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“A 14 anni sabotavo gli aerei alla Caproni”. Guerra e classe

Infatti, sotto il profilo economico-sociale, non solo le aziende italiane hanno già iniziato a operare riduzioni di personale giustificandosi con lo scoppio del conflitto, ma, l’aumento generalizzato dei prezzi sta riducendo significativamente il potere d’acquisto. 

Dall’altro lato, in termini di libertà d’espressione, stiamo assistendo a scelte di campo manichee: chiunque osi discostarsi dalla linea interventista  subisce denigrazioni e pubblica gogna.

Si torna, sistematicamente, a un uso politico della paura, con la sua logica repressiva e con la messa in opera di strumenti che vanno dalle leggi liberticide alla più totale manipolazione dell’opinione pubblica[1].

Per questo motivo, numerosi sono gli esempi di operai che storicamente non si sono fatti addomesticare dalla narrazione bellicista. Costoro ci mostrano il livello di una coscienza operaia con spirito internazionalista, alimentato da un desiderio di giustizia e pace. Tali soluzioni, nonostante siano ridotte a eroici e sparuti episodi, ricordano le azioni e le pratiche che le organizzazioni di classe riuscivano a mettere in campo nel secolo scorso.

Durante la seconda guerra mondiale, un primo esempio lo offre l’operazione di sabotaggio messa in campo dagli operai nelle fabbriche di produzione di armi e veicoli militari, come la Aeroplani Caproni a Milano,  con le conseguenti deportazioni degli operai più combattivi[2].

Per non parlare dei cosiddetti “camalli” (i lavoratori del porto di Genova) che storicamente spiccano per spirito internazionalista e orgoglio di classe: nel ‘73 i portuali genovesi decisero di sostenere attivamente il popolo vietnamita aggredito dagli Stati Uniti e nel novembre dello stesso anno la nave Australe salpava dalla Liguria colma di viveri e materiale sanitario di primo soccorso, tra cui il sangue donato dai civili e attraccò ad Haiphong, città minata e sotto i bombardamenti dell’aviazione militare statunitense[3].

Nel maggio 2020 i camalli riuniti sotto il CALP (Collettivo autonomo lavoratori portuali) decisero di bloccare il traffico di armi: con uno sciopero impedirono le operazioni portuali di una nave della compagnia  saudita “Bahri”, che trasportava a bordo una commessa di bombe destinate a essere impiegate nella guerra dimenticata dello Yemen.

Mentre anche il Pontefice plaudiva questo atto di sabotaggio antimilitarista, non è tardata ad arrivare la risposta repressiva dello Stato, la quale ha portato a pesantissime imputazioni di associazioni a delinquere.

Questo genere di Repressione  è figlia di un modello politico di società autoritario, in cui i diritti di proprietà e quelli di impresa prevalgono brutalmente sui diritti costituzionali all’abitare, al lavoro, alla salute, alla dignità. Questo modello colpisce chi ritiene che tali priorità vadano rovesciate e vi oppone resistenza.

Repressione che dimostra ancora una volta quali siano i reali interessi del governo e di tutto l’arco parlamentare in totale spregio dell’art. 11 della Costituzione e della legge 185/1990, che, di fatto, vieta il transito, e in tal senso il commercio, a quei paesi che usano come risoluzione finale l’atto della guerra, aggirando norme e vincoli giuridici per mezzo della logistica e dei porti civili. In questo luogo spesso si assiste allo smembramento delle armi, ossia il trasporto verso il luogo di destinazione di singole componenti in momenti e carichi diversi.

Detto ciò, alla faccia della repressione, poiché un sasso gettato nell’acqua immobile di uno stagno provoca una serie di piccole onde che si allargano, altri porti nazionali ed europei si sono uniti, al fine di creare una rete finalizzata ad impedire l’attracco e il carico delle navi che trasportano armi nei porti civili.

In Italia la mobilitazione dei portuali di Livorno[4] e Napoli, sull’onda di quelle di Genova, hanno successivamente creato problemi alla rotta della nave portacontainer “Asiatic Island”, la quale,  con grandi probabilità, trasportava armi ed esplosivi destinati all’esercito israeliano.

Nei Paesi Baschi, i portuali di Bilbao hanno evidenziato lo stretto rapporto tra produzione di armi, armatori privati e logistica, aprendo in tal modo contraddizioni sui flussi e sul denaro messo a profitto dall’industria della morte, con la complicità dei governi, costituendo il movimento no-war  “La guerra empieza aquì”.

La guerra però non transita solo dai nostri porti. La massiccia produzione di armi nel nostro paese e la stretta connessione che ha con le università e i centri di ricerca pubblici rendono la guerra capillare financo nel sistema scolastico.

E così numerosi sono gli esempi di studenti, docenti e lavoratori delle università contro gli accordi tra i vari istituti scolastici e le aziende militari tra cui ad esempio il Technion israeliano.

Ma la guerra ci ha anche occupato casa (e nessuno la denuncia per invasione d’edificio!). Da decenni i movimenti antimilitaristi denunciano l’occupazione militare diretta del territorio italiano, soprattutto nelle isole, attraverso la servitù militare (sul territorio nazionale si contano 120 basi NATO – oltre ad almeno 20 segrete –  in cui sono addirittura depositate 90 testate nucleari) e delle delocalizzazioni di fabbriche di proprietà di imprenditori appartenenti a paesi dove è stata abolita la produzione armi o di alcune.

È il caso della Sardegna, dove al consumo e all’occupazione di suolo per scopi militari si aggiunge l’esistenza dell’insediamento produttivo RWM. Lo stabilimento sito a Iglesias produce armamenti per conto della Rheinmetall di origine tedesca, e che pertanto, dal secondo dopoguerra, non può più produrre alcuni tipi di armi.

Giochi di guerra, uso di proiettili all’uranio impoverito, inquinamento da mezzi militari, recinzioni ed effetti devastanti sull’economia locale sono temi più volte messi al centro dalle proteste del movimento A Foras.

Hic et nunc. Lo scoppio del conflitto in Ucraina sta creando un inquietante pensiero unico bellicista e belligerante, il quale mette le bandiere della “pace” fuori dai consigli comunali.

Non tutti si sono fatti arruolare dal fronte interventista: un primo e attesissimo segnale di rifiuto della logica della guerra capitalista è arrivato dall’aeroporto di Pisa, dove i lavoratori dell’aeroporto civile di Pisa, il Galileo Galilei, si sono rifiutati di eseguire un carico spacciato per aiuti umanitari, perché contenente armi e munizioni supportati dall’Unione Sindacale di Base[5].

A Taranto, invece, la nave militare “Carabiniere”, diretta all’arsenale vecchio, è stata accolta con grida e striscioni con scritto «Le guerre degli imperi le pagano sempre i popoli. No Nato, no Putin», «Taranto non è una città di guerra. Lavoro! No spese militari»[6]

Queste prese di posizioni ci ricordano che è in corso una guerra su più piani, una guerra che dobbiamo disertare e sabotare a tutti i livelli, come quella del debito. Le sanzioni comminate senza valutare le connessioni globali,  le relative conseguenze economiche e gli squilibri finanziari tra i paesi che le impongono avranno delle ripercussioni su chi la ricchezza la produce e sugli esclusi dal mercato del lavoro[7].

Questo è ciò che sapientemente ci hanno ricordato le operaie e gli operai della GKN il 26 marzo, al termine di un corteo che ha visto convergere tutti i temi e le contraddizioni che questo sistema economico porta con sé.

Queste dinamiche globali determinano effetti spesso irreversibili dentro le vite delle persone. Quanto vale la vita di una persona di fronte al profitto ci viene mostrato quotidianamente, attraverso racconti, immagini, lotte e repressione.

Ricordiamo un episodio significativo a riguardo. A seguito dello scoppio della Guerra del Golfo nel 1990, ci furono dei lavoratori trattenuti in Iraq e in Kuwait, che per lungo tempo vennero del tutto dimenticati e soltanto una campagna delle Rappresentanze Sindacali di Base portò alla luce questa situazione, per poi, fortunatamente, risolverla[8].

Cosa determinerà questa guerra dentro un contesto sindemico? La domanda vede solo l’azione collettiva come risposta reale. Mentre la narrazione a senso unico si sta occupando di giustificare alla logica affaristica della guerra, senza alcuno sforzo diplomatico, una minoranza di lavoratori e lavoratici e di soggettività sociali prova a riabilitare un discorso che vada oltre lo schierarsi obbligato, risultato del pensiero binario imposto.

No alle navi della morte e al traffico di armi. È l’ora della variante operaia” dicono i portuali di Genova nelle 24 ore di sciopero con blocco delle merci indetto dall’Unione Sindacale di Base il 31 marzo, a cui hanno partecipato anche altre realtà sindacali (Si Cobas Genova), in vista dell’arrivo della nave saudita della compagnia “Bahri”.

Estendere la diserzione è un dovere che la storia di classe ci insegna: occorre avere il coraggio di praticarla è stare dalla parte dei circa 15mila condannati tra il 1915 e il 1918. Le guerre arricchiscono pochi, uccidono e affamano tutt*.

Sabotare la guerra equivale ad affermare una coscienza rivoluzionaria che abbia al centro della propria mobilitazione un punto ineludibile: i soli nemici da combattere sono gli stessi in tutto il mondo e i confini nazionali sono il loro rifugio.

Note:

[1] Vladimiro Giacchè, Perché la guerra fa male ai lavoratori, Proteo n. 2, 2002.

[2] https://www.corriere.it/cronache/speciali/2009/memorie01/notizie/testimonianze-angelo-piazza_f770ede4-c6d2-11de-b8db-00144f02aabc.shtml. Vedi anche: Claudio Dellavalle, Gli operai contro la guerra, in Valerio Castronovo (a cura di), Storia illustrata di Torino, vol. VII, Sellino, Milano 1993, p. 198; Giovanni Pesce, Senza Tregua, Feltrinelli, 1967.

[3] Per approfondimenti: https://frontierenews.it/2021/09/la-guerra-dei-portuali-genovesi-contro-le-armi-saudite/

[4] https://ilmanifesto.it/a-livorno-i-portuali-evitano-carico-di-armi-per-ashdod/

[5] https://www.pisatoday.it/cronaca/partenza-armi-aeroporto-pisa-guerra-ucraina.html; https://www.radiocittafujiko.it/i-lavoratori-dellaeroporto-di-pisa-si-rifiutano-di-caricare-armi/

[6] https://ilmanifesto.it/taranto-protesta-antimilitarista-esplodono-le-polemiche/

[7] https://comune-info.net/la-guerra-del-debito/

[8] Il Manifesto, 22 Settembre 1990; L’Unità, 23 Settembre 1990.

* da OsservatorioRepressione

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