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Il suprematismo genocida che è in “noi occidentali”

La tragedia dei palestinesi è stata possibile perché noi l’abbiamo permessa. Proprio noi, eredi dell’Illuminismo e delle sue idee di progresso, ragione e libertà. Alla fine, è il nostro inconscio coloniale a trionfare. Tanti anni passati a parlare di diritti, per poi finire a sostenere il peggior regime etno-nazionalista oggi esistente.

Quando ce ne renderemo conto, sarà troppo tardi: avremo preso così tanto gusto nell’orrore che ci sarà difficile distaccarcene. Ci resterà addosso, come una maschera che svela ciò che siamo davvero.

Siamo noi il seme del genocidio. L’etno-nazionalismo israeliano è coerente con il nostro secolare suprematismo e con la nostra tradizione coloniale: ne è una declinazione estrema, visibilmente criminale, eppure da noi tollerata. Perché, in fondo, ci rappresenta. La sua attualità riflette la nostra anima.

Se si chiamassero le cose con il loro vero nome, nessuna alleanza con Israele potrebbe durare più di un giorno. Si tratta di colonialismo da insediamento: una forma che abbiamo inventato noi occidentali in Nord America, in Canada, in America Latina, in Africa, in Australia, in Sudafrica …

Un sistema in cui lo sfruttamento delle risorse e delle persone convive con l’intento di sostituire la popolazione nativa con i coloni. Una logica di eliminazione che può assumere molte forme: dall’espulsione fisica all’assimilazione forzata.

L’etno-nazionalismo israeliano ha appreso da noi, dai progetti coloniali occidentali.

Si dirà: noi quella malattia l’abbiamo superata. No, non è così. Ci raccontiamo di averla lasciata alle spalle, ma il nostro supporto a Israele dimostra il contrario. Israele è parte delle nostre contraddizioni, o meglio: della contraddizione intrinseca al liberalismo occidentale, che proclama principi universali di uguaglianza e diritti umani, mentre giustifica pratiche di esclusione, dominazione — e persino genocidio.

Israele ha adottato il linguaggio e i valori del liberalismo occidentale — democrazia, progresso, modernizzazione — mentre implementa politiche di segregazione e discriminazione verso i palestinesi.

Il concetto di “missione civilizzatrice“, centrale nella retorica coloniale europea, trova un parallelo nella narrazione israeliana della “redenzione della terra” e nella modernizzazione della Palestina.

Come i colonizzatori europei si presentavano come portatori di civiltà in territori considerati arretrati, così i coloni israeliani si rappresentano come agenti del progresso in una terra descritta come deserta o a loro destinata per diritto divino.

Siamo noi il problema.

È il nostro liberalismo ipocrita, il nostro suprematismo razzista mascherato da civiltà, ad aver alimentato — materialmente e ideologicamente — l’etno-nazionalismo israeliano. Israele ha messo in atto sistemi di classificazione e separazione della popolazione basati su criteri etno-religiosi.

La distinzione tra ebrei e non ebrei, sancita da leggi come la Legge del Ritorno e la Legge sullo Stato-Nazione, riflette la logica coloniale della separazione tra coloni e nativi. Le pratiche di controllo territoriale esercitate da Israele nei territori palestinesi ricalcano i metodi delle potenze coloniali occidentali: frammentazione del territorio, creazione di enclavi, controllo dei movimenti, infrastrutture separate per coloni e nativi.

La nostra ansia di rappresentarci come la parte più avanzata dell’umanità trova espressione anche nel razzismo di Israele. Non siamo forse noi ad aver inventato la retorica dell’eccezionalismo? Gli Stati Uniti non hanno forse giustificato le proprie politiche imperiali parlando di “destino manifesto” o di “missione civilizzatrice”? Ricordate lo slogan “esportare la democrazia”? Non è forse un modo di imporre – con la forza – il proprio sistema agli altri popoli?

Quante volte l’eccezionalismo è stato usato per rivendicare l’esenzione dalle regole e dai principi universali che l’Occidente stesso proclama?

Anche questo Israele lo ha imparato bene: ha strumentalizzato il trauma dell’Olocausto per giustificare politiche di sicurezza estreme e sottrarsi alle critiche internazionali. È la stessa logica che, nel suprematismo occidentale, utilizza minacce — reali o percepite — alla sicurezza nazionale come pretesto per sospendere diritti e libertà.

Bisognerebbe cercare dentro noi stessi l’origine del genocidio dei palestinesi. È l’esito delle nostre contraddizioni e della nostra memoria corta. Dietro il genocidio ci siamo noi occidentali. È il nostro suprematismo che si manifesta a Gaza, perché siamo noi a fornire a Israele il sostegno politico, economico e militare necessario.

Questo supporto non è solo materiale, ma anche ideologico: si basa su una percezione di valori condivisi e su interessi strategici comuni.

La convergenza ideologica tra suprematismo occidentale ed etno-nazionalismo israeliano si manifesta anche attraverso narrative condivise: la “guerra al terrorismo”, la “difesa della civiltà occidentale”, l’opposizione tra democrazia e autoritarismo.

Questi discorsi servono a giustificare politiche di sicurezza aggressive e a delegittimare le rivendicazioni palestinesi, etichettandole come “terrorismo” invece che come resistenza all’occupazione.

Se ognuno di noi vedesse chiaramente l’origine del genocidio nel proprio volto – e nel profondo della propria cultura – le cose potrebbero cambiare. Si potrebbe arrivare, per esempio, ad espellere dal proprio corpo il germe del suprematismo che spinge a essere solidali con l’etno-nazionalismo israeliano. E, in definitiva, a mobilitarsi per chiedere di sanzionare Israele e per costringerlo a porre fine alla pulizia etnica e al regime di apartheid.

Lottare contro il genocidio dei palestinesi significa uccidere il suprematismo che è più o meno presente in ognuno di noi.

* da Facebook

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7 Commenti


  • Oigroig

    Questo “noi” (occidentali) su cui insiste Nevio Gambula cancella il fatto che ci siano sfruttatori e sfruttati, padroni e miserabili, suprematisti e sprovveduti, e insomma gradi diversi di responsabilità… Finché non si prova ad analizzare le contraddizioni, e quindi le possibili linee di frattura rivoluzionaria, non si fa un ragionamento minimamente efficace, solo parole che non porteranno a un’azione sociale di rottura.


    • Redazione Contropiano

      che la società in cui viviamo sia divisa in classi, crediamo di saperlo bene… basta guardare quel che pubblichiamo.
      per rendersi conto che “noi occidentali” è purtroppo un’identità aggiuntiva, che al resto del mondo sta ormai sui coglioni peggio della lebbra, basta viaggiare un po’ fuori dai confini del “giardino europeo”. E se non agiamo per modificare qui il regime che domina noi e non riesce più tanto a farlo con gli altri, scopriremo dolorosamente che quel “noi occidentali” ci coinvolge nello scendere agli inferi. E non basterà strillare “ma io ero un antagonista radicale!” per passare il turno…


  • Anna

    Sono d’accordo con Gambula. Da anni sostengo che ” noi europei” abbiamo la puzza al naso rispetto al resto del mondo. Fortunatamente ho amici in America Latina che mi spingono a vedere il mondo da un altro punto di vista


  • antonio D.

    ..pur essendo condivisibile il concetto: “NOI occidentali,” credo – comunque – necessario fare i legittimi e giusti distingui e diversificazioni.
    Il “noi” non penso che dovrà – necessariamente – essere un “concetto” in …comune; in forma definitiva!
    Certamente – e necessariamente – rimane la “soggettività”.
    Quella specifica soggettività che ognuno di noi sarà capace di esprimere o praticare partecipando – magari – a strategie oppure a scelte con pratiche alternative – siano esse politiche sia organizzative.


    • Redazione Contropiano

      “noi occidentali” non è un concetto scientifico, è una figura meramente descrittiva di uso comune nel raffronto soggettivo tra insiemi di grandi dimensioni identificati da un solo tratto caratteristico, come ad esempio “gli africani” o “gli asiatici”.
      Funziona, purtroppo, prima facie. e bisogna sapere come gli altri popoli e culture “ci” vedono, ancor prima di distinguere tra paesi, culture, classi, ecc.


  • Oigroig

    Volevo solo dire che finché si fanno discorsi articolati su «noi popolo» o su l’«umanità in generale» cancellando quel minimo di coscienza di classe che ancora esiste, si scenderà sempre più nell’inferno… Gli «africani», gli «asiatici», i discorsi da bar ecc. non sono chiacchiere innocue, ma un modo per riprodurre inconsapevolmente il discorso dominante e l’ordine sociale che lo produce. Posso battermi il petto all’infinito per i peccati di «noi suprematisti», ma ciò non modifica nulla e anzi allontana l’azione, dando rilievo solo a ciò che si è, e non a ciò che si fa. Tanto più che gli inferni sono ovunque, Gaza non è solo Gaza, ma una metafora degli orrori del capitalismo che sono ovunque: delle miniere di cobalto in cui migliaia di bimbi e ragazzini muoiono per fabbricare hardware e cellulari per noi, della violenza militare per difendere i profitti, delle baraccopoli di braccianti che assicurano frutta e verdura sulla tavola della piccola borghesia planetaria, di quello che accade dietro l’angolo di casa nostra e noi manco lo sappiamo perché siamo impegnati a pentirci dei peccati di «noi occidentali» e a sostituire la parola “capitalismo” con la parola “Israele” nelle nostre vane esecrazioni del massacro… E poi la pretesa di sapere come “gli altri popoli e culture ci vedono” è la quintessenza dell’homo europeus. La lotta serve, e ci servono ragionamenti e concetti che ci mettano in questa prospettiva a cui pare siamo così disabituati.


    • Redazione Contropiano

      l’umanità è divisa in classi (ma anche in nazioni, etnie, lingue, culture, religioni, tradizioni, ecc), e quella è la contraddizione principale “per noi”, ossia il motore della trasformazione perenne.
      Ma non è che per questo scompaiono tutti gli ambiti che connotano l’umanità in quanto tale, che sono più generali e meno differenziati. Un gesto può essere decisamente “ingiusto” a livello della contraddizione di classe e quindi “parla” ai diretti interessati da quella contraddizione; ma se è anche “inumano” vuol dire che riguarda potenzialmente (non certamente) tutti, a prescindere da classe, azione, cultura, etnia, religione, ecc.

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