposte dalla Cina, a parte la “containment area” con un raggio di un miglio ai bordi di New York, dove – a New Rochelle – è stata fatta intervenire la Guardia Nazionale, il cui governatore Cuomo – non senza difficoltà – aspira a fare in una settimana 1.000 test al giorno.
Finora Washington, California e New York sono solo alcuni degli Stati in cui sono stati individuati “focolari”.
Ma, come ha scritto in una bella inchiesta il New York Times, «per ora sembra che una larga maggioranza dei newyorkesi, che hanno contratto il virus, con ogni probabilità non l’hanno saputo durante la loro malattia, perché i test effettuati erano limitati».
Quello che stanno affrontando gli Stati Uniti è un passaggio storico nodale che determinerà un “prima” ed un “poi”, allo stesso modo della Guerra d’Indipendenza dalla Gran Bretagna – anch’essa una guerra civile – la guerra civile propriamente detta ed i due conflitti bellici del secolo scorso.
È durata poco l’egemonia statunitense nel mondo, un trentennio, prima di fare i conti con il modello di società che ha costruito, la finanza che ha creato e le relazioni internazionali che ha intessuto.
This is the end of laughter and soft lies, cantava Jim Morrison in una canzone profetica.
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