I margini di agibilità politica per la “contestazione”, in Russia, non sono mai stati particolarmente ampi. Per apparente paradosso, ma nemmeno tanto, si sono drasticamente ridotti dopo l’approdo totale all’economia di mercato (ricordate il “liberale” Eltsin che faceva bombardare il Parlamento per tirare fuori un gruppo di deputati dell’opposizione di sinistra che l’avevano occupato?).
Un segnale di evoluzione dittatoriale è l’uso della legge in modo arbitrario, con la contestazione del “reato” che fa comodo al potere, anche se non corrisponde affatto alla “fattispecie” messa in campo. E’ accaduto in questi giorni con una delle tante iniziative messe in piedi da Greenpeace, organizzazione certamente “fastidiosa” ma pacifica , nel circolo polare artico contro una piattaforma petrolifera. Solito spiegamento di gommoni, bandiere, striscioni e telecamere, in perfetto stile “gandiano-mediatico”, per contestare le trivellazioni crescenti in un dei pochi habitat fin qui risparmiati dalla corsa al (poco) petrolio residuo.
Di fronte a questo “poderoso armamento” l’accusa di “pirateria” – avanzata dalla autorità russe – appare al tempo stesso ridicola, prepotente, “terroristica” in senso stretto. Ma assolutamente simile – per logica e contenuto di potere – a quela elevata dalla procura di Torino contro gli attivisti No Tav (“finalità terroristiche” per chi contrasta lo sconvolgimento della Val Susa, solo per far guadagnare un po’ di imprese “amiche”). Lo scopo è infatti stroncare la protesta, non “punire” in modo proporzionato eventuali “eccessi”.
Gli attivisti di Greenpeace a bordo del rompighiaccio Sunrise (30, provenienti da 18 paesi), sono stati Ccatturati da un commando di forze speciali piombato da un elicottero e rimorchiati per quattro giorni fino a Murmansk. Nel frattempo non hanno potuto avere nessun contatto con i propri avvocati difensori, né con i concolati dei rispettivi paesi. È terminato così il blitz contro una piattaforma petrolifera di Gazprom, la prima russa nell’Artico, per denunciare i rischi di tale attività in un ecosistema unico al mondo. Pochi giorni fa avevano fatto lo stesso contro una piattaforma britannica (la Stena Don), di proprietà della compagnia Cairn Energy, nonché contro alcune navi al lavoro per conto della Chevron.
Il portavoce del comitato investigativo russo, Vladimir Markin, ha annunciato che l’episodio prevede ora un’inchiesta per pirateria (punibile fino a 15 anni, per il codice russo), sottolineando che tutti gli attivisti fermati saranno perseguiti «indipendentemente dalla loro nazionalità».
«Quando una nave straniera piena di dotazioni elettroniche dagli scopi sconosciuti e un gruppo di persone, sedicenti ambientalisti, tenta di assaltare una piattaforma di trivellazione ci sono legittimi dubbi sulle loro intenzioni», ha pre-sentenziato Markin. «Difficile credere che i cosiddetti attivisti non sapessero che la piattaforma è una installazione con un alto livello di rischio, e che ogni azione non autorizzata può portare ad un incidente, che metterebbe in pericolo non solo le persone a bordo ma anche l’ecologia, che si sta zelantemente proteggendo».
Greenpeace sostiene di aver agito in acque internazionali e respinge l’accusa di pirateria, “infondata e intimidatoria”. Quelli che rischiano di più sono i quattro che hanno tentato di scalare la piattaforma.
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