La richiesta – del 22 gennaio scorso sulla base della legge 231 ‘Salva-Ilva’ – era stata giustificata con la necessità di destinare il ricavato della vendita al pagamento di stipendi e opere di ambientalizzazione previste dall’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) emessa dal governo.
La merce sotto sequestro viene calcolata pari a un milione e 800 mila tonnellate, per un valore commerciale di quasi un miliardo di euro.
La risposta dei magistrati è uno schiaffo all’Ilva e alla “cultura giuridica” messa in mostra dal governo Monti con i suoi decreti. “Nessuna norma dell’ordinamento giuridico contempla la possibilità” di una restituzione di beni sottoposti a sequestro preventivo, per giunta “in favore di soggetti indagati proprio per i reati di cui i beni sottoposti a vincolo costituiscano prodotto, sulla base di esigenze particolari o dichiarazioni di intenti circa la destinazione delle somme ricavabili dalla vendita dei beni, che vengano ad essere dedotte dall’interessato”.
Invocare la “istituzione della figura del Garante di cui all’art. 3 comma 4 Legge 231/2012” (il cosiddetto Salva Ilva) – inoltre – non consente “di ritenere in alcun modo modificato né il quadro degli elementi che integrano le condizioni di applicabilità del sequestro preventivo né la disciplina della medesima misura cautelare reale”.
Sulla vicenda si resta peraltro in attesa della decisione della Corte Costituzionale, investita dalla questione di legittimità sollevata dai giudici tarantini sulla legge “Salva Ilva”. Quindi “ogni ulteriore istanza” al gip “fondata esclusivamente sulle norme già impugnate davanti al Giudice delle leggi, non potrebbe determinare una decisione nel merito”.
Nel frattempo, è slittato l’incontro previsto per oggi a Palazzo Chigi tra i ministeri dello sviluppo economico e dell’ambiente e l’Ilva. Il rinvio sarebbe di 24 ore.
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