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Intervista a Militant A per il nuovo libro “Cambiare il mondo con il rap”

Mettiamo i banchi di lato e facciamo un cerchio

È disponibile online da oggi, e nelle librerie dal 4 agosto, “Cambiare il mondo con il rap – Il mio laboratorio” di Militant A – Momo Edizioni.

Sulle pagine di questo suo quinto libro Luca Mascini, frontman di Assalti Frontali, porta le voci, i silenzi, la rabbia e le aspirazioni di tanti giovani che hanno avuto l’occasione (“la vita è fatta anche di occasioni, di incontri che possono cambiare tutto, ma bisogna saperle vedere queste occasioni, riconoscerle… o ti passano davanti e ciao“) di frequentare i suoi laboratori rap di scrittura creativa nelle scuole.

Militant A ci porta dentro alle aule delle scuole elementari, medie e superiori, nelle scuole delle periferie, nei cerchi dei ragazzi “che arrivano individui e diventano gruppo“. Il linguaggio rap si fa strumento per avvicinarsi ai giovani senza censure e terreno comune per permettere loro di esprimersi e per crescere nella relazione con gli altri e con la realtà.

Questo il grande risultato dei laboratori rap di Militant A: permettere ai giovani di osservarsi, di osservare la realtà, di esprimere la propria critica, la propria rabbia, i desideri e quindi di acquisire gli strumenti per cambiare questo mondo.

Abbiamo chiesto a Militant A di commentare alcuni brani tratti dal libro.

Domanda. Partiamo dalla definizione che ti dai, Luca, relativamente al ruolo che assumi in questi laboratori, quello di arteducatore, a cui dedichi anche un brano nell’ultimo album Courage.

Educatore suona austero. Educare a cosa? A quali regole? Arteducatore è più bello, è musicale, allude alla radice della parola educare: ex-ducere, tirare fuori. Dunque io tiro fuori cosa? Il fuoco che i ragazzi hanno dentro. […] Questo produrrà un effetto su di loro che cercheranno di ritrovare ancora perché l’arte emancipa dal vuoto, ci fa esprimere e volare”.

Risposta. La parola “Arteducatore” me l’ha passata il gruppo Axè che lavora con i bambini di strada in Brasile, durante un corso di formazione sulla pedagogia del desiderio. Io mi sono identificato subito in questa parola e in questa idea, ce l’avevo già nel cuore, è come se qualcuno mi avesse detto tu stai facendo questa cosa con la tua pratica, col tuo lavoro nelle scuole, come noi lo stiamo facendo coi ragazzi in Brasile, mi ha dato la definizione. Arteducatore tutto attaccato.

L’idea è quella che l’arte è una chiave di accesso alla cittadinanza e di uscita dalla marginalità, ma per farlo in modo autentico, rivoluzionario e liberatorio, per farlo cioè in modo che resti impresso nel cuore dando una direzione positiva alla vita, non deve essere qualcosa che va dall’alto in basso, dalla cattedra al banco, in quella maniera un po’ formale e nozionistica che riproduce anche senza volerlo il linguaggio del potere.

Deve invece mettere in discussione tutto, lo spazio dove ci troviamo, i ruoli, le idee, perché il nostro compito è quello di accendere il fuoco che i ragazzi hanno dentro per renderli attivi, vivi, imprevedibili, per vederli esplodere nella loro bellezza.

Questo è un percorso a cui si arriva con l’ascolto, le domande, il mettersi in gioco noi per primi, sentirsi insieme in una missione, per diventare tutti artisti per un giorno, artisti per sempre, come dico nel libro.

Che poi la parte, diciamo così, teorica, è molto nello sfondo, ci sono pagine di riflessione, ma la gran parte del libro è impostata sui dialoghi coi ragazzi, che sono fantastici.

D. C’è una frase che rivolgi alla Prima F, quella mattina un po’ chiassosa, che sembra da sola custodire tutto il senso di queste esperienze: siamo insieme e non lasciamo indietro nessuno.

Ascoltate… da persone singole diventiamo un gruppo, un laboratorio, il laboratorio rap, ok? Smettiamola di parlare tutti insieme e voi due che fate voltati? Giratevi da questa parte… non voglio vedere nessuno isolato… ripassiamo quello che abbiamo fatto… c’è qualcuno che era assente l’altra volta?”.

R. Questo è quello che cerco di trasmettere nei laboratori, pensarci come un gruppo, come una comunità e aiutarci perché non siamo tutti uguali nel percorso. C’è chi ha bisogno del tuo aiuto in un momento e poi potrà ricambiare quando meno te l’aspetti e ti farà capire che essere solidali, generosi, è bello, fa stare bene, fa sentire felici.

E tutto questo mentre si sta creando un’opera, si sta scrivendo una canzone rap in venti, in una classe, con gente che non avrebbe mai pensato di fare rap, né tantomeno di riuscirci, con ragazzi considerati impossibili, o col mutismo selettivo, ragionando in modo collettivo su quello che vogliamo dire agli altri, su quello che ci rappresenta, e poi cantarlo in un concerto davanti a tutta la scuola.

È un percorso che ha tanti aspetti umani, psicologici, di crescita, che ti fa capire tante cose e alla fine ti fa sentire cambiato.

D. Ti sei confrontato anche con le difficoltà e la rabbia dei giovani delle periferie e attraverso la storia del rap hai dato loro una chiave per esprimere quella rabbia e per uscire dall’isolamento.

Che poi una didattica diversa su cosa si basa? Sicuramente sull’inclusione, sul dialogo, sul rapporto umano… sullo scambio circolare, sui linguaggi dell’arte… ma quello che davvero funziona nell’apprendimento, quello che si riesce a far passare e che resta nella mente e nel cuore… si basa sulla relazione. La relazione. Questa la chiave”.

R. Io sono cresciuto con una didattica cosiddetta “diversa”, sia con le scuole che ho fatto, la Montessori, che evoco ogni tanto nel libro come reminiscenze del mio passato, sia per il percorso dell’autogestione nei centri sociali di cui parlo ai ragazzi dei licei e di cui loro non sanno praticamente nulla.

La didattica “diversa” fa parte di me, ma quello che mi rafforza nel cercare di usarla nelle scuole è il fatto che i ragazzi vedono la scuola come una prigione da cui fuggire, si sentono prigionieri, vengono la mattina in classe con l’ansia, con la paura, hanno quasi tutti questi stati d’animo che portano a isolarsi, a non fidarsi di nessuno, a vedere la scuola come un nemico.

E questo è un dolore perché la scuola pubblica dovrebbe invece essere la loro casa, un luogo di crescita, di calore, di fiducia. La scuola pubblica è una conquista di duecento anni di lotte proprio per dare a tutti la possibilità di avere gli strumenti per capire il mondo e sognare di cambiarlo.

Per questo racconto sempre nei laboratori la storia di Simonetta Salacone, la dirigente dell’ Iqbal Masih del Casilino che aveva fatto una scuola dove i ragazzi erano felici e per prima, circa dieci anni fa, mi ha detto… “tu che fai rap nelle strade perché non vieni a farlo dentro scuola coi ragazzi?”. E da lì ho aperto una nuova strada che mi ha portato ora a scrivere questo libro.

D. Sull’ultima citazione non ti chiedo un commento, perché ci lasci una pennellata che parla da sola. Grazie Luca, Militant A!

Suona la campanella.

«Noi andiamo prof».

Tutti si preparano. Scappano. 

«Ci vediamo domani allora…».

«Domani che c’è?».

«Ahahah ciao ragazzi…».

«Ciao prof andiamo…».

Mockingbird sta finendo.

In un momento è tutto vuoto.

Neanche il tempo di sistemare i banchi, rifarmi lo zaino e non c’è più una voce.

Anche il corridoio, svuotato in un lampo.

Scendo le scale e i miei passi rimbombano.

Prima era una confusione infernale… ora solo qualche voce in lontananza.

Sembra un posto fantasma.

La scuola non è niente senza le vite dei ragazzi.

A domani, laboratorio.

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Per ordinare il libro:

www.assaltifrontali.it

Il nuovo video “Strade perse (La Habana Session)”

https://www.youtube.com/watch?v=jEqp3Z_rIaI

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