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I treni d’erbacce

E poi la sento,

la gente, conversare sul sentiero,

di doveri, di piaceri, di piccole sopravvivenze.

La capisco,

parla la mia stessa lingua,

ma non la comprendo, così distante da me.

C’è un’ombra, in lei,

anche quando sembra sorridere,

un’indulgenza che non è la mia,

che sto ascoltando, ora,

portando l’anima al piano

dopo la cima.

È proprio una gente strana,

una lunga fila che percorre

il buco nero del mondo,

pare cieca.

Se vede, di scorcio, su treni d’erbacce,

la forma dell’orrore che transita

con denti di falce

un cobra oggi, un crotalo domani –

gira la testa dall’altra parte,

tace.

La serpe scura è in agguato,

dico a me: una di queste uccide,

ma niente, la gente scende

a valle, con niente

di cui temere.

Mi scorre accanto

mentre quel demonio invisibile

guizza.

Non c’è tregua nel cammino.

Un cobra oggi, un crotalo domani,

finché una doppia dannazione

si accasa – non senza malizia –

tra le fronde:

su scala storica,

fa sfoggio di denti imbevuti di aromi,

secrezione micidiale non percepita ¬–

e si fa presto a finire

avvelenati;

su scala individuale,

s’incede senza nessun riparo,

chi mano nella mano, chi fotografando,

chi conversando d’una nuova serie televisiva,

estasi e fogna insieme.

Tutto scorre,

un filo di crema sul viso, gli scarponcini,

lo zaino, l’acqua, i panini,

a fare da bersaglio –

la morte

dipende dalla fortuna.

Dico: per me nulla

è sicuro.

Scendo il sentiero, non posso fare altro,

tenendomi lontano dalle pietre,

dalle pozze, dalle uova

deposte.

Si dice che le genti, udito il sibilo,

muoiano all’istante; s’imbevono del veleno

e il sangue viene fermentato –

e la trama dell’aspide

è vincente.

Esiste rimedio, però: ciò che la serpe emana

è respinto dallo specchio che riflette

il veleno, uccidendola – ed è salva

la specie umana.

Specchio, o le fauci del serpente;

uno specchio a forma di senso,

un bagliore,

o la fine.

Scendo, muovendo il bastone,

lascio che vibri la terra;

ascolto, misuro i passi, cammino come un bimbo

che sta imparando a camminare –

cerco il mio specchio ideale,

una diserzione, un moto popolare –

ma già si schiudono le uova

e si scorge del terribile

l’arsenale.

Altri viandanti,

si fermano alla sorgente,

dico: è accanto all’acqua, attenti,

che si nasconde, intorno a noi,

una diversa tipologia di sporgenza,

che è tossica.

La buca, la bocca, fauci snodate,

la bestia ora appare,

presto, fuggite.

Tutti ridono,

ridono contro me solo,

alla sorgente – in maggiore aderenza

al guasto epocale.

Ridono di me.

Meglio solo, allora.

Tu devi parlare,

dico a me: solo con gli angeli,

parla, ma solo con gli angeli.

Poi arretro, tra i rovi,

i passi bloccati nelle spine;

e un angelo mi è accanto,

apparso dal nulla, subito dopo

il sibilo.

Procedo, ferito;

benché senza antidoto, procedo –

perché è nell’andare

il senso,

tra le pietre e il morso,

opposto ai serpenti

che minacciano

i viventi.

Il cielo, ora, è diventato un tramonto,

mi manca l’aria,

febbre –

un angelo mi è accanto,

mi fa compagnia nell’ascensione,

dico a me: mi porta in salvo,

poi un involucro nero

mi avvolge

e io volo.

* da Facebook

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