Andrea De Benedetti, coautore con Luca Rastello del libro BINARIO MORTO
Succede che scrivi un libro d’inchiesta e t’invitano ai festival letterari. Non giornalistici: proprio letterari. Il che è bellissimo, ci mancherebbe. Anzi, è un autentico privilegio. Ma suona anche abbastanza un po’ beffardo. O magari no: dopotutto che cos’è oggi la letteratura, se non un intreccio promiscuo di fiction e non-fiction, un meticcio sopravvissuto alla (presunta) estinzione del romanzo grazie all’ibridazione virtuosa con altri generi? Solo che quando ti accorgi che i quotidiani ti recensiscono negli sfogli culturali anziché citarlo sulle pagine di cronaca o di politica, e che oltre ai festival letterari t’invitano anche alle trasmissioni radiofoniche dedicate ai libri colti, e che in compenso i programmi di approfondimento televisivo si guardano bene dall’interpellarti come persona informata sui fatti, quando insomma capisci che il tuo libro è trattato più come un oggetto letterario che come un deposito di dati e notizie per lo più misconosciuti, cominci a preoccuparti.
E ti preoccupi ancora di più quando, di fronte a platee di persone per lo più attente, curiose e ben informate, vedi spalancarsi bocche, inarcare sopracciglia e sgranare occhi per lo stupore, come se quello che racconti fosse fantascienza, come se tra chi favoleggia di future crescite del Pil dell’1,5% annuo (Confindustria ha annunciato trionfalmente una previsione di calo dell’1,6% per l’anno in corso) e chi spiega che l’Alta velocità ferroviaria è un progetto abbandonato o fortemente ridimensionato da quasi tutte le grandi potenze occidentali (Gran Bretagna, Germania, per non parlare degli Usa, che non l’hanno mai avuta), l’alieno fossi tu.
DAVVERO NON SI PUÒ raggiungere la Slovenia in treno? – sembrano chiederti quegli occhi increduli. Davvero le merci non possono viaggiare ad Alta velocità? Davvero l’economia spagnola è collassata perché hanno voluto fare treni troppo veloci e troppo costosi? Davvero per realizzare i 130 chilometri di Tav Torino-Milano ne hanno costruiti più di 400 di asfalto fra strade d’accesso, cavalcavia e raccordi, alla faccia della retorica finto-ecologista dei promotori dell’opera? Davvero il costo per chilometro del Tav italiano è il quintuplo rispetto a Francia e Spagna? Davvero in Germania usano ancora e sempre il Pendolino? Eccetera.
Alcuni, addirittura, ti si avvicinano alla fine degli incontri con aria contrita e riconoscente per ringraziarti di averli aiutati ad aprire gli occhi, e tu ti senti un po’ come la ragazza che nel Truman show avverte Jim Carrey di essere il protagonista inconsapevole di una fiction sulla sua vita, dimentico del fatto che tu stesso, fino a pochi mesi prima, eri vittima altrettanto innocente e ignara dello stesso inganno. Perché, parliamoci chiaro, non sono loro (e neppure noi) a essere ignoranti.
È che di certe cose non parla quasi nessuno. Non i quotidiani “a grande tiratura nazionale” e men che meno le televisioni. I treni italiani non sono abbastanza veloci? Può essere. Ma di sicuro non c’è nulla, nel nostro paese, che viaggi più lento delle notizie. Sempre che giungano a destinazione, ovviamente: perché alcune non ci arrivano del tutto, oppure arrivano distorte, oppure ancora arrivano capovolte. Come la storia del decreto francese che “ribadisce la pubblica utilità della Torino-Lione” – questo il sunto che ne ha fatto la maggior parte dei quotidiani italiani con toni astiosamente trionfalistici – e che in realtà costituisce una pura formalità legislativa volta ad assicurare la continuità giuridica del progetto senza fornire alcuna data certa, anzi fissando il limite del 2028 per l’inizio (l’inizio: non la fine) dei lavori. Come dire: la Torino-Lione sarà anche utile, ma nel caso ne riparliamo tra 15 anni.
Alla fine, l’impressione che se ne ricava è che la battaglia più urgente, verrebbe quasi da dire più giusta, non è tanto quella che si combatte da anni intorno ai perimetri di cantieri con affaccio sul nulla, avviati solo per cominciare a smuovere qualche metro cubo di terra e tagliare qualche nastro in favore di telecamera, quanto quella per un’informazione più corretta, puntuale e plurale. Un’informazione in cui, anche le notizie scomode possano godere del privilegio dell’alta velocità e non siano condannate anch’esse ad arenarsi in un binario morto.
da il fatto quotidiano del 17 settembre 2013
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