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Dismaland: Banksy inaugura il primo parco del decadimento

Statue disturbate, migranti affogati e personale scoglionato, non c’è niente di divertente nel parco giochi temporaneo creato dall’artista.

Erano incominciate a circolare delle voci quando su una spiaggia desolata del paesino inglese di Weston-super-mare è sorto un castello che ricordava quello delle favole ma con una piccola differenza: è sporco e diroccato, e sembra non fare parte di nessun lieto fine.

Nel giro di qualche giorno intorno al castello compaiono nuove strutture: una ruota panoramica, uno strano incastro di camion, poi una grande insegna sull’entrata del complesso con scritto Dismaland, la terra della decadenza.

È ufficiale, Banksy ha creato il primo parco dei divertimenti che divertimenti non ne ha, solo installazioni lugubri e giochi tristi.

Una nota sul creatore di questo luna park distopico è necessaria: Banksy nasce dalla street art, altrimenti detta: i graffiti. Si fa conoscere e riconoscere per le sue serie di stencil con cui «imbratta» illegalmente i muri delle città, che raffigurano scenette surreali o ribaltate, il suo graffito più famoso che avrete già visto è quello del black bloc che lancia non una molotov ma un mazzo di fiori. I suoi pezzi vengono riconosciuti molto in fretta come vere e proprie opere d’arte, i muri su cui sono disegnati acquistano rapidamente molto più valore dell’edificio in sé, incominciano le esposizioni nei musei e – si presume – un notevole flusso di entrate per l’artista che però rimane nell’ombra: non ne conosciamo né il nome né il volto, ancora troppe denunce per imbrattamento, o forse questa è una scusa che serve per preservare l’aurea dell’artista di strada quando ormai è entrato nel circolo dell’art-biz. Tutto quello che tocca però diventa oro, continua con gli stencil ma incomincia anche a fare statue e installazioni che già nell’uso dei materiali e degli strumenti sono più costosi e meno «street», rimangono i contenuti graffianti ma spesso la forma si imborghesisce, rincorre le esigenze delle sale dei musei o delle sale d’asta, a volte si fa ripetitiva.

I suoi primi grandi fan, writers e grafomani vari incominciano a dividersi nella domanda se sia un grande genio o solo un grande paraculo. Questa domanda se la pone lui stesso, lasciandola sospesa in un complessissimo gioco di specchi, in un film (a prescindere dalla sincerità del suo autore, un vero capolavoro) che forse è un documentario, forse no, e si intitola Exit through the gift shop, l’uscita è attraverso il negozio di souvenir, come in molti musei di arte contemporanea, in cui si interroga in una maniera assolutamente originale (nei contenuti ma soprattutto nella forma) tra il controverso rapporto fra arte e denaro.

Sia diventato anche uno scaltro imprenditore artistico, rimangono alcuni fatti. L’ultima «uscita» pubblica erano stati i murales sui muri superstiti di una Gaza devastata dalle bombe israeliane. Una torretta di guardia che si trasforma in calcinculo, un pensatore di Rodin su una porta rimasta in piedi tra le macerie, un gattino che gioca con (reale) groviglio di fili di rame. E una scritta: se ci laviamo le mani del conflitto tra potenti e impotenti ci mettiamo dalla parte dei potenti – non rimaniamo neutrali. Una dichiarazione molto più netta di quelle che avrebbero potuto fare molti artisti anime belle. 

Di fronte a questa serie di contraddizioni, come valutare un museo-parco giochi in cui questo Banksy ha radunato altri artisti, sui quali il giudizio spesso tende maggiormente al paraculismo (Damien Hirsch per esempio, quello del teschio ricoperto di diamanti e degli animali in formaldeide)? Volontà artistico-politica o offerta di merce culturale «alternativa»?

Dismaland, che fa evidentemente riferimento al parco giochi per eccellenza (la Disney non ha voluto commentare in alcun modo) è una grande installazione temporanea, fra cinque settimane sarà smantellata, l’ingresso a tre pound è limitato a quattromila persone al giorno, che per i 36 giorni previsti arrivano alla somma di 400.000 sterline, e dato che non ci sono pubblicità all’interno è difficile stimare un qualche profitto.

Le installazioni all’interno si dividono in maniera relativamente equa tra colpi di genio, cose simpatiche e/o interessanti e alcuni strafalcioni. Nel primo gruppo rientra l’ingresso, un metal detector da fumetto in cui guardie dai cappelli di cartapesta di vietano di portare all’interno granate e unicorni. Poi c’è la sirenetta distorta come in un vecchio vhs mal funzionante, o il gioco delle barchette telecomandate in cui si deve guidare un gommone di profughi tra i cadaveri annegati. Tra le scene più banalotte, la carrozza ribaltata di Cenerentola che fra paparazzi e inviti a fare «foto ricordo» che richiama in maniera eccessivamente diretta la famose morte di Diana.

Ma probabilmente non sono le installazioni prese singolarmente da leggere e analizzare, ma l’esperienza in sé di un parco del decadimento e della tristezza, una grande messa in discussione di un fondamentale del sistema in cui viviamo, quello che ci vuole sempre felici e spensierati, che allontana o nasconde la miseria e i poveri, che pittura con i colori delle riviste patinate una realtà difficile, e che sarà sempre più difficile.

Dismaland è una grande banalità? Probabilmente no, in un mondo che accetta sempre di più le regole che gli vengono imposte, in cui la politica (o anche solo la società) è totalmente uscita dall’interesse della produzione artistica, anzi queste accuse hanno il sapore dei «gufi» renziani.

Fate così: kill your idols, abbandonate l’idea di dovere seguire degli eroi senza macchia. Banksy non è un rivoluzionario, è un artista con tutte le contraddizioni che questo ruolo comporta, e sono tante, ma ha qualcosa da dire che vale la pena ascoltare.

Anche pagando tre sterline.

 

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