‘Camicie nere sull’Acropoli’ (Derive Approdi, pp.368, euro 23) di Marco Clementi, ricercatore di Storia moderna al Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’università della Calabria, racconta per intero la tragedia dell’occupazione italiana della Grecia. Spiegandone le premesse e chiarendo che solo l’intervento della Germania e della Bulgaria contro l’esercito greco permise alle impreparate e inadeguate truppe italiane di evitare una disfatta certa già a poche ore dall’invasione dell’ottobre 1940.
Durante l’occupazione della Grecia da parte dei fascisti e dei militari italiani il nostro paese si rese responsabile di orrendi crimini. Solo in parte connessi alle operazioni belliche, e più spesso frutto di un accanimento e di una brutalità ingiustificabili, che solo al cospetto del terrore seminato dalle armate tedesche rendono le nostre responsabilità ‘meno gravi’. Da un’altra prospettiva, quindi, dovremmo affermare che i nazisti fecero peggio dei fascisti, riportando il giudizio storico nella corretta prospettiva e rimuovendo gli intollerabili alibi che una certa storiografia ‘di stato’ ha concesso negli ultimi 70 anni agli occupanti italiani.
I crimini italiani in Grecia sono stati a lungo un vero e proprio tabù. Ricorda lo stesso Clementi di quando, nel 1953, il regista Renzo Renzi e il docente di storia del cinema Guido Aristarco finirono in cella per ben 45 giorni nel carcere militare di Peschiera per “vilipendio alle forze armate” perché avevano osato riprendere un racconto di Renzo Biason nel quale si denunciava di decine di ragazze greche indotte alla prostituzione dai militari occupanti. Dopo la fine del fascismo i vari governi, compreso quello che aveva il comunista Palmiro Togliatti come ministro della Giustizia, tentarono attivamente di respingere l’estradizione ad Atene dei criminali di guerra di cui la Grecia chiedeva la punizione, e di evitare di pagare i danni di guerra al paese occupato, anche in nome dello status di paese ‘belligerante’ che gli Alleati avevano concesso all’Italia dopo l’8 settembre.
I governi postfascisti si prodigarono fin da subito per dividere le responsabilità del fascismo da quelle dell’Italia come nazione, dimenticando però che le imprese coloniali di Roma in Grecia – come nel resto del Mediterraneo e in Africa – erano iniziate ben prima dell’inizio del ventennio mussoliniano.
Il lavoro di Clementi ha il pregio enorme di essere il frutto di una lunga e accurata ricerca condotta negli archivi della Grecia continentale e anche di numerose isole. Una ricerca capillare che colma un evidente vuoto sull’argomento, almeno in Italia, e che attesta una realtà assai diversa da quella romanticamente descritta anche in una certa pubblicistica contemporanea all’insegna della tesi de “gli italiani brava gente” e della benevolenza degli occupanti nei confronti degli occupati. Al di là delle possibili interpretazioni anche dello stesso autore – che cita comunque anche i giudizi di altri ricercatori – dalla lettura dei dati ‘bruti’ emerge un quadro terribile. Fatto di villaggi bruciati, civili deportati, prigionieri torturati, fucilazioni di massa in nome della ‘colpevolezza collettiva’ che il governo fascista e i comandi militari attribuivano a quelle popolazioni greche che collaboravano con i partigiani o anche solo non ne ostacolavano le operazioni di resistenza. Clementi si sofferma su vari episodi di efferatezza da parte dei militari italiani, in particolare su quella che dovrebbe essere considerata la ‘Marzabotto’ greca. Il 16 febbraio del 1943 presso Domenikon, in Tessaglia, gli ‘andartes’, i partigiani, attaccarono una colonna militare italiana e uccisero 9 occupanti; per tutta risposta il villaggio venne raso al suolo e il colonnello Antonio De Paola ordinò la rappresaglia: 155 persone, tutti civili, vennero fucilati. A De Paola fu conferito un encomio solenne per avere «con calma, implacabile energia e intelligente azione di comando assolto perfettamente e completamente i compiti che gli erano stati affidati».
Il libro si sofferma molto sulla politica di saccheggio sistematico nei confronti della popolazione occupata che è da considerarsi un crimine collettivo della classe dirigente italiana – e non solo fascista – dell’epoca. All’origine, insieme ad assurde scelte di politica economica imposte al governo collaborazionista di Atene da quello di Roma, della morte per fame e malattie di centinaia di migliaia di civili greci, in particolare durante l’inverno 1941/1942.
Alla luce di tali atroci sofferenze inflitte al popolo greco dagli occupanti, a chi conosce poco la traiettoria storica del fascismo può sembrare assurdo che i neonazisti greci di Alba Dorata abbiano sempre osteggiato le commemorazioni dei crimini italiani e tedeschi compiuti in Grecia durante l’occupazione. Segno che il vantato patriottismo delle odierne camicie nere elleniche non è che una maschera ipocrita.
(Pubblicato su Le Monde Diplomatique, ottobre 2013)
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