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Israele: il razzismo trasversale dilaga e fa proseliti. Il caso Yehoshua

 

In Israele dilaga un razzismo aggressivo, violento, che nulla ha da invidiare ai pogrom che colpivano gli shtetl ebraici nei paesi dell’est Europa nei secoli scorsi. Un razzismo che prende di mira quelli che vengono identificati come ‘infiltrati’, un termine più che esplicito che identifica il diverso con un doppio stigma: quello dello straniero e del pericolo, e del virus da annientare.
Un razzismo che aggiorna una doppia discriminazione storica alla base della società israeliana – una privazione assoluta dei diritti nei confronti della popolazione palestinese e una privazione di diritti relativa nei confronti di quei settori di popolazione ebraica proveniente da parsi del terzo mondo – in una nuova teoria organica, una ideologia trasversale che identifica ogni diverso come un corpo estraneo da combattere, da espellere.
Finora avevamo letto le farneticanti dichiarazioni dei leader ortodossi e dell’estrema destra sionista che aizzano le folle urlanti contro gli immigrati stipati nei tuguri delle periferie di Tel Aviv. Toni che riproducono esattamente il nucleo duro di un razzismo universale uguale dal Giappone agli Stati Uniti, dal Sudafrica all’Arabia Saudita, dall’Italia al Cile. Quello di Alba Dorata ad Atene o delle ronde Padane: “gli immigrati ci rubano il lavoro, gli immigrati sono sporchi, gli immigrati compiono crimini, gli immigrati minacciano la nostra identità…”.
Ma poi oggi su La Stampa abbiamo trovato un lungo e articolato intervento dello scrittore israeliano Yehoshua che ci ha chiarito assai meglio la situazione di un paese, Israele, giunto ormai ad un livello evidentemente irrecuperabile di putrefazione culturale e civile. Basta leggere quello che scrive – lo riportiamo per intero – un intellettuale noto a acclamato in tutto il mondo, icona (immeritata, ovviamente) del pacifismo equidistante tra israeliani e palestinesi, per accorgersi di quanto le posizioni razziste, coscientemente segregazioniste delle elite di Israele siano comuni, trasversali agli schieramenti politici e culturali di quel paese. Per definire gli immigrati africani Yehoshua usa l’epiteto di ‘infiltrati’, non più persone ma “problema” in quanto tale. E poi giustifica apertamente, senza vergogna e senza giri di parole, quelle che definisce ‘proteste dei residenti’. “Proteste” che nelle ultime settimane hanno preso la forma di assalti alle case, ai negozi e alle automobili degli ‘infiltrati’ – i virus, è ovvio, non hanno nome, la loro umanità scompare – date alle fiamme, mentre gli occupanti vengono malmenati, aggrediti con una violenza inaudita. Una violenza che se viene esercitata dagli squadristi delle organizzazioni fasciste o naziste nelle nostre metropoli è da condannare, da esecrare. Ma che in Israele è da giustificare, visto che minaccia l’identità ebraica dello Stato ‘ebraico’ come ripetono ormai leader politici e religiosi alla testa dei pogrom. E quindi i razzisti non sono tali, afferma l’intellettuale ‘progressista’, sono solo residenti ai quali il governo non dà risposte. Il problema non è che gli infiltrati sono neri e africani, se fossero albanesi o romeni – afferma Yehoshua – subirebbero lo stesso trattamento.
Qual è la soluzione? L’indignato scrittore la mette nero su bianco: un muro per impedire agli infiltrati di oltrepassare la sacra frontiera di Israele da Gaza – un ghetto alla rovescia – e poi i rimpatri – cioè le deportazioni degli immigrati in quei paesi dai quali scappano per mille ragioni. Contro lo ‘tsunami’ di infiltrati africani – suggerisce ancora Yehoshua – sarebbe opportuno rispolverare i meno problematici manovali palestinesi, visto che parlano addirittura l’ebraico. A condizione però che a lavoro finito se ne tornino nel loro ghetto nella Striscia di Gaza. Ecco, forse da questa ultima concessione ai lavoratori schiavi palestinesi si riconosce il progressismo di un personaggio come Yehoshua: mentre i falchi della destra sionista sono da sempre partitari dell’espulsione dalle loro terre dei palestinesi o quantomeno di un ergastolo collettivo e perenne, i ‘progressisti’ alla Yehoshua si accontentano della ‘semilibertà’…

Nell’intervento che pubblichiamo integralmente qui sotto abbiamo evidenziato i passaggi più “significativi”, un mix agghiacciante di banalità e stereotipi sull’immigrazione. Un Bossi o un Le Pen non avrebbero potuto scrivere di meglio.
E’ ora che si comincino a chiamare le cose, in Israele, col loro nome: il fascismo è fascismo, e il razzismo è razzismo, anche se i protagonisti sono ebrei. A maggior ragione se il razzismo e la xenofobia diventano religione e politica di stato.

 

Israele troppi africani clandestini

Abraham Yehoshua – La Stampa 5 giugno 2012

Il problema degli infiltrati africani in Israele sta diventando sempre più serio e pone nuove domande, sia sul piano pratico che su quello umano, quali lo Stato ebraico non ha mai dovuto affrontare prima.
Poiché i confini con la Siria e il Libano, due nazioni ancora ostili a Israele, sono ermeticamente chiusi, nessun rifugiato o immigrato avrebbe la possibilità di superarli. Anche la frontiera fra Israele e la Giordania è sotto la stretta supervisione delle due parti a causa di problemi di sicurezza con i palestinesi.
Ma lungo il confine tra Israele ed Egitto, tra il grande deserto del Sinai (che secondo il trattato di pace tra Egitto e Israele deve rimanere smilitarizzato) e quello israeliano del Negev in anni recenti è iniziata l’infiltrazione di migliaia di africani provenienti dal Sudan e dal Sudan meridionale, dall’Etiopia, dall’Eritrea e, più di recente, da Paesi anche più lontani. Uomini e donne che, dopo aver percorso a piedi migliaia di chilometri condotti da guide e da contrabbandieri profumatamente pagati, arrivano in Israele non alla ricerca di asilo politico ma soprattutto di un lavoro.
Israele, che dopo la Shoah ha accolto centinaia di migliaia di profughi ebrei provenienti anche da paesi arabi e ha dovuto fare i conti con la richiesta di lavoro dei residenti dei territori palestinesi, si trova a fronteggiare un nuovo problema, simile a quello di molti Paesi europei.
Una minoranza di questi infiltrati sono profughi in fuga dall’orrore della guerra. La più parte, però, sono persone in cerca di lavoro che, come in molte grandi città d’Europa, si stabiliscono in aree urbane economicamente e socialmente deboli dove vivono in condizioni di grande povertà, entrando in competizione sul mercato locale come manodopera a basso costo e priva di diritti sociali. Dal momento che Israele è un paese gradevole dal punto di vista climatico, di certo per gli africani, costoro non hanno difficoltà a dormire nei giardini pubblici, a stendere lenzuola su marciapiedi o in androni di case povere o ad accalcarsi, intere famiglie, in minuscoli appartamenti, indebolendo così ulteriormente la già fragile infrastruttura delle periferie delle città israeliane, in particolar modo quella di Tel Aviv.
I residenti locali sono furiosi con il governo che non impedisce questa invasione illegale, della quale sono soprattutto loro a pagare il prezzo. E quando a questa situazione si vanno ad aggiungere qua e là occasionali atti criminosi da parte degli infiltrati, la protesta della popolazione locale si fa violenta.
I membri delle organizzazioni per i diritti civili e di vari gruppi di sinistra tendono a definire razziste e xenofobe le proteste dei residenti locali. Poiché la storia ebraica, specialmente durante la seconda guerra mondiale, è zeppa di storie di sofferenze di rifugiati, si ha la tendenza ad associarla al problema degli emigrati africani e ad interpretare le proteste dei residenti come odio verso la gente di colore. Non credo che questo sia vero. Anche se questi infiltrati fossero di pelle bianca, albanesi o provenienti dalle regioni del Caucaso, le proteste dei cittadini locali sarebbero dello stesso tenore. E la richiesta alle autorità, nazionali e municipali, di trovare una soluzione che non danneggi ulteriormente le fasce più deboli della popolazione è dunque giusta e non razzista.
Ci sono inoltre persone e aziende che per realizzare profitti si avvalgono di questa manodopera a basso costo e affittano appartamenti fatiscenti a prezzi oltraggiosi. In questo modo non solo i salari dei lavoratori israeliani, compresi quelli degli arabi israeliani, tendono a diminuire ma gli affitti degli appartamenti nelle zone periferiche aumentano in maniera inverosimile.
Qual è la soluzione? Innanzi tutto bloccare la frontiera col deserto, cosa che sta già rapidamente avvenendo. Se ciò non accadesse Israele potrebbe essere travolta da un vero e proprio tsunami africano. Un secondo passo sarebbe attuare una chiara distinzione tra rifugiati che arrivano in Israele per salvarsi e gente in cerca di lavoro. In base ad accurati controlli il numero dei rifugiati con diritto di asilo politico fra i circa 70 mila clandestini africani attualmente presenti in Israele è molto ridotto. I veri rifugiati dovrebbero essere trattati secondo le norme della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite, dovrebbero essere garantiti loro il permesso di soggiorno, un’assicurazione sanitaria, un lavoro e alloggi adeguati, senza che tutto questo vada a scapito dei residenti locali. Il resto degli infiltrati dovrebbe essere rimpatriato in accordo con le autorità dei loro paesi d’origine.
Rimane la domanda riguardo a chi prenderà il posto degli immigrati nel mercato del lavoro che necessita anche di manodopera a basso costo e non qualificata. A questo punto entrano in gioco i palestinesi, il vero motivo per cui ho scritto questo articolo.
Nella Striscia di Gaza vivono migliaia di palestinesi bisognosi di una fonte di reddito e ansiosi di trovare un lavoro. L’apertura dei confini di Gaza a qualche gruppo di migliaia di lavoratori palestinesi che abbiano superato attenti controlli di sicurezza potrebbe portare benefici sia all’economia palestinese che al mercato del lavoro israeliano e promuovere una normalizzazione della situazione politica fra la Striscia di Gaza e Israele.
I lavoratori palestinesi conoscono Israele e parlano l’ebraico. A causa della breve distanza tra Gaza e il sud del Paese (compresa Tel Aviv) questi lavoratori, la sera, potrebbero tornare alle loro case e alle loro famiglie ed evitare così la pericolosa e alienante situazione di migliaia di africani senzatetto che vagano di notte per le strade delle città. I palestinesi possiedono una chiara identità e sarà loro garantito un salario equo, non da fame. E come parte del salario avranno diritto alla previdenza sociale, come in passato. L’obbligo morale di Israele è di dare lavoro a questi palestinesi nel proprio territorio, in passato parte della Palestina, e contribuire così a migliorare indirettamente la situazione economica della Striscia di Gaza.
Un simile stato di cose è andato avanti per molti anni dopo la guerra del ’67 dimostrandosi vantaggioso per entrambi i popoli costretti a vivere fianco a fianco con la speranza di promuovere una pacifica convivenza.

 

 

Israele, cresce l’insofferenza nei confronti dei clandestini

Aldo Baquis, Gerusalemme – La Stampa 5 giugno 2012

Un rumore sordo, di un vetro infranto. Poi il propagarsi di un fumo denso. Quindi la vista delle fiamme, che bloccavano la porta di ingresso. Il tentativo disperato di lanciarsi dalle finestre, che in parte però erano chiuse da sbarre. Questo il convulso risveglio notturno di una decina di clandestini eritrei, trovatisi prigionieri in una palazzina in fiamme, in quella che la polizia di Gerusalemme ha definito «una trappola di fuoco». Si sono salvati per il rotto della cuffia. Tre sono rimasti intossicati, un quarto ha riportato ustioni. Gli altri hanno poi potuto leggere su un muro vicino una scritta perentoria: «Fuori dal rione». Il quartiere in questione è Makor Baruch, nel centro della città, a pochi passi dal congestionato mercato ortofrutticolo di Mahané Yehuda. La via Yossef Ben Mattityahu (altrimenti noto come Giuseppe Flavio) all’angolo con la via Valero è fatta da stradine anguste, in un rione dove tutti si conoscono da una vita e mantengono il medesimo stile di vita: quello degli ebrei sefarditi e tradizionalisti.

Due mesi fa, con l’ingresso dei clandestini africani, l’atmosfera è decisamente cambiata. I nuovi arrivati dicono nel quartiere – hanno aperto un locale nella palazzina, si sono dati a schiamazzi notturni accompagnati da musica a tutto volume e da risse. Il riposo sabbatico – lamentano nel rione – «è andato a farsi benedire». La condanna dell’incendio doloso è giunta ieri, immediata e decisa, sia dagli abitanti del rione sia dai dirigenti di Israele. «Episodi del genere – ha notato il ministero degli Esteri – sono inconciliabili con la storia del popolo ebraico». Anche se l’attacco è stato presumibilmente condotto da estremisti di destra, il ministro per la sicurezza interna Aharonivic ha criticato esponenti politici populisti che negli ultimi tempi hanno alzato il tono contro gli immigrati clandestini dall’Africa, addossando loro fra l’altro un aumento del tasso di criminalità e la diffusione di malattie.
Alludeva forse anche al ministro degli interni Ely Yishai (Shas), in prima linea fra quanti esigono divieto assoluto di permessi di lavoro ed espulsioni in massa dei migranti africani: oggi 60-70 mila, ogni mese rafforzati da 2-3 mila nuovi arrivi clandestini, attraverso il Sinai.
Rappresentante degli ebrei sefarditi che spesso popolano i rioni popolari di Gerusalemme e Tel Aviv dove è più marcata la presenza dei clandestini, Yishai ha dichiarato a Maariv: «I migranti e i palestinesi assieme provocheranno presto il crollo del sogno sionista. Abbiamo creato uno Stato, e ora lo perdiamo, giorno dopo giorno. Sembrerò razzista, oscurantista oppure xenofobo, ma io agisco nella convinzione che non abbiamo un altro Paese. O noi, o loro».

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