Il 22 giugno cade l’ottantesimo anniversario dell’operazione “Variante Barbarossa”, l’attacco nazista all’Unione Sovietica. Quanto quella data non rappresenti solamente una soglia storica, ma rivesta connotazioni politiche molto attuali, lo dimostrano le continue “risoluzioni europeiste” volte a equiparare, nella categoria a-classista di “totalitarismo”, l’Unione Sovietica alla Germania nazista per lo scatenamento della Seconda guerra mondiale.
È facile prevedere che, se a Bruxelles si ricorderà la tragica ricorrenza, lo si farà mutuando gli stereotipi diffusi da trent’anni dai liberali russi, si parlerà di “scontro tra due dittature” e anzi, alla maniera della portavoce del Ministero degli esteri russo, Marija Zakharova, si sosterrà che «i capi che hanno annientato il proprio popolo bruciano all’inferno con fiamme due volte più ardenti di quelli che hanno annientato altri popoli».
Sarà in ogni caso interessante osservare come “celebreranno” la data gli eredi di coloro che, nel 1941, accolsero da “liberatori” gli invasori nazisti in Ucraina, Bielorussia, Lituania e diedero loro man forte nelle stragi più mostruose.
Nel giugno 1941, forze armate e volontari da mezza Europa, senza “risoluzioni europeiste”, si accodarono alle truppe hitleriane in una “Internazionale nera” per una guerra di sterminio che rinverdiva l’intervento di quattordici stati stranieri contro la Russia sovietica di vent’anni prima.
Contro la giovane Russia sovietica si erano avventate le antesignane delle moderne «democrazie più forti del mondo», che allora si chiamavano Triple Entente e Mittelmächte e che, come oggi, proclamavano che «insieme, possiamo superare qualsiasi minaccia alla nostra sicurezza», soprattutto se la minaccia è data dal contagio della rivoluzione sociale.
La Russia di oggi non è né la RSFSR del 1918, né l’URSS del 1941; ma qui parliamo d’altro, e la formula «gli Stati Uniti ci sono. Come nella Seconda Guerra Mondiale» significava impedire, nel 1945, che l’Esercito Rosso arrivasse oltre l’Elba e, oggi, che le economie in affanno mangino la polvere dietro quelle in ascesa. Solo che alcune sono in forte affanno, ma pedalano, mentre altre aspettano proprio la spinta dei gregari.
Comunque, rispetto al 1918, nel 1941 mancava il Giappone militarista, in cui il trattato di non aggressione sovietico-tedesco del 1939 aveva provocato una crisi di governo, e che, dopo aver concluso un patto di neutralità con Mosca nell’aprile 1941, aveva imboccato la strada dell’espansione verso il sud-Pacifico.
Mancavano gli Stati Uniti – pur largamente presenti con banche e accordi di trust a foraggiare gli hitleriani – ma solo perché Mosca non era caduta nelle provocazioni naziste tese a farla apparire parte attaccante: già nel 1937 Roosevelt aveva dichiarato che gli yankee si sarebbero schierati con la Germania, se fosse stata attaccata dall’URSS, concetto ribadito dal Congresso USA nel maggio ’41.
Mancava la Gran Bretagna, coi suoi “Dominions”, che da più di vent’anni brigava per indirizzare verso est la Germania, sia weimariana che hitleriana e che, un mese prima dell’attacco nazista, aveva dato disco verde alla Wehrmacht, assicurando al “fuggitivo” Rudolf Hess che Londra non avrebbe attaccato la Germania mentre questa era impegnata a oriente.
A ogni buon conto, Churchill aveva pianificato il bombardamento (annullato, al pari della programmata entrata in guerra a fianco della Finlandia, nel 1940) dei pozzi petroliferi di Baku, partendo dalla base aerea britannica a Mosul.
Mancava la Francia, ma solo perché era stata sconfitta dai tedeschi un anno prima: in ogni caso, non mancavano volontari francesi e di altre decine di paesi, arruolatisi di proposito nelle file delle SS.
Il 22 giugno rimane una data oltremodo tragica e dolorosa nella storia sovietica: i Gruppi d’armate – armata “Norvegia” verso Murmansk e Karelia; Gruppo di armate “Nord”, verso Leningrado e Baltico; Gruppo di armate “Centro”, verso Bielorussia e Mosca; Gruppo di armate “Sud”, verso l’Ucraina: 182 divisioni tedesche, finlandesi, rumene e ungheresi, cui chiesero poi di unirsi divisioni italiane, croate e slovacche, per un complesso di 5 milioni di uomini. Avrebbero superato le 230 divisioni nel corso della guerra: quattro volte tanto quelle impegnate sul fronte occidentale – che con un blitzkrieg attaccarono l’URSS, riuscirono a penetrare così profondamente in territorio sovietico, tanto da accerchiare centinaia di migliaia di soldati del RKKA (Raboče-krest’janskaja Krasnaja Armija), così che già il 28 giugno cadeva Minsk e il 10-12 luglio iniziava la battaglia attorno a Smolensk: meno di 400 km da Mosca. Come era potuto accadere?
«Stalin non aveva capito che si stava avvicinando la guerra e non aveva preparato l’esercito»; «Stalin aveva decapitato i vertici militari con le purghe del 1937»; «Stalin si rifiutò sempre di credere alle informazioni del controspionaggio». Oppure: «Stalin si fidava di Hitler». Eccome, no! “maniaco, paranoico, sospettoso verso tutto e tutti”, “non si fidava di nessuno”, ma poi, ecco, viene dipinto come uno che crede “nella lealtà di Hitler”!
Lo “testimonierebbe”, ci raccontano, il presunto “carteggio” tra Hitler a Stalin, di cui però non c’è traccia negli archivi russi; anzi, a proposito delle immaginarie missive di Stalin al führer diffuse in Occidente, lo storico Arsen Martirosjan ne evidenzia i curiosi “anglicismi” di sintassi e punteggiatura!
Sono queste, insomma, le litanie più ricorrenti nella belletristica liberale, sia in Russia che a Ovest, unite a quella della “confusione e disperazione” di Stalin per l’attacco nazista e della sua “scomparsa” per almeno una settimana.
Come stanno le cose?
Davvero Stalin non aveva capito che si stava avvicinando la guerra? Sin dal 1925, dal trattato di Locarno tra Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Belgio, Stalin aveva tanto compreso che la guerra era inevitabile – «Locarno ha liberato lo spirito della guerra», disse commentando quel “prototipo” del successivo accordo di Monaco del 1938 – che tutta la politica sovietica, con la fine della NEP, fu indirizzata a creare una forte industria pesante, quale base per l’industria di guerra.
E nel febbraio 1931 pronunciò la famosa frase «siamo in ritardo di 50-100 anni rispetto ai paesi avanzati; dobbiamo coprire questa distanza in dieci anni. O lo facciamo, o ci sbaraglieranno».
Per tutti gli anni ’30, di fronte all’attacco giapponese alla Cina, all’invasione italiana dell’Etiopia, all’aggressione italo-tedesca alla Spagna repubblicana, la diplomazia sovietica continuò a parlare di “guerra mondiale già in corso”, sforzandosi di creare un fronte di “sicurezza collettiva”, respinto però dalle allora “democrazie più forti del mondo”.
Nel 1934, si cominciò a programmare la realizzazione, oltre gli Urali, dei “doppioni” delle principali industrie sovietiche. Al XVIII Congresso del VKP(b), nell’ottobre 1937, Stalin afferma che «la seconda guerra imperialista è già in corso» e lancia la 3° Pjatiletka che prevede, per i primi due anni, una crescita del 86% dell’industria militare.
Si cominciano ad allestire oltre gli Urali le infrastrutture (elettricità, acqua, ecc.) per il trasferimento degli impianti industriali, così che, già nei primi 2-3 mesi di guerra, poterono essere evacuate 3.600 grandi industrie, in particolare quelle di tank, motori, aerei, e oltre 12 milioni di tecnici e operai vi cominciarono immediatamente a lavorare, grazie alle basi gettate quattro anni prima.
Ci si aspettava così tanto la guerra che anche le pubblicazioni sull’invasione napoleonica ne furono aperta testimonianza.
Tra i tentativi sovietici di scongiurare le provocazioni naziste e ribadire all’Occidente le posizioni di Mosca, anche la vicenda della lettera indirizzata ai membri del Politbjuro, in cui Stalin criticava alcune affermazioni fatte da Friedrich Engels nel 1890 in “La politica estera dello zarismo”: scritta nel luglio 1934, viene pubblicata sull’organo teorico del partito “Bol’ševik” proprio nel maggio 1941.
In estrema sintesi, Stalin sosteneva che Engels aveva sopravvalutato il ruolo della borghesia russa che, cacciando lo zar, avrebbe impedito una guerra mondiale. Ma, come osserva lo storico Nikolaj Romanovskij, la pubblicazione dello scritto di Stalin a un mese dall’attacco nazista, era legata proprio alla situazione del 1941.
Stalin «conduce una disputa scientifica (nella sua comprensione) con Engels, prima di tutto, a) … sull’inizio della guerra e b) sulla genesi del conflitto bellico. Inoltre, tra le altre questioni legate agli eventi del 1941, Stalin parlava della rivalità tra Germania e Inghilterra, del problema degli stretti del mar Nero, delle relazioni russo-tedesche».
Pure rivolto, in particolare, a un pubblico estero, anche il Comunicato della TASS (trasmesso per radio alle 18 del 13 giugno, quando le forze tedesche avevano già cominciato ad attestarsi sulle posizioni d’attacco, e pubblicato sulla stampa il 14 giugno) che rinviò, per un momento, l’attacco tedesco: il comunicato era rivolto per un 30% a Berlino, ma per il restante 70% ammoniva Londra a non provocare il conflitto tra URSS e Germania.
In effetti, a fine aprile ’41, era iniziato il trasferimento di unità del RKKA dalle Regioni militari orientali (Urali, Bajkal, ecc.) verso i confini occidentali, pur mascherato, in alcuni casi, da “manovre militari”, e il comunicato intendeva anche rispondere alle richieste di spiegazioni tedesche su quei movimenti.
Dunque: davvero Stalin non pensava all’attacco tedesco? Stalin, con quella che viene definita la sua “sottigliezza orientale”, fece di tutto per ribadire che l’URSS non voleva la guerra e anche per ammonire Germania e “democrazie occidentali” delle conseguenze di una seconda “invasione napoleonica”.
Stalin vedeva così lucidamente che tutta la politica delle «democrazie più forti del mondo» era tesa a rivolgere verso est l’aggressività nazista, ed era così consapevole dell’impreparazione del RKKA, che, nell’agosto 1939, aveva stipulato il trattato di non aggressione con Berlino. Riacquisendo all’URSS, grazie al trattato, i territori di Bielorussia e Ucraina occidentali, strappate dalla Polonia di Piłsudski col trattato di Riga del 1921, Stalin vinse in anticipo la “battaglia per lo spazio e per il tempo”: dilazionò di quasi due anni l’attacco nazista (pur se sperava, come racconterà poi l’ex Commissario agli esteri Vjačeslav Molotov, di poterlo rinviare ancora almeno di un anno) e allontanò di 300-350 km verso ovest i confini sovietici. Se Hitler avesse attaccato l’URSS nei confini del 1939, la battaglia di Smolensk, durata oltre due mesi, da luglio a settembre (questo, per quanto riguarda il ritornello dei soldati sovietici che “si arrendevano in massa senza sparare un colpo”) si sarebbe svolta sotto Mosca e non è sicuro come sarebbe finita.
Ma, si dice, le sconfitte dei primi mesi di guerra furono dovute alle “purghe staliniane” del 1937 contro i vertici dell’Esercito Rosso, con una “tesi” fatta propria anche da storici divulgativi applauditi dalla sinistra. Questo richiederebbe una trattazione a parte e in ogni caso tale “tesi” è stata largamente smentita dagli studi degli ultimi anni su “quantità e qualità” delle epurazioni tra i ranghi militari e sui reali obbiettivi di Mikhail Tukhačevskij, col suo “Piano della disfatta”, il suo tentativo di colpo di stato (insieme ai vari Putna, Gamarnik, Jakir, Uborevič, Kork, ecc.) e di alleanza con la Germania hitleriana. Qui basti ricordare che, quando i liberali parlano di 40.000, 50.000 o addirittura 70.000 “epurati”, si assicurano che il lettore intenda senz’altro “fucilati”. Ora, il corpo di comando del RKKA era costituito da oltre duecentomila uomini; tra il 1936 e il 1940 ne vennero allontanati 36.898, con motivazioni di età, salute, morale (alcolismo, appropriazioni, ecc.) e politiche. Di questi, la metà, in seguito alle verifiche, venne reintegrata e solo circa 9.000 non furono riammessi. I fucilati furono 1.634. «Lo dobbiamo al 1937, se da noi, durante la guerra, non ci fu una quinta colonna», disse nel 1970 Molotov, nelle sue conversazioni con lo scrittore Feliks Čuev. Qui tanto basti.
«Stalin si rifiutò sempre di credere alle informazioni del controspionaggio», si dice. Effettivamente, per quanto riguarda i dubbi di Stalin su vari rapporti dell’intelligence, questi nascevano dal fatto che molte “fake” provenivano sia dal Abwehr nazista, sia dal MI-6 britannico, che non aveva mai rinunciato a provocare uno scontro tra Germania e URSS: lo testimonia anche la vicenda dell’improvviso riconoscimento dell’URSS da parte del regno jugoslavo nel 1941, ispirato proprio da Londra, allo scopo, se non si fosse arrivati a una guerra in territorio sovietico, di far scontrare Mosca e Berlino nei Balcani. La lettera di Churchill a Stalin, del 3 aprile ’41, aveva non tanto lo scopo di avvertire Mosca delle intenzioni tedesche, bensì di sollecitare l’URSS a “venire in soccorso” della Jugoslavia attaccata da Hitler; ma Mosca non cadde nella trappola. Come che sia, solo tra 11 e 22 giugno ’41, l’intelligence informò i vertici militari ben 47 volte su direttrici, giorno e ora dell’attacco tedesco. L’URSS disponeva di una fitta rete di Intelligence (ne operavano almeno quattro, tra NKVD, NKID, GRU, Komintern, oltre alle spie “personali” di Stalin nelle alte sfere di Wehrmacht, SS, NSDAP) con informatori fin nello SM tedesco. Tra gli agenti più famosi e più produttivi, ad esempio, “Staršina” e “Korsikanets”, (rispettivamente l’Oberleutnant Harro Schulze-Boysen e l’antifascista Arvid Harnack) che, già a febbraio ’41, comunicarono di tre Gruppi d’armate tedeschi previsti per l’attacco e che questo avrebbe potuto iniziare il 13 (questa data decade proprio a causa del citato comunicato TASS) o 18 giugno. Il 12 giugno, un agente del GRU informa che la data definitiva è fissata al 22 giugno. E, comunque, le prime indicazioni a fine 1940 parlavano di attacco “dopo il periodo della semina”, con i germogli ancora verdi e questo significa, a quelle latitudini, entro la fine di giugno. Perché i germogli verdi? Mosca sapeva, che le riserve cerealicole tedesche erano agli sgoccioli e che la Germania aveva assoluto bisogno di grano; ma questo non doveva essere troppo maturo, per evitare che l’Esercito Rosso in ritirata lo bruciasse. L’attacco non poteva cominciare nemmeno troppo prima, dato che, come scrive Martirosjan, i «generali tedeschi non erano degli stupidi e sapevano che in URSS, «oltre al generale gelo, esistono anche il feldmaresciallo impraticabilità delle strade fangose e il generale esondazione primaverile dei fiumi».
Comunque, la Wehrmacht attaccò e, come indicato da più rapporti d’intelligence, sfondò lungo la direttrice delle proprie forze principali, in Bielorussia, mentre i più forti raggruppamenti del RKKA erano concentrati più a sud, in Ucraina.
Ora, non è forse il caso di accogliere per intero le teorie semi-cospirative di Martirosjan che, senza mezzi termini, accusa Commissario alla difesa e Capo di SM del periodo, Semën Timošenko e Georgij Žukov (ma non è solo lui a puntare il dito contro i due maggiori ufficiali dell’epoca: un altro storico, Oleg Kozinkin, lo fa analizzando le risposte fornite dopo la guerra all’indagine della “Commissione Pokrovskij”) di aver surrettiziamente capovolto il “Piano di respingimento dell’aggressione”, messo a punto dal precedente Capo di stato maggiore, Boris Šapošnikov e aver concentrato il grosso delle forze sovietiche sul Fronte Sud. Questo, nonostante poi Žukov, nelle sue memorie khruščëviane, scriva che sarebbe stato Stalin a imporre di considerare la «direttrice strategica più pericolosa … quella sudoccidentale (Ucraina) e non quella occidentale (Bielorussia)», e taccia sul fatto che fossero stati lui e Timošenko a convincere “il tiranno” che proprio in Ucraina si dovessero concentrare le forze principali del RKKA.
Al pari di Kozinkin, va nella stessa direzione anche lo storico Viktor Popov, citando la “Commissione Pokrovskij”. E non è tenero con Georgij Žukov nemmeno il Maresciallo d’aviazione dell’epoca, Aleksandr Golovanov, che ricorda un episodio non proprio “edificante” che, nei primi mesi di guerra, aveva visto coinvolto il futuro “Maresciallo della Vittoria”.
Ora, pur con ogni più che legittimo dubbio sulle tesi di Martirosjan, è certo che i Piani di difesa sovietici subirono varie modifiche, anche nel corso del 1940 e 1941 e anche tra loro contraddittorie, a seconda dei loro estensori.
Oleg Kozinkin ricorda come anche il “piano di disfatta” di Tukhačevskij, per la sconfitta dell’Esercito Rosso, prevedesse di raggruppare «le nostre forze principali non contro le forze principali nemiche, ma in altre aree! Vale a dire: fornire ai tedeschi l’opportunità di sfondare in grande profondità le nostre difese, là dove non c’erano le nostre forze maggiori. La stessa cosa che, in definitiva, si trasformò in realtà con Timošenko e Žukov».
Altro punto su cui gli storici si “arrovellano” è quello del fattore cronologico, in rapporto a emissione e trasmissione della famosa “Direttiva n.1”, a proposito della quale si dice tra l’altro che solo nella notte tra 21 e 22 Stalin dette l’ordine di mettersi sul piede di guerra, dimenticando però come già in maggio fosse iniziata la mobilitazione e si fosse proceduto agli spostamenti di intere unità.
E, a proposito di presunte “cospirazioni dei generali” (ipotesi oggi avanzata da più di uno storico) c’è da dire che il generale Dmitrij Pavlov, comandante del Fronte Ovest, venne fucilato il 22 luglio 1941 non con l’accusa di tradimento, ma con la formula di negligenza e mancato adempimento dei doveri: la pena era comunque la stessa e Martirosjan ipotizza che Stalin abbia chiesto di mutare l’iniziale capo d’accusa dall’art. 58 CP (complotto o tradimento) nell’art. 193, c.17 (negligenza di servizio di personale di comando del RKKA) proprio per evitare di scatenare, con i tedeschi all’attacco, un’altra ondata di epurazioni come quella del 1937, e comunque Stalin si premurò, a guerra terminata, di ricordare ai generali che «i vincitori possono e debbono essere giudicati», alludendo senza preamboli al 1941.
Lo storico Evgenij Spitsyn ricorda come siano a tutt’oggi per lo più inaccessibili i fondi d’archivio relativi a Pavlov e alle direttive dello SM dal 1 al 22 giugno. Si può esser certi, dice Spitsyn, che se quei fondi avessero riguardato “decisioni criminali del tiranno” Stalin, da almeno trent’anni sarebbero stati pubblicati. Pare evidente che, a esser chiamati in causa (post mortem), potrebbero essere alcuni intoccabili “marescialli della vittoria”.
Fatto sta che, proprio nel “ZapOVO”, il Fronte Ovest, comandato dal generale Pavlov, un ruolo particolarmente tragico fu rivestito dal saliente di Belostok, attorno a cui si verificò una sorta di riedizione, in scala molto più estesa, della manovra di Annibale a Canne, con la differenza che i comandi del RKKA erano consapevoli del problema: da mesi si metteva in guardia sul pericolo di una manovra a tenaglia nemica e si chiedeva il rafforzamento dei fianchi del saliente; nonostante però che la questione fosse stata esaminata e concordata con lo SM, nessuna misura concreta era stata adottata.
Sul versante opposto, si dice che Stalin si apprestasse ad attaccare la Germania e che fosse stato battuto sul tempo da Hitler. La pubblicazione, a inizio anni ’90, di “1941 – Insegnamenti e deduzioni”, con contributi di militari dello SM laureati in materie storiche e l’editing dello storico Oleg Kozinkin, nasce dall’esigenza immediata di rispondere al traditore (transfuga del KGB in Gran Bretagna) Vladimir Rezun che, giocando sulla sottile differenza tra “Piano d’attacco” e “Piano di difesa strategica attiva”, sosteneva che Stalin avrebbe programmato l’attacco sovietico alla Germania.
Come stanno le cose?
Makhmut Gareev, generale d’armata, storico, scrive in “Pravda i lož’ o načale vojny” (Verità e menzogna sull’inizio della guerra) che alcuni autori cercano di avvalorare la versione sulla preparazione di un’attacco preventivo da parte sovietica con il fatto che «le truppe dei distretti di confine occidentali non erano schierate in raggruppamenti difensivi e che le linee difensive in profondità non erano preparate ed equipaggiate in termini ingegneristici. La domanda pertinente, ovviamente, è: perché non lo erano? Questo non era per nulla dovuto al fatto che non si intendeva difendersi all’inizio della guerra, bensì era una conseguenza di idee invecchiate sul periodo iniziale della guerra e sul carattere delle operazioni difensive. Si guardava alla difesa come a un’azione militare temporanea, condotta solo da una parte delle truppe per coprire la mobilitazione e il dispiegamento delle forze principali. Nessuno supponeva che, per respingere le forze nemiche già preparate per l’attacco, fossero necessarie una difesa scaglionata in profondità su scala strategica e lunghe, intense battaglie difensive, con l’impiego di tutte le forze e i mezzi disponibili. Sfortunatamente, di questo non si tenne conto nemmeno nel 1942. Solo nell’estate del 1943, a Kursk, fu organizzata un’autentica difesa strategica. L’infatuazione per l’offensiva e la sottovalutazione della difesa giocarono un ruolo fatale negli eventi del 1941».
La verità è che furono le battaglie di confine, scrive il generale-colonnello Viktor Čečevatov in “Sulla soglia della guerra”, furono «i contrattacchi contro i cunei tank e meccanizzati nemici che irrompevano in profondità nelle difese dell’Esercito Rosso, furono queste le circostanze che privarono le forze nemiche del loro ritmo di avanzata, che era stato consueto nelle campagne tedesche nei paesi dell’Europa occidentale, e questo annullò tutti i vantaggi del “piano di guerra lampo”». Solo le truppe di frontiera, che dipendevano dal Ministero degli interni, riuscirono a infliggere ai tedeschi perdite di 7-10 a 1 e, nella sola giornata del 22 giugno, distrussero un’intera Divisione tank tedesca: se solo le truppe regolari fossero arrivate in tempo in appoggio a quelle di frontiera…
Ecco cosa ha scritto – ricorda ancora Čečevatov – su questo tema G.K. Žukov: «La nostra letteratura storica si occupa in qualche modo solo in termini generali di questa più grande battaglia di confine … Dopotutto, proprio come risultato di queste azioni … fu sventato il piano del nemico di un rapido sfondamento su Kiev. Il nemico subì pesanti perdite (secondo fonti tedesche, fino al 60%. – V. Č.) e si convinse della tenacia dei soldati sovietici pronti a combattere fino all’ultima goccia di sangue…».
Prima di chiudere, un altro mito, anch’esso messo in circolazione in epoca khruščëviana, secondo cui, alla notizia dell‘attacco tedesco, Stalin si sarebbe tanto spaventato, da “nascondersi in un armadio, fuggire nella sua dača, o da qualche altra parte”. Un mito ripreso a piene mani in Occidente e oggi anche in vari manuali scolastici in Russia.
In realtà è semplice seguire i movimenti di Stalin nei primi tre giorni di guerra. All’epoca, si teneva un registro delle visite di Stalin al suo ufficio al Cremlino, in cui erano protocollati tutti i suoi incontri della giornata. Così, il 22, 23, 24 giugno, Stalin continuò a lavorare al Cremlino, ricevendo militari e politici. Nessuna delle persone indicate sul registro, ha mai detto che Stalin fosse stato spaventato, si fosse nascosto e non si fosse fatto vedere. La storiella era stata lanciata da Nikita Khruščëv: proprio uno che non poteva aver visto Stalin in stato confusionale (o in qualunque altro stato) dal momento che non era mai stato convocato al Cremlino nei primi giorni di guerra.
L’attività di Stalin in quel periodo è confermata anche da fonti memorialistiche.
In definitiva, come sottolinea lo storico Jurij Nikiforov, nonostante gli errori di previsione nei Piani di difesa e la ritardata mobilitazione, l’Esercito Rosso, i soldati sovietici, compirono imprese eroiche nell’estate del ’41. Si potrebbe dire, aggiungiamo, anche nonostante aperti sabotaggi: come ricorda Oleg Kozinkin, a giudicare dalle risposte date alle domande della citata “Commissione Pokrovskij”, per vari ufficiali superiori si può parlare di panico, insubordinazione e persino tradimento. Lo stesso ex Capo di SM Kirill Meretskov, nel gennaio 1940 pare avesse detto a Pavlov di considerare inevitabile la vittoria tedesca in caso di guerra.
Inoltre, non si deve dimenticare che, nel 1939, il RKKA era ancora organizzato come milizia su base territoriale: 3 mesi di ferma e poi un mese all’anno; non era quindi pronto a sostenere una guerra (gli scontri coi giapponesi sul lago Hasan in Mongolia nel 1938 e la “guerra d’inverno” con la Finlandia lo avevano dimostrato), mentre in Germania c’era il servizio militare obbligatorio dal 1936; da qui, il tentativo di Stalin di rinviare di almeno 1-2 anni la guerra.
E nonostante ciò, i soldati sovietici che nel 1941 avevano dimostrato come si potesse far fallire il blitzkrieg, nel 1945 entravano da trionfatori a Berlino, prima e in gran parte nonostante le “democrazie più forti del mondo”.
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Dopo la sconfitta di Napoleone, Karl von Clausewitz formulò una tesi molto chiara, scrive il politologo Igor Šiškin, perfettamente assimilata in Occidente e cioè che la Russia possa essere sconfitta solo dall’interno; la campagna di Napoleone contro la Russia, aveva scritto Clausewitz, «è fallita perché il governo è rimasto fermo e il popolo leale». E questa non è una teoria vuota. Il generale Hermann Hoth, che al comando del 3° Panzergruppe faceva parte del Gruppo Armate “Centro”, scrisse nelle memorie che «quando abbiamo iniziato la campagna, la nostra principale speranza non era nei carri armati, ma che Stalin sarebbe stato preso dal panico, avrebbe perso ogni risolutezza e sarebbe sceso a qualsiasi compromesso, pur di salvare il proprio potere. Che le repubbliche nazionali si sarebbero sollevate contro il centro imperiale e il popolo russo non avrebbe difeso uno stato che non considera suo».
Non a caso, i comunisti sovietici, parlarono sin da subito non di guerra dell’esercito, ma di guerra del popolo sovietico contro l’invasore fascista. Viktor Čečevatov ricorda che il VKP(b), durante la guerra, fu un vero e proprio “partito combattente”: al 1941 il partito contava circa 2,5 milioni di membri e nei quattro anni di guerra vi aderirono come membri candidati 4 milioni di soldati del RKKA e 2,6 milioni come membri effettivi. Tre milioni di comunisti morirono.
Come ha scritto il ricercatore Georgij Zotov, un elemento «Hitler non lo aveva preso in considerazione nel piano Barbarossa. Aveva considerato tutto: la sconfitta dell’URSS in 17 settimane e la cattura di Mosca e Leningrado. Non aveva pensato a una cosa: che milioni degli uomini più semplici, il cui figlio, padre, madre, fratello, sorella, fossero stati uccisi», si sarebbero arruolati volontari, «sarebbero andati al fronte e avrebbero torto il collo con le mani a un soldato in uniforme grigioverde».
Fonti
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Viktor Čečevatov, Porog vojny – https://www.sovross.ru/old/2005/56/56_4_4.htm
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https://www.youtube.com/watch?v=3ukXJw18tH0&t=92s
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