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Patria e cultura in tempi di Rivoluzione – Terza parte

Tra il 2015 e il 2016 prevalse un nuovo approccio nell’atteggiamento statunitense verso Cuba: venne rimossa dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo; furono ripristinate le relazioni diplomatiche con ambasciate in entrambe le capitali; venne firmata una dichiarazione congiunta per garantire una migrazione regolare, sicura e ordinata, che mise fine alla politica dei “Pies Seco y Pies Mojados”1 e al programma di ammissione per i professionisti sanitari cubani2; fu ripreso il traffico postale e furono ripristinati i voli commerciali delle compagnie aeree statunitensi; si firmarono accordi per le telecomunicazioni e contratti con una società nordamericana per la gestione di due hotel all’Avana; si realizzarono più di 1200 attività di scambio culturale, scientifico, accademico e sportivo; più di 230 delegazioni d’affari e 284.000 turisti statunitensi visitarono l’isola nel 2016 (crescita del 74% rispetto al 2015), e nello stesso anno si conclusero 23 accordi commerciali.

Tuttavia, “si mantenne senza variazioni essenziali la proiezione geopolitica degli Stati Uniti su Cuba, di promuovere cambiamenti nell’ordine politico, economico e sociale, con un approccio più sottile e corrispondente alla concezione strategica del cosiddetto ‘potere intelligente’” (González, 2017).

Il nuovo disegno di eversione ideologica scommise sul trasformare il settore privato in un avversario della Rivoluzione a medio termine. Questa proiezione aveva un precedente: il lavoro del Cuba Study Group, presieduto da Carlos Saladrigas, un cubano-americano di putrida estrazione batistiana, che per un decennio si era impegnato a generare un “embrione di alternativa moderata e centrista” che minasse le concezioni antimperialiste del nostro popolo e le basi di classe che portarono la Generazione del Centenario3 alla Sierra Maestra.

In quel periodo cercò di promuovere la microeconomia del paese creando un fondo di 300 milioni di dollari per concedere crediti al settore privato. Non si trattava di diversificare gli attori economici; al contrario, faceva parte del disegno del piano Bush.

Questa organizzazione confida che dalle microimprese si arrivi alle piccole imprese e, in questo modo, nascano le grandi imprese”, ammise Saladrigas a Madrid nell’ottobre 2007 (Peraita, 2007), in un’intervista in cui dichiarò come riferimento teorico del suo progetto l’economista neoliberista Hernando de Soto, presidente dell’ultraconservatore Istituto per la Libertà e la Democrazia, e consigliere presidenziale del corrotto e assassino Alberto Fujimori.

L’obiettivo non era quello di promuovere le piccole e medie imprese (PMI) sull’isola, che fanno parte della concezione del modello di sviluppo del socialismo cubano. Nel piano di Saladrigas, queste costituivano solo un punto di partenza, e il resto sarebbe stato curato dai programmi di scambio e e formazione della leadership che prendevano Friedrich A. Hayek e Milton Friedman – il quadro teorico della maggior parte degli studi economici negli Stati Uniti – come paradigmi.

L’aspirazione era quella di aprire le paratie della coscienza cubana alla dottrina neoliberista – inclemente avversaria delle PMI.

In questa logica stimolarono la creazione di un’élite all’interno del settore privato, che per trasformare in richieste politiche le aspirazioni economiche che cercavano di introdurre, aveva bisogno di un nucleo intellettuale e di uno spazio di legittimazione della corrente social-liberista, in un paese dove la stragrande maggioranza del popolo – e della sua avanguardia artistica e intellettuale – è fedele alla Rivoluzione e al suo progetto sociale.

Tutto indica che durante i 18 mesi in cui durarono i negoziati bilaterali segreti, non persero tempo. Durante questo periodo, emerse una piattaforma per l’articolazione di questi interessi, alimentata a partire dall’amministrazione Bush.

Raúl Antonio Capote, professore e scrittore cubano reclutato dalla CIA nel 2004, ha rivelato le azioni in questo senso di Kelly Keiderling, un’ufficiale assegnata a questa funzione posta a capo dell’Ufficio Stampa e Cultura della Sezione d’Interessi4 all’Avana, laureata alla Georgetown University – da dove proviene la maggior parte degli ufficiali della CIA e dei funzionari del Dipartimento di Stato – e con studi post-laurea al National War College di Washington.

Kelly lavorò per formare gruppi di discussione, principalmente tra intellettuali e scrittori colpiti dalla censura o con posizioni che li allontanavano dalla Rivoluzione. Capote descrive il principale responsabile del “laboratorio” Cuba Posible come assiduo frequentatore degli incontri nella residenza di Kelly, che “…non davano i frutti sperati a causa della scarsa affluenza degli ospiti e della natura compromettente del luogo” (Capote, 2017).

Il suo spirito, tuttavia, era presente nei dibattiti teorici promossi dalla rivista Espacio Laical, che legittimarono la presenza di agenti nemici pagati dagli Stati Uniti nelle file dell’opposizione interna, insieme a tutte le correnti ideologiche dentro e fuori dall’isola.

L’idea era quella di fraternizzare per abbattere i bastioni politici a difesa di una Rivoluzione radicale, mentre gli Stati Uniti stringevano il blocco e non abbandonavano il linguaggio della guerra fredda. Il 21 marzo 2012 Saladrigas partecipò alla conferenza “Cuba ha bisogno di una rivoluzione tecnologica. Come Internet può scongelare un’isola congelata nel tempo” – presieduta da Marco Rubio e Mauricio Claver-Carone nella sede dell’ultraconservatrice The Heritage Foundation -, e otto giorni dopo Espacio Laical gli organizzò una conferenza sull’isola; alla fine – era nel copione – posò raggiante a favore delle telecamere insieme ai controrivoluzionari che componevano il pubblico.

Alle iniziative di Kelly partecipava anche una sua condiscepola alla Georgetown: Katrin Hansing, professoressa di antropologia al Baruch College di New York ed esperta dell’argomento Cuba all’interno della parte meno bellicosa del progetto di ingerenza. Il 10 febbraio 2013 – mentre il suo collega di studi, Ted Henken, si preparava ad accompagnare Yoani Sánchez nel suo tour negli Stati Uniti – Katrin inviò a Soros un rapporto dal titolo rivelatore: “Background Paper: Cuba”, che concludeva: “L’attuale periodo di cambiamento è un momento opportuno per tendere la mano e lavorare con Cuba e i cubani per sostenerli nel diventare una società più aperta” (Hansing, 2013).

Quando nel 2014 la Chiesa richiese ai redattori di Espacio Laical di cessare il loro lavoro nella rivista, crearono Cuba Posible. Il 21 novembre erano già presenti sul New York Times: “Questa coppia riflette un crollo della politica binaria di cubani pro e anti-Castro che ha dominato per decenni”, notava la corrispondente dal Messico, prima di indicare che avrebbero “…messo alla prova la soglia della disponibilità del governo al confronto, così come l’attrazione dei cubani per una terza via” – la stessa cosa che tentò Eisenhower quando divenne chiaro che Batista era stato sconfitto.

“Consultata” dalla giornalista, Katrin Hansing li definì “riflessivi e coraggiosi” (Burnett, 2014). Quando il 17 dicembre fu sparato il colpo di partenza, gli stesero un tappeto rosso al Dipartimento di Stato e gli aprirono un conto bancario offshore.

Diversi intellettuali con un bel curriculum alle spalle credettero nelle loro buone intenzioni. Cominciarono a tornare sui propri passi quando si accorsero del loro entusiasmo sfrenato per i legami con l’amministrazione Obama e quando venne alla luce la sponsorizzazione della Open Society, nella cui sede di New York organizzarono persino un evento con un esperto in “transizione” della Fondazione Friedrich Ebert.

Stavano facendo carriera politica e cercarono di brevettare il termine eufemistico e trito di “centrismo” per legittimare un progetto neoplattista5. Ottennero attenzione – uno di loro fu persino accolto come membro del Dialogo Interamericano – e assistenza finanziaria, non per la loro tesi di perfezionare il modello di sviluppo scelto dal popolo cubano, ma per dichiararsi a favore di un sistema multipartitico e stabilire una socialdemocrazia “tropicale” – a sole 90 miglia dagli Stati Uniti e, naturalmente, con un modello neoliberista – come se questo popolo non fosse sufficientemente “sveglio”.

Tutta questa retorica non riuscì a velare le loro intenzioni di fare un braccio di ferro con il governo.

Già allora, un gruppo di giovani giornalisti e professori universitari attivi nelle reti sociali di Internet godeva di borse di studio negli Stati Uniti, in Olanda e in Germania. Erano stati identificati da Ted Henken, professore di sociologia al Baruch College e uno degli esperti in “transizioni” dei circoli accademici e delle conferenze che alimentarono il Piano Bush, che si era recato sull’isola nel 2011 per dare forma a questo fenomeno sul campo.

Nella sua relazione-articolo pubblicata in una rivista finanziata dalla Fondazione Friedrich Ebert, Henken riconobbe che l’amministrazione Obama avesse concepito Internet e l’espansione delle comunicazioni con l’isola come strumenti chiave della propria politica contro il governo cubano.

E sottolineò un’idea “piena di speranza” che attirò l’attenzione: “…negli ultimi anni l’estensione della blogosfera cubana è stata capace […] di costruire alcuni ponti e spazi che cercano di uscire dai ‘monologhi’ sia filogovernativi che dell’opposizione. Tutto questo in un contesto in cui sia per il governo cubano che per gli Stati Uniti il web è parte di una battaglia politica di dimensioni maggiori” (Henken, 2011: 90).

Poco dopo fu inviato come vicecapo della Sezione di Interessi degli Stati Uniti all’Avana Conrad Tribble, un ufficiale dell’intelligence del Dipartimento di Stato con un master al National War College di Washington, appassionato di canto e musica e attivo su Twitter, perciò capace di attirare la simpatia dei giovani blogger.

Questo, insieme a un aggressivo programma di borse di studio – Usaid stanziò 35 milioni di dollari nel 2015 per un nuovo piano di istruzione superiore per l’America Latina – e i 40 milioni di dollari per programmi di cambio di regime amministrati dai collaboratori di Usaid e NED tra il 2015 e il 2016 – ricevettero 304 milioni di dollari dal 1996 dei quali il 90% a partire dal 2004 -, permise all’amministrazione Obama di creare e articolare una rete di siti web che si proclamano “indipendenti” – un aggettivo che non si limita a Cuba e si estende ai siti creati contro la sinistra globale -, che ha come target tutti i settori della nostra società e la popolazione emigrata.

Un gruppo proveniente dalle facoltà umanistiche delle università cubane si unì agli scopi della controrivoluzione. La maggior parte emigrò tra il 2010 e il 2015. Stavano soffrendo gli effetti della crisi globale del 2008 e i contratti dell’Usaid e della NED garantivano loro stabilità finanziaria; altri nel paese, critici nei confronti della politica editoriale dei nostri media, avevano forse inizialmente l’illusione di fare un altro tipo di giornalismo.

Tra i maggiori protagonisti in questa nuova piattaforma mediatica anticubana – dentro e fuori l’isola – spiccano 14ymedio, ADN Cuba, Cibercuba, Rialta, El Toque e El Estornudo.

Obama terminò il proprio mandato il 20 gennaio 2017. Quattro mesi dopo, Donald J. Trump aveva già siglato un’alleanza con Marco Rubio e selezionato Mike Pompeo come direttore della CIA – in seguito lo elevò a segretario di Stato – che, dopo essersi laureato all’Accademia di West Point, aveva pattugliato la cortina di ferro fino alla caduta del muro di Berlino. Membro del Tea Party, Pompeo avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella revisione dei programmi di eversione contro Cuba.

Il 16 giugno 2017, al teatro Manuel Artime Buesa di Miami6, e davanti a un pubblico che non vedeva l’ora di fermare il processo di normalizzazione delle relazioni bilaterali, Trump cambiò le regole del gioco: circondato da politicanti, scagnozzi e mercenari, definì sbagliata la PPD-437 e la abrogò.

Per incendiare gli animi ricordò la Baia dei Porci, la Crisi d’Ottobre, l’operazione Peter Pan e l’abbattimento degli aerei di Hermanos al Rescate8, mentre un gruppo di terroristi pluripremiati con protezione e denaro era in delirio per l’entusiasmo. Nessuno agitò una bandiera cubana. “USA, USA, USA!” gridavano, sventolando piccole bandiere degli Stati Uniti.

E all’indomani dell’evento, uomini e donne con la mano destra sul petto ascoltarono sovraeccitati una versione di The Star-Spangled Banner suonata male da un violinista il cui “merito” – secondo le parole di Trump – era quello di essere figlio di Benigno Haza, che partecipò con José María Salas Cañizares all’assassinio di Frank País, Raúl Pujol9 e altri giovani di Santiago durante la tirannia di Batista.

Trump diede una svolta alle relazioni bilaterali: stese un tappeto rosso nello Studio Ovale per la brigata 2506 e mise la gestione della politica nei confronti di Cuba nelle mani di una nuova generazione all’interno dell’orbita reazionaria e revanscista che regna in Florida.

Nominò Mauricio Claver-Carone direttore per l’emisfero occidentale al Consiglio di Sicurezza Nazionale – il funzionario di più alto rango alla Casa Bianca per gli affari latinoamericani e caraibici -; Yleem Poblette, sottosegretario di Stato per il controllo, la verifica e l’adeguamento degli armamenti; e Mercedes Viana-Schlaap consigliere principale per le comunicazioni strategiche.

Come assistente amministratore dell’Ufficio America Latina e Caraibi della Usaid fu designato John Barsa, ex consigliere alla Camera di Lincoln Díaz-Balart e, al momento della sua nomina, funzionario del Dipartimento della Sicurezza Nazionale.

Convinti che la lotta per conquistare il potere politico a Cuba sia segnata dalla lotta di classe, e che – al di là delle legittime insoddisfazioni – l’orientamento popolare della democrazia a Cuba ha l’appoggio maggioritario del proprio popolo, i teorici della eversione negli Stati Uniti scommisero sul generare il caos in un popolo condannato all’asfissia economica; nel frattempo, si cercava di fomentare una classe medio-alta con boria di essere milionaria che avrebbe dovuto spazzare via il socialismo per soddisfare le sue aspirazioni personali.

A questo fine, un numero crescente di nostri laureati riceveva direttamente la formazione neoliberista con borse di studio per masters e dottorati concessi da prestigiose istituzioni di istruzione superiore negli Stati Uniti, in Europa e in America Latina.

In mezzo alle carenze indotte e alle inadeguatezze del modello economico cubano e della sua gestione – inclusa la resistenza silenziosa di coloro che rifiutano i cambiamenti richiesti dalle circostanze -, la rivoluzione delle comunicazioni si incaricò di accrescere il miraggio del “sogno americano” rinnovato dall’industria dello spettacolo.

Il consumo come presunta essenza della vita passa oggi attraverso canali molto più efficienti di Hollywood: Instagram, Facebook e WhatsApp, tre social network su Internet che favoriscono una necessaria familiarità con quei giovani la cui alta istruzione ha garantito loro un vantaggio decisivo nei paesi dove vivono dopo aver ricevuto offerte di lavoro alla fine dei loro studi post-laurea.

Paradossalmente, la nostra televisione trasmette questi modelli replicati in film stranieri, soap opera e serie tv, e anche nella programmazione per bambini e ragazzi, cosa che riempie di veleno coloro che non hanno accesso ai media digitali, di solito famiglie con poche risorse.

Promuovere a Cuba un ideale di una classe medio-alta organica agli interessi degli Stati Uniti – sradicata dai valori del socialismo e dall’essenza antimperialista del nostro popolo – richiede l’articolazione di un nucleo intellettuale capace di sovvertire i simboli costruiti durante 150 anni e di seminare nell’immaginario popolare, per mezzo di giochi di prestigio linguistici, l’immagine di una Cuba malata di cancro con metastasi nelle sue istituzioni rivoluzionarie come conseguenza della genetica sociale – sarebbe a dire che la guerra genocida delle amministrazioni repubblicane e democratiche successive al trionfo del 1 gennaio 1959 non ha alcun ruolo, così come le incapacità e gli errori interni di un paese che ha dovuto costruirsi nelle circostanze più avverse; il problema è strutturale: il socialismo non è praticabile.

Durante il 2019 il clima bilaterale tra gli Stati Uniti e Cuba ha sperimentato un sostanziale deterioramento. Le misure coercitive e le azioni di sovversione ideologica hanno generato uno scenario di scontro accelerato.

Data la situazione in Venezuela e il complesso scenario socioeconomico interno, coloro che erano in prima linea nei piani di destabilizzazione hanno assunto il momento come un’opportunità senza precedenti per forzare i cambiamenti.

Il nucleo intellettuale responsabile dei programmi di cambio di regime, tuttavia, non riusciva a vedere la luce alla fine del tunnel. “I membri del Partito Comunista e i membri delle Forze Armate Rivoluzionarie Cubane pensano di poter mantenere la stabilità politica e la pace sociale in mezzo a una stagnazione economica che potrebbe peggiorare quando il regime venezuelano crollerà completamente?”, si sono chiesti in un articolo pubblicato il 2 maggio 2019 su Open Democracy – un sito britannico finanziato da Open Society e dalla Fondazione Ford – i politologi Laura Tedesco, vicepreside di Arti e Scienze alla Sant Louis University / Madrid Campus, e Rut Diamint, professoressa all’Università Torcuato di Tella a Buenos Aires.

Per loro, l’entusiasmo nato “con il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, la visita di Barack e Michelle Obama, i Rolling Stones e la sfilata di Chanel è oggi un sogno irripetibile. Solo il deteriorato governo venezuelano mantiene un rispetto intatto per il potere cubano”. E hanno esplicitato un’altra intenzione:

“Miguel Díaz Canel scommette sull’immobilismo. Per questo cubano […] sarebbe impensabile promuovere cambiamenti che possano destabilizzare il potere delle FAR e del presunto onnipotente generale di brigata Luis Alberto Rodríguez López Calleja, direttore della GAESA10 ed ex genero di Raúl Castro.

Eppure, senza dubbio, il cambiamento sarà inevitabile. Non sappiamo quando, o come, o chi spingerà per questo o lo porterà a compimento. La pazienza dei cubani non è eterna. Per ora, il potere della burocrazia cubana sembra incrollabile e la sua autorità indiscutibile, ma vale la pena ricordare che la rivoluzione è un prodotto delle condizioni storiche e queste condizioni non sono immutabili.

Le autorità non sembrano attente a come preservare le conquiste, se dovesse arrivare un cambiamento. L’eterna sopravvivenza della rivoluzione è un’utopia a cui nemmeno gli stessi generali delle FAR possono credere. È possibile che non sappiano come uscirne. Né come proteggere se stessi in un processo di cambiamento. E la cosa più inquietante è che dall’altra parte non c’è nessuno che si assuma la responsabilità di trasformare Cuba.

I dissidenti, i gruppi di opposizione, i cubano-americani, non hanno mostrato, finora, la capacità di articolare una proposta di governo o di mobilitare i cubani che sono insoddisfatti delle difficoltà quotidiane. […]

Díaz Canel potrebbe già star preparando la propria trasformazione riformista o il proprio discorso di addio” (Tedesco, Diamint, 2019).

Tedesco e Diamint coordinano dal 2016 il progetto “Dialoghi su Cuba”, come parte del programma di formazione della leadership finanziato dal governo degli Stati Uniti – precedentemente Tedesco ha coordinato per quattro anni un progetto sulla leadership in Argentina, Venezuela, Ecuador, Uruguay e Colombia con i soldi di Open Society.

Con più incertezze che certezze, a luglio hanno convocato un workshop per il 12-14 settembre 2019 alla Sant Louis University / Madrid Campus, un’istituzione gesuita statunitense legata all’esercito, nella quale si insegna in inglese. Volevano valutare il ruolo delle forze armate nei cambiamenti che intendono promuovere; oltre che addestrare. I partecipanti dovevano fare una lettura prima di partecipare all’evento, assistere a tutte le attività previste e, cosa più importante, tornare a Cuba una volta terminato il programma.

Le loro figure principali? L’ex presidente spagnolo Felipe González e Richard Youngs, senior fellow in Democrazia, Conflitti e Programmi di Governance presso l’ufficio di Bruxelles del Carnegie Endowment for International Peace e uno dei teorici più importanti negli Stati Uniti sull’attivismo politico e il suo finanziamento per scatenare “rivoluzioni colorate”.

Al workshop hanno partecipato due agenti nemici pagati dalle successive amministrazioni statunitensi: Manuel Silvestre Cuesta Morúa e Reynaldo Escobar (il marito di Yoani Sánchez), e una recente aggiunta allo staff: Yanelis Núñez Leyva.

Anche un drammaturgo e regista teatrale, autore di diverse opere portate in scena negli ultimi anni senza ombra di censura e con una solida carriera all’interno del movimento artistico dell’isola maggiore delle Antille.

Cosa potrebbe insegnare González, un uomo che ha assunto la direzione del PSOE grazie all’aiuto della CIA e dell’intelligence di Franco, e dopo aver assunto la presidenza del paese creò nell’ottobre 1983, e diresse sotto lo pseudonimo X – come ha rivelato recentemente un documento declassificato della CIA (Winston, 1984: 17-22) -, i Gruppi Antiterroristi di Liberazione (GAL), che hanno rapito, torturato, ucciso e sepolto nella calce viva almeno 27 presunti militanti dell’ETA in Francia?

Di cosa potrebbe parlare un uomo che è diventato milionario con la politica e che oggi si è unito a José María Aznar per rivendere in Europa Juan Guaidó, un prodotto made in USA? Cosa ci faceva un drammaturgo in questo laboratorio su come annientare le Forze Armate Rivoluzionarie, simbolo del più profondo patriottismo mambí11, per rovesciare la Rivoluzione?

Una pubblicazione di Richard Youngs su Open Democracy, meno di un mese dopo questa conferenza di Madrid, fornisce la risposta: li addestravano a intensificare le provocazioni, soprattutto il drammaturgo, in corrispondenza alle nuove tattiche per scatenare “rivoluzioni colorate”.

Intitolata “Dopo le proteste: percorsi oltre la mobilitazione di massa”, questa tabella di marcia è il risultato di un rapporto analitico orientato e finanziato dal Carnegie Endowment for International Peace, basato su studi di casi di rivolte avvenute in Europa orientale, Medio Oriente, Asia e Africa negli ultimi anni. Per il suo valore esplicativo, lo cito per esteso:

Negli ultimi sei mesi, abbiamo assistito a un numero allarmante di proteste in tutto il mondo. Mobilitazioni in larga scala si sono prodotte in diversi luoghi, tra cui Algeria, Bolivia, Catalogna, Cile, Ecuador, Egitto, Francia, Georgia, Hong Kong, Indonesia, Iraq, Libano, Russia, Sudan e Regno Unito. Queste proteste sono state sulla scia di altre che negli ultimi cinque anni circa sono avvenute in molti altri paesi.

Questi eventi drammatici vengono riportati in modo prominente dai media globali. Alle proteste partecipa una vasta gamma di cittadini, comprese le persone che in precedenza non avevano alcuna affiliazione politica. Sempre più spesso, la gente comune usa le rivolte per cercare di ottenere trasformazioni sociali, politiche ed economiche. A volte sembra che ogni settimana porti sui nostri schermi una nuova mobilitazione.

Senza dubbio, c’è un grosso problema con l’attenzione che tali proteste attirano, soprattutto a livello internazionale. Nel calore della rivolta, la partecipazione della gente è molto energica e creativa; le organizzazioni civiche e politiche discutono tattiche e obiettivi; l’attenzione della stampa internazionale è intensa e i governi analizzano con urgenza il da farsi quando i cittadini scendono in piazza.

Ma una volta che la protesta si spegne, tutta questa attenzione politica, mediatica e diplomatica tende a evaporare rapidamente. […]

Ed è questo il momento in cui i partecipanti alla protesta devono fare scelte difficili: si ritirano dalla politica o costruiscono nuovi tipi di campagne civiche? Si fanno coinvolgere in partiti politici esistenti, costruiscono i propri codici o stanno lontani dalle principali correnti politiche? Come conservano e sviluppano la capacità di mobilitarsi di nuovo al momento giusto in futuro? E come si proteggono dalla repressione governativa che spesso segue in modo immediato le proteste?

Queste sono le decisioni che determinano se le proteste di massa porteranno a un cambiamento profondo o se non saranno altro che eventi effimeri e destinati a evaporare presto. Eppure quasi sempre questi dilemmi che seguono la protesta generano poco dibattito.

Negli ultimi anni, analisti, giornalisti, attivisti della società civile e organizzazioni internazionali hanno dedicato molta attenzione alle proteste, ed è non solo giusto ma vitale che dedichino tale attenzione, poiché quel dibattito ha aiutato le proteste a evolversi, spesso in modo molto efficace. Tuttavia, è assolutamente necessario dedicare la stessa attenzione al risultato immediato di una protesta, cioè analizzare quando gli obiettivi raggiunti con una rivolta possono passare a un livello politico superiore o sgretolarsi. […]

Sebbene molte persone insistano sulla presunta natura senza leader delle proteste, col tempo i riformisti devono sviluppare un qualche tipo di processo e sviluppare capacità decisionali in maniera istituzionale. Si celebra giustamente l’ingegnosità dei movimenti di protesta contemporanei come cruciale per il loro potere.

Tuttavia, ciò che può funzionare come un vantaggio nel mezzo di una protesta può facilmente diventare uno svantaggio nel periodo in cui gli attivisti hanno bisogno di progettare programmi di riforma a più lungo termine e di cercare di trasformare l’energia irregolare di una rivolta in una strategia politica più strutturata a seconda delle loro necessità.

Un altro fattore è se i partecipanti alle proteste possono rimanere uniti. Tra i riformisti le divisioni interne appaiono rapidamente una volta che l’adrenalina unificante dell’azione di strada si esaurisce. Quando questo accade, è più facile per i regimi evitare o addirittura invertire le riforme una volta che le proteste si placano.

Per mantenere lo slancio civico, gli attivisti devono concentrarsi e andare oltre l’azione diretta efficace e pensare a come costruire ponti tra i diversi gruppi di attori coinvolti in tutte le proteste. Nei paesi dove questo accade, come in Tunisia, è più probabile che le riforme politiche si radichino rispetto ai paesi dove non accade, come nello Zimbabwe per esempio.

Dopo il picco delle proteste, i partecipanti hanno anche bisogno di costruire un insieme più ampio di alleanze nei loro paesi, poiché potrebbero trovarsi isolati da altri settori che sono anch’essi visibilmente a favore del cambiamento, cioè devono quasi sempre sviluppare un qualche tipo di relazione con le principali correnti politiche.

Benché nella maggior parte dei casi i partecipanti alle proteste cerchino di affrontare questa sfida, ci sono esempi, come il cosiddetto Movimento dei Girasoli a Taiwan, nei quali il passaggio dalla protesta alla politica ha avuto più successo. […]

La dimensione internazionale

Queste condizioni sono molto rilevanti relativamente al ruolo che gli attori internazionali possono giocare nel periodo post-protesta. Quando le proteste sono al loro apice, gli attori esterni devono agire con estrema cautela, poiché i regimi possono lanciare accuse sul fatto che queste siano ispirate da parte di potenze straniere.

È fuor di dubbio che i governi occidentali non si siano mostrati forti nella loro risposta alle proteste di Hong Kong, per esempio, perché non vogliono mettere in pericolo le loro relazioni commerciali con la Cina. Ma ci sono anche valide ragioni tattiche per non farsi coinvolgere troppo da una protesta.

In realtà, le pressioni internazionali possono essere più produttive nel periodo successivo alle proteste. Gli attori esterni come i governi occidentali, l’Unione Europea o le Nazioni Unite possono aiutare a riunire i diversi attori per sviluppare strategie post-protesta.

Possono rendere più facile per i partecipanti alle proteste in diversi paesi condividere le informazioni – spesso estremamente scarse. Possono anche finanziare progetti per migliorare la cooperazione tra i partecipanti alla protesta e il settore formale delle ONG.

I gruppi internazionali possono fornire assistenza tecnica ai partecipanti alle proteste su come impegnarsi nella politica dei partiti, eludere la repressione e legarsi ai vari tipi di attivismo civico. E possono anche impegnarsi per far sì che le rivolte di massa non rimangano semplici disordini senza conseguenze, ma siano parte del loro sostegno ad altre sfere di trasformazioni sociali, economiche e politiche.

Riassumendo, tanto la necessità di sostegno internazionale quanto il suo raggiungimento possono spesso essere molto più grandi immediatamente dopo la protesta che durante essa. Mentre la protesta si va affievolendo, la comunità internazionale può, e deve, aumentare il suo impegno.

In pratica, però, è molto facile che l’attenzione dei donatori e delle ONG internazionali venga deviata su un’altra situazione di emergenza non appena la rivolta in corso non è più nei titoli dei giornali. È normale che l’attenzione internazionale si sposti altrove una volta che le proteste in un dato paese cominciano a placarsi, anche se è proprio a quel punto che l’apporto esterno può essere più produttivo.

È difficile non commuoversi di fronte a ciò che i giovani attivisti di Hong Kong e altrove hanno ottenuto negli ultimi mesi. Ma è importante tenere a mente che è nel momento in cui le folle tornano a casa che si producono gran parte delle scelte politiche veramente decisive e le manovre di potere dietro le quinte.

È possibile che la fase successiva alla protesta non sia così drammatica in termini mediatici come il calore di una grande manifestazione, ma è di vitale importanza per determinare se le proteste sono in definitiva significative o meno – e per determinare se il loro impatto è positivo o meno per la democrazia.

Benché gli attivisti in molti paesi abbiano iniziato a prestare maggiore attenzione alle proprie strategie post-protesta, questo è un campo dell’azione della società civile che ancora bisogna ripensare e perfezionare molto. Una protesta che si è calmata non deve essere trattata come un punto di arrivo, ma come l’inizio decisivo della preparazione per una nuova fase di attivismo politico (Youngs, 2019).

La belligeranza si è fatta più perfida. Il rifiorire del discorso di una stirpe di tradizione terrorista ha alimentato a un segmento dell’emigrazione che è arrivato dopo il 2010 e non ha trovato il “sogno americano”. Per non incolpare se stessi, sfogano la loro rabbia sulla Rivoluzione e su Fidel. I loro sforzi si sono articolati grazie a fondi di Usaid, NED e parte del denaro messo in circolazione in Florida dal gruppo suprematista Proud Boys, guidato da Enrique Tarrio, figlio di cubani nato a Miami 34 anni fa, che ha legami con l’estrema destra e la macchina organizzativa repubblicana locale.

Il fascismo e la xenofobia sono fioriti, e la guerra psicologica ha assunto una dimensione che rasenta il terrore. Aiutata dallo sviluppo delle comunicazioni, la cricca ha adattato i messaggi a un pubblico che ha trovato nelle reti sociali di Internet il canale per proiettare le proprie frustrazioni e la propria rabbia.

Così si è arrivati al 3 novembre 2020, il martedì nero della carriera politica di Donald J. Trump, l’unico presidente degli Stati Uniti non rieletto per un secondo mandato negli ultimi trent’anni. Il popolo cubano è stato capace di resistere alle angherie e sopravvivere al nodo gordiano con cui si è cercato di strangolarlo nel bel mezzo del Covid-19 – 240 misure coercitive unilaterali in quattro anni, tra cui l’inedita attuazione dei titoli III e IV della legge Helms-Burton.

A Eliot Abrahams, un esperto di guerra sporca con un ruolo da protagonista nell’Irangate, voluto da Trump nel branco delle iene, doveva venire in mente qualcosa. Avevano tutto il necessario nella squadra anti-cubana del gabinetto, rinforzata con diverse promozioni: Josh Hodges, pupillo di Mauricio Claver-Carone, passò da vicedirettore per la gestione delle informazioni nella Direzione delle Comunicazioni Strategiche del Consiglio di Sicurezza Nazionale, a direttore per l’Emisfero Occidentale; Carlos Trujillo, da ambasciatore all’OSA a sottosegretario di Stato per l’Emisfero Occidentale, mentre John Barsa fu nominato amministratore generale dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID).

Timothy Zúñiga-Brown, incaricato d’affari all’Avana, aveva a sua disposizione nel popoloso quartiere di San Isidro un piccolo gruppo dedito alle “volgarità manieriste e fascistoidi” – come ha affermato uno scrittore e critico cubano -, e che aveva proclamato Trump come suo presidente, addirittura uno dei suoi membri chiedeva a gran voce un intervento militare statunitense contro Cuba.

Creare una situazione di contingenza, un incidente, non sarebbe stato difficile per loro e l’ordine arrivò: “Senza pietà, è il momento di scalare la vetta”.

Continua….

1“Piedi secchi piedi bagnati”, è parte della legge della Ley de Ajuste Cubano, una legge degli Stati Uniti che incentiva l’emigrazione clandestina per spettacolarizzarla a fine politico mediatici, impedendo al contempo una emigrazione regolare verso gli USA mettendo a grave rischio la vita dei migranti e creando problemi di sicurezza interna a Cuba.

2Ci si riferisce al Cuban Medical Professional Parole (2006), conosciuto a Cuba come: “Programa Parole” che tenta di incitare – con scarsissimi risultati, in Brasile su 8500 medici solo una decina hanno abbandonato la missione – la diserzione del personale della salute che operano all’estero promettendogli l’acquisizione automatica della cittadinanza statunitense. Attualmente esistono fortissime pressioni per ripri1“Piedi secchi piedi bagnati”, è parte della legge della Ley de Ajuste Cubano, una legge degli Stati Uniti che incentiva l’emigrazione clandestina per spettacolarizzarla a fine politico mediatici, impedendo al contempo una emigrazione regolare verso gli USA mettendo a grave rischio la vita dei migranti e creando problemi di sicurezza interna a Cuba.

2Ci si riferisce al Cuban Medical Professional Parole (2006), conosciuto a Cuba come: “Programa Parole” che tenta di incitare – con scarsissimi risultati, in Brasile su 8500 medici solo una decina hanno abbandonato la missione – la diserzione del personale della salute che operano all’estero promettendogli l’acquisizione automatica della cittadinanza statunitense. Attualmente esistono fortissime pressioni per ripristinare il programma Parole da parte della destra anticubana rappresentata nel senato e nella camera dei rappresentanti dai senatori e deputati Marco Rubio, Mario Diaz Balart, Rick Scott, Bob Menendez, tra gli altri, (n.d.t.).

3Ci si riferisce alla generazione dei rivoluzionari guidati da Fidel nati all’incirca cento anni dopo la nascita di José Martí, poeta, rivoluzionario cubano uno dei padri della Patria, (n.d.t.).

4Ufficio diplomatico degli Stati Uniti con funzioni ridotte tranne quelle relative allo spionaggio e all’intromissione negli affari interni di Cuba, (n.d.t.)

5Si riferisce all’emendamento Platt fatto inserire obtorto collo dagli Stati Uniti nella costituzione cubana del 1902

stinare il programma Parole da parte della destra anticubana rappresentata nel senato e nella camera dei rappresentanti dai senatori e deputati Marco Rubio, Mario Diaz Balart, Rick Scott, Bob Menendez, tra gli altri, (n.d.t.).

3Ci si riferisce alla generazione dei rivoluzionari guidati da Fidel nati all’incirca cento anni dopo la nascita di José Martí, poeta, rivoluzionario cubano uno dei padri della Patria, (n.d.t.).

4Ufficio diplomatico degli Stati Uniti con funzioni ridotte tranne quelle relative allo spionaggio e all’intromissione negli affari interni di Cuba, (n.d.t.)

5Si riferisce all’emendamento Platt fatto inserire obtorto collo dagli Stati Uniti nella costituzione cubana del 1902 che prevedeva la possibilità di intervenire militarmente sull’isola, qualora ritenessero i loro interessi in pericolo. Per estensione il termine neoplattista si riferisce a soggetti che si vendono agli interessi di dominazione degli USA su Cuba, (n.d.t.).

6Il tetro porta il nome di un noto traditore e controrivoluzionario cubano. (n.d.t.).

7Direttiva presidenziale emessa da Obama, vedi la parte 2 di questo saggio, (n.d.t).

8Organizzazione controrivoluzionaria che con la copertura delle autorità statunitensi organizzava azioni terroristiche contro Cuba e provocazioni con l’uso di aerei. Dopo ripetuti avvisi diretti e proteste attraverso le vie diplomatiche, all’ennesima violazione dello spazio aereo cubano gli furono abbattuti due velivoli, (n.d.t.).

9Membri del Movimento Rivoluzionario 26 di Luglio, Frank País era il responsabile militare delle attività clandestine urbane, (n.d.t.).

10Consorzio di imprese delle Fuerzas Armadas Revolucionarias l’esercito cubano, (n.d.t.)

11L’esercito Mambí era l’esercito guerrigliero che combatteva per liberare Cuba dal giogo dell’imperialismo spagnolo, (n.d.t.).

* da La Jiribilla – Rivista di cultura cubana, www.lajiribilla.cu

(la grafica di copertina è di Paolo Burani)

Vedi seconda parte  e prima parte

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