Condannati a non rompere per non essere rotti. Grecia e Germania, dopo l’ultrapubblicizzato vertice a due tra Alexis Tsipras e Angela Merkel, sono obbligate a stemperare al massimo i toni acuti delle settimane scorse pena il risorgere dei fantasmi di “Grexit” che possono vanificare sul nascere gli obiettivi del quantitative easing di Mario Draghi e quindi i sogni di ritorno a una crescita “percepibile”.
D’altro canto Atene non può pagare il suo abnorme debito estero ingigantito dagli “aiuti” e dalle “riforme strutturali” imposte dalla Troika, che dovevano invece ridurlo. Non solo lo sanno tutti, ma lo stesso Tsipras l’aveva sottolineato nella lettera inviata alla Merkel appena una settimana fa, in cui fra l’altro chiedeva di sbloccare almeno una tranche degli “aiuti” concordati: «Con questa lettera le sto evidenziando che il problema di non consentire un piccolo flusso di denaro, a causa di una certa “inerzia istituzionale”, si potrebbe trasformare in un grosso problema non solo per la Grecia ma anche per l’Europa».
E Berlino, pur non potendo dire le cose negli stessi termini, è stata costretta oggi a dire qualcosa che nessuno pensava di poter sentire da un leader tedesco: alla fine “bisogna ammettere che nel corso degli ultimi cinque anni il salvataggio della Grecia non è stato una storia di successo”, ma “ha portato terribili risultati ed enormi problemi sociali”.
Si potrebbe ironizzare a lungo su una constatazione che il mondo intero ha fatto da alcuni anni (almeno tre), ma segna un momento di crisi – una smagliatura, non certo un ravvedimento – nella classica posizione tedesca sulla questione del debito altrui (“prima fate i compiti a casa, poi vediamo cosa vi serve”). Ammettere di non aver avuto successo non è ancora un’ammissione di aver sbagliato strategia, ma sono ormai troppi gli studi critici per quell’operazione di “salvataggio” che ha traformato un debito verso privati (della Grecia verso le banche tedesche e francesi) in un debito moltiplicato verso gli Stati partner dell’eurozona. Una “socializzazione delle perdite” che ora pesa sui bilanci pubblici anche della Germania, mentre ha spinto la Grecia in una situazione di default tecnico già da un paio di anni.
Solo “la politica” è riuscita, fino alle elezioni di gennaio di quest’anno, a tenere Atene nel carrozzone dell’Unione Europea, a dispetto di “fondamentali” al di fuori di ogni trattato. Ma è bastato un governo che mettesse – moderatamente – in discussione procedure e prescrizioni della Troika per bucare il palloncino che nascondeva le crepe dell’edificio.
I leader di Syriza ripetono sempre di voler restate nell’eurozona, ma di voler cambiare le priorità nell’azione di governo. Difficilissimo, se non impossibile, alla luce dei trattati vigenti. Ma questo è andato a ribadire Tsipras in quel di Berlino, ovviamente con contorsioni retoriche di alta scuola, che in Italia possono apparire ormai quasi ingenue. E quindi, per esempio, “le modalità di attuazione del programma di salvataggio concordato a suo tempo con la comunità internazionale ha avuto l’effetto di aumentare la diseguaglianza sociale nel paese e che il governo intende ora affrontare questo problema”. Cosa che qualsiasi altro governo si guarda bene anche solo dal pensare, preferendo semmai qualche distinguo per “politiche che favoriscano anche la crescita, non solo il risanamento dei conti”, come se la popolazione fosse soltanto un luogo per eventuali ricadute di processo che si svolgono altrove.
Naturalmente Tsipras ha dovuto ribadire che “Il governo di Atene è pronto a rispettare gli impegni”, ma solo dopo – “a condizione” – che “ci sia giustizia sociale”.
Tutta una serie di “certo…, ma..) che la dicono lunga sulle distanze incolmabili tra le priorità della Grecia syrizista e l’ordo-liberalismo continentale. ALtro esempio? I Trattati vanno rispettati, ma «è il momento di realizzare le grandi riforme strutturali e combattere l’evasione fiscale e la corruzione». Quali riforme strutturali, non viene detto. O meglio: il ritorno della lotta a corruzione ed evasione fiscale lascia pensare che siano soprattutto le azioni su questi due fronti a costituire, per il nuovo governo di Atene, l’alfa e l’omega delle “riforme”. Probabile che alla Merkel sia venuta la tentazione di strangolarlo…
Soprattutto quando, in piena conferenza stampa “pacificatoria”, Tsipras ha tirato di nuovo in ballo i “danni di guerra” che Berlino ancora deve pagare alla Grecia (furono versate solo le due prime rate, poi più nulla). La questione ha già coinvolto diversi giuristi internazionali, che non hanno trovato affatto di “lana caprina” l’argomento; specie per quanto rguarda il “prestito forzoso” che i nazisti imposero al paese prima di essere costretti alla ritirata. Naturalmente Merkel ritiene “defunta” la questione, e nessuno scucirà un euro a Berlino per questo. Ma anche qui viene – moderatamente – incrinata l’immagine “severa ma giusta” della Germania riunificata solo grazie alla pazienza con cui l’intera comunità europea attese il suo rientro “nei parametri”.
Vedremo nei prossimi giorni quanto Tsipras sia riuscito nell’obiettivo di “ammorbidire” davvero Berlino. La sostanza si gioca infatti all’Eurogruppo, dove “gli impegni” di Atene verranno esaminati ancora una volta nel merito e “giudicati”: in linea con le prescrizioni, oppure no (come avviene da due mesi).
La parte politica della visita è stata mirata soprattutto a rompere l’immagine del “contrasto assoluto” tra i due paesi, prima ancora che tra i due attuali governi. «I greci non sono dei fannulloni, e i tedeschi non sono colpevoli dei malanni e della disfunzioni della Grecia», ha buttato lì sorridendo Tsipras. Senza peraltro trovare altrettanta condiscendenza almeno formale in Merkel: “vogliamo una Grecia forte economicamente”, ha spiegato la cancelliera, ma «la Germania non può fare promesse sulla questione della liquidità per la Grecia. Le questioni riguardanti la liquidità e la correttezza delle misure riguardano i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo»; come anche «non sarà il governo tedesco a decidere se le riforme greche passano l’esame». Uno scarico di responsabilità penoso, visto quel che accade di norma proprio nell’Eurogruppo, dove non si muove foglia che Schaeuble non voglia… Ma anche una precisazione istituzionalmente dovuta, per non confermare la consapevolezza generale che è appunto Berlino a fare e disfare le decisioni “comunitarie”.
Ma se la Germania vuole mantenere in via l’euro – da cui è stata praticamente la sola a trarre vantaggi competitivi – deve tenersi anche la Gercia. Per quanto scalci…
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