Mursi ha incontrato il leader di Hamas Meshaal e il segretario della Jihad Islamica Shallah. Ha parlato anche coi funzionari inviati dal governo di Tel Aviv. Rispetto all’iniziativa disposta dalla Lega Araba e alle mosse del Qatar quella del Capo dello Stato egiziano è risultata la più credibile e sicura. Per non sentirsi spiazzato il premier turco Erdogan, presente a un incontro commerciale nella capitale egiziana per avviare collaborazioni economiche con imprenditori locali, ha predisposto che martedì il ministro degli esteri Davutoglu arrivi anch’egli a Gaza a portare sostegno, cercando di fermare l’inferno di fuoco che da cinque giorni continua a far crescere le vittime civili (75). Sull’effettiva riuscita dell’ipotesi di tregua le stesse fonti diplomatiche sono incerte. Lo stop farebbe incamerare ad Hamas una credibilità morale e politica e nel suo piccolo, coi razzi finiti sulle grandi città d’Israele, anche militare. Ma visto il numero dei morti, le distruzioni civili apportate, la palese volontà di colpire anche l’informazione una tregua gioverebbe anche all’Idf che nell’operazione di terra può seminare ancora terrore e sangue e rimetterci in ogni sorta di credibilità. Alcuni consiglieri questo continuano a dirlo a Netanyahu.
Però tutto lo scempio finora fatto e la grancassa militare messa in moto non avrebbe raggiunto lo scopo fondamentale di eliminare l’odierna fonte dell’angoscia che martella non solo il sud d’Israele: i razzi Fajr 5. Il problema non è sapere se vengano montati in loco o importati già pronti all’uso, la questione è distruggerne le scorte celate anche nel sottosuolo. E questo non si può fare dall’alto se non con un’ecatombe. Perciò la “tregua tecnica” che leadership e militari israeliani si danno riguarda se lanciare o meno l’offensiva di terra nella Striscia alla ricerca dei siti di stoccaggio, e quanto questo può costare in stragi e perdite. Assieme a un pesantissimo isolamento internazionale e possibili allargamenti armati della crisi. L’attuale situazione dovrebbe far riflettere l’establishment di Tel Aviv, che ricerca nella logica dello scontro la sola essenza della propria politica, come proprio la sua presunzione di forza possa essere messa in difficoltà. Non solo dalla volontà di resistenza d’una popolazione stremata ma non doma, ma dalla stessa tecnologia che vede una supremazia schiacciante di Tsahal. Distruggere Gaza come “Piombo fuso” ha già fatto, ucciderne migliaia di abitanti, opprimerli decretandone la subordinazione non ha preservato Israele dall’apparizione d’un missile che lo impensierisce. Un’arma piccina rispetto alla bomba iraniana contro cui vorrebbe scatenarsi. Puntare alla guerra appare un vicolo cieco che non porta gli israeliani fuori dai drammi che continuano a perpetuare per sé e altri popoli.
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