I leader europei Merkel e Hollande avevano affermato, alla vigilia del vertice di Minsk, che se si fosse tenuto già sarebbe stato un miracolo vista la situazione tanto grave che aveva convinto l’Ue ad attivarsi di fronte alla possibile trasformazione del conflitto regionale in un conflitto su larga scala che coinvolgesse la stessa Europa.
E alla fine, almeno sulla carta, la maratona negoziale in Bielorussia qualche risultato lo ha dato. Teoricamente le parti hanno concordato una road map in 13 punti che prevede un cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte di domenica 15 febbraio, il ritiro delle armi pesanti dal fronte; la creazione di una fascia di sicurezza “smilitarizzata” larga 25 chilometri a cavallo dell’attuale fronte (frutto di una rapida avanzata delle milizie insorte); il riavvio dello scambio di prigionieri; il ristabilimento dell’autorità centrale di Kiev sul Donbass, il pagamento di sussidi e pensioni e lo sblocco del sistema bancario. Ma solo in cambio della concessione di una forte autonomia alle regioni ribelli, affermano le autorità di Donetsk e Lugansk, con il riconoscimento del diritto di formare forze di polizia e magistratura autonome e di decidere la lingua ufficiale, mentre Kiev si limita a promettere un fumoso ‘decentramento’ che dovrebbe essere contenuto in una riforma costituzionale da approvare in una Rada Suprema dove però predominano le forze russofobe e ultranazionaliste.
Un punto, quest’ultimo, che non sembra “difficile da realizzare”, ma allo stato completamente irrealizzabile. Tanto che Poroshenko ha immediatamente chiarito che gli accordi siglati a Minsk non prevedono alcuna autonomia per le aree sotto il controllo dei ribelli e, citato dall’agenzia russa Interfax, ha detto anche che «ci hanno proposto diverse condizioni inaccettabili», ma «noi non abbiamo accettato nessun ultimatum e abbiamo rimarcato la nostra posizione ferma: il cessate il fuoco deve avvenire senza condizioni preliminari». Poroshenko ha anche sottolineato, pro domo sua, che nei negoziati si è raggiunto un accordo per «il ritiro di tutte le truppe straniere dal territorio ucraino», aggiungendo che «tutti i mercenari devono essere ritirati dal territorio ucraino nel prossimo futuro». Naturalmente si riferiva ai russi che combattono nelle file delle milizie del Donbass, ma non ai mercenari della Academi attivi sul fronte opposto fin dai giorni del golpe di febbraio o a quelli delle varie organizzazioni di estrema destra provenienti da tutta l’Europa. Ancora durante la maratona dei negoziati i comandi militari ucraini hanno denunciato il presunto ingresso nel paese di una colonna di 50 carri armati provenienti dalla Russia. Ma su questo punto gli alleati di Kiev – Nato compresa – da qualche tempo hanno lasciato soli Poroshenko e Jatsenjiuk nella loro perenne denuncia della presunta “invasione russa”, sminuendone di fatto la credibilità.
Inoltre, il ritiro delle armi pesanti dal Donbass, ha stabilito il quartetto normanno, dovrà cominciare immediatamente e concludersi entro 14 giorni, sotto il controllo degli osservatori dell’Osce.
Insomma le quindici ore di tira e molla tra Putin, Merkel, Hollande e Poroshenko hanno prodotto né più né meno che un elenco di punti che erano già alla base dei precedenti tentativi di stoppare i combattimenti, risalenti a settembre e poi a dicembre, e presto naufragati.
In molti si chiedono perché questa volta dovrebbe funzionare ciò che non ha funzionato nel recente passato, visto oltretutto che la situazione si è ulteriormente incancrenita e che gli Stati Uniti e la Nato – almeno la parte dell’Alleanza che risponde a Washington – nel frattempo hanno ripreso a soffiare sul fuoco di una escalation che i colloqui di Minsk non sembrano in grado di disinnescare.
Restano tra l’altro da risolvere due questioni non certo secondarie: che ne sarà di Debaltsevo e dei sei-ottomila soldati ucraini intrappolati nella città circondata dalle milizie ribelli? Le repubbliche indipendentiste rinunceranno senza colpo ferire a una vittoria militare decisiva? Ancora: Kiev chiede di poter tornare a controllare con le sue truppe il confine orientale tra Ucraina e Russia, sul lato dei territori controllati dalle repubbliche di Donetsk e Lugansk, richiesta però assolutamente inaccettabile per i ribelli che a quel punto si troverebbero circondati da tutti i lati. Non sono mancate nelle ultime ore, su questi e altri punti, le prese di distanza da parte degli insorti nei confronti della diplomazia di Mosca, vista in alcuni casi da Donetsk e Lugansk con il sospetto che la Russia voglia scaricare gli indipendentisti in cambio di un allentamento della tensione con Bruxelles e la rimozione delle sanzioni.
Insomma le questioni spinose rimaste aperte sono molte. Quello raggiunto in Bielorussia è solo un preaccordo, un elenco di buone intenzioni che nascondono un muro contro muro. Metterlo in pratica “sarà difficile”, come ha ammesso lo stesso presidente ucraino, l’oligarca Poroshenko, sempre in bilico tra la sudditanza nei confronti della Casa Bianca e la fedeltà a Bruxelles. «È stato un processo negoziale molto difficile e ci aspettiamo un processo di realizzazione non semplice» ha dichiarato Poroshenko dopo aver ragguagliato i leader continentali sui ‘progressi’ raggiunti.
Certo non aiuta la schizofrenica posizione di Angela Merkel, che se da una parte cerca di stoppare i venti di guerra provenienti da Washington dall’altra ribadisce che se la tregua non funzionerà l’Ue «non esclude di imporre altre sanzioni». Naturalmente contro la Russia e non anche contro l’Ucraina, come sarebbe logico per una potenza che tenta di scrollarsi di dosso i condizionamenti degli Stati Uniti. I cui apparati non rinunceranno certo ad una dinamica di militarizzazione del conflitto che è partita da tempo e che Washington ha tutta l’intenzione di incrementare, non solo e non tanto per contrastare la reazione di Mosca, ma per tenere in scacco e condizionare una Unione Europea sempre più schiacciata dal contesto di scontro frontale. Che per ora si accontenta di vantare i risultati del proprio protagonismo sullo scacchiere globale, a fianco e quando necessario contro gli estremi rappresentati da Putin e Obama. Risultati che però allo stato appaiono delle pie illusioni buone per una propaganda che difficilmente potrà sopravvivere alla prova dei fatti.
Nel frattempo il regime nazionalista di Kiev, sempre più allo sbando sul fronte economico oltre che su quello militare, consegna sempre più il paese alle grinfie delle istituzioni economiche internazionali. L’Ucraina ha le casse vuote e ha dovuto accettare un ulteriore prestito da parte del Fondo Monetario Internazionale, la cui leader Christine Lagarde ha deciso di concedere subito 17,5 miliardi di dollari, una prima tranche di un pacchetto che ammonta a 40 miliardi. Come già visto in America Latina e Asia nei decenni scorsi, e in Grecia o Spagna o Irlanda e Portogallo poi, il popolo ucraino pagherà carissimi gli aiuti internazionali, in cambio dei quali l’Fmi chiede elevati interessi e il varo delle cosiddette ‘riforme’ in campo economico, le stesse che hanno schiantato Atene e Madrid.
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