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Il Medio Oriente e Obama l’indeciso

Dovendo chiarire la loro politica nei confronti del Medio Oriente, i candidati alla Casa Bianca si trovano improvvisamente costretti ad affrontare questioni che avevano quasi del tutto ignorato nel corso della loro campagna elettorale.

Nella sua prima campagna elettorale Obama si era descritto come l’anti Bush e, prendendo le distanze dal progetto di esportazione della democrazia del suo predecessore, aveva posto una certa enfasi sulla politica verso il Medio Oriente. Mentre era ancora in corso l’operazione Piombo Fuso – l’ultima offensiva di Tel Aviv sulla Striscia di Gaza – Obama si era sforzato per affrontare la questione israelo-palestinese. Ciononostante, focalizzandosi soprattutto sul congelamento degli insediamenti dello stato ebraico, il presidente non è riuscito nei suoi intenti e il suo interesse verso la questione è sembrato scemare in fretta.

Annunciando un nuovo corso nella relazione tra Stati Uniti e mondo arabo, nel discorso del Cairo del giugno 2009, Obama si era detto intenzionato a iniziare un’era di mutua cooperazione. Eppure, dopo una breve luna di miele con il mondo arabo, Obama non si è realmente impegnato nella reale promozione della democrazia locale e ha addirittura tagliato i sussidi alle organizzazioni non governative che si occupano di questo tema. In Giordania l’assistenza statunitense ai programmi rivolti alla società civile e alla good governance è stata ridotta rispettivamente del 44% e 36%, mentre in Egitto i fondi destinati all’assistenza democratica hanno subito un taglio del 60%.

La promozione della democrazia sembra essere stata sostituita da quella della dignità e, spostando l’enfasi su sviluppo economico e riforme istituzionali, l’amministrazione Obama ha esercitato poca pressione sui leader – spesso anche suoi alleati – di quei Paesi che si apprestavano ad andar a elezioni. E’ proprio in questi anni che le votazioni tenutesi in Egitto e Giordania hanno dato vita a parlamenti descritti come i meno rappresentativi della storia dei paesi in questione.

Ciononostante, la politica di Obama in Medio Oriente è stata segnata soprattutto dalla risposta alle primavere arabe, eventi che hanno colto impreparata la sua amministrazione. Secondo Shady Hamid, direttore alla ricerca del Brookings Doha Center, affrontando uno alla volta i casi che gli si presentavano davanti, Obama ha adottato una “boutique strategy” priva di un progetto politico coerente. Il presidente si è sì schierato, spesso tardivamente, dalla parte dei manifestanti, ma si è anche preoccupato di dare garanzie agli altri suoi alleati nella regione: in primis Israele, Arabia Saudita e Bahrein. Nei fatti, Obama sembrava parlare come un’idealista, ma agire come un realista. Per il corrispondente del New Yorker, Ray Lizza, Obama si è comportato come un “consequentialist”.

Mettendo da parte l’impulsivitá del suo predecessore, il presidente ha risposto alle diverse rivolte scoppiate in modo cauto e spesso confuso. In Egitto, alla fine del primo giorno di manifestazioni popolari, il segretario di Stato Hilary Clinton ha definito stabile il regime di Hosni Mubarak che è poi crollato in meno di tre settimane. In Libia, l’amministrazione americana ha in primis denigrato l’idea di un intervento armato e, qualche settimana dopo l’inizio dell’operazione Nato, ne ha preso le distanze. Ad infangare ancora di piú le acque statunitensi, sarebbe stata, secondo Hamid, la gestione della crisi siriana.

Il risultato è stato un crescente vuoto di potere che, in linea con una generale ridistribuzione delle sfere di influenza in un’epoca sempre meno unipolare, ha ridotto visibilmente il ruolo statunitense, facendo aumentare i dubbi locali sull’affidabilitá della politica di Washigthon.

In questo ambito è anche interessante osservare l’evoluzione dell’antiamericanismo nella regione. Anche se molti analisti temono che un’ascesa al potere degli islamisti non possa che fare aumentare l’ostilitá nei confronti degli americani, la scomparsa di un certo anti-americanismo di regime e l’approccio che gli islamisti stanno dimostrando possono anche fare pensare il contrario.

Tutto ció dipende soprattutto dalla condotta della prossima amministrazione. Chiunque salirá a Capitol Hill dovrá infatti capire come modificare il suo approccio diplomatico per rivolgersi non solo, come accaduto fino ad ora, ai capi di governi, ma anche a quei cittadini che vogliono avverare le loro aspirazioni democratiche.

Per realizzare una politica piú coerente e globale, la Casa Bianca dovrebbe poi sostituire la “boutique strategy” con un disegno che miri anche a creare reali incentivi alla democratizzazione locale. Riconoscendo e contestualizzando il ruolo degli islamisti, la Casa Bianca potrebbe poi coordinare i suoi sforzi di dialogo con i diversi protagonisti dei paesi in transizione, capendo anche in quali settori ridurre la sua interferenza.

Infine, qualora volesse essere incisivo, il nuovo presidente dovrebbe riprendere la questione del conflitto israleo-palestinese. Vista l’enfasi posta inizialmente da Obama a tale questione, i piú ottimisti sperano che, qualora fosse rieletto, il presidente, non ossessionato da calcoli elettorali, potrebbe forse fare di meglio.

* Nena News

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