“(Quelli della coalizione internazionale a guida Usa, ndr) Non fanno del loro meglio. Ci sono spesso civili kurdi uccisi nei bombardamenti. Succede per errore, secondo loro, ma noi invece crediamo che vogliano mantenere una forma di equilibrio tra jihadisti e combattenti kurdi. Se la coalizione vuole bombardare una sigaretta lo fa. A volte chiediamo attacchi mirati e dicono di non poter procedere. Troppi combattenti jihadisti hanno armi degli Stati uniti o turche. Invece noi per mesi non abbiamo avuto armamenti sufficienti” denunciava qualche fa al giornalista del Manifesto Giuseppe Acconcia la comandante Rangin, delle Jpg, raggiunta telefonicamente a Kobane.
Che gli attacchi della coalizione militare a guida statunitense contro le postazioni dello Stato Islamico e di Al Qaeda in Siria e in Iraq siano insufficienti e altalenanti era apparso chiaro fin dall’inizio. D’altronde non si spiegherebbe come a distanza di alcuni mesi dall’inizio delle operazioni militari che vedono impegnati decine di caccia ed elicotteri di varie potenze militari, oltre a truppe e commandos d’elite, siano di fatto solo le milizie curde e in alcuni casi l’esercito siriano a infliggere dure sconfitte ai jihadisti, che comunque sfruttando il sostegno turco sono tornati in queste ultime settimane a colpire Kobane e poi anche Tal Abyad.
Il sospetto che Washington, le potenze europee coinvolte e soprattutto le petromonarchie vogliano ridimensionare l’Isis – creatura a lungo tollerata quando non coccolata e sostenuta ma poi diventata troppo ingombrante e incontrollabile – senza però eliminare del tutto il ‘Califfato’ per poter continuare ad avere a disposizione una forza da utilizzare come contraltare ai paesi dell’asse sciita è ormai una certezza incontestabile.
Confermata dalle recenti decisioni del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il quale si è detto contrario alla fornitura di armi ai combattenti curdi che contrastano l’espansione dello Stato Islamico in Siria mentre già “milioni di sterline di armi comprati da diversi Paesi europei per armare i curdi sono bloccati dai comandanti americani che supervisionano le operazioni contro Isis” come ha scritto un quotidiano di Londra.
A rivelare il no della Casa Bianca al sostegno alle milizie popolari curde è stato nei giorni scorsi il britannico Telegraph che pubblicando le indiscrezioni raccolte da un “importante funzionario di un governo arabo” ha svelato i tentativi di alcuni esecutivi della regione a incrementare gli aiuti militari ai combattenti curdi – soprattutto i docili peshmerga di Erbil – e alle forze armate irachene se non a quelle siriane nei confronti delle quali l’ostracismo nelle cancellerie mediorientali è comune e totale. Il funzionario intervistato ha anche rivelato che lo scarso impegno statunitense nella lotta contro i fondamentalisti ha generato nel suo governo – non è dato sapere quale – contrarietà e polemiche, tanto da annunciare la ricerca di una ‘via autonoma’ dei paesi del Golfo rispetto ai tentennamenti di Washington. “Se gli americani e l’Occidente non sono pronti a fare qualcosa di serio per sconfiggere l’Isis, allora dovremo trovare altri modi per gestire questa minaccia” avrebbe detto l’alto funzionario coperto dall’anonimato, “con l’Isis che continua a guadagnare terreno, semplicemente non possiamo permetterci di aspettare che Washington si svegli e realizzi l’enormità della minaccia a cui ci troviamo di fronte”. “Semplicemente non c’è un approccio strategico” avrebbe aggiunto il misterioso rappresentante, “c’è una mancanza di coordinamento nella scelta degli obiettivi e non c’è un piano complessivo che miri alla sconfitta dell’Isis”.
Secondo il Telegraph i paesi – o alcuni paesi – del Golfo sarebbero pronti a fornire armi anche pesanti ai combattenti curdi, anche a costo di indispettire il governo di Baghdad che non vede di buon occhio il rafforzamento dell’autonomia curda nel nord del paese e soprattutto di inimicarsi ulteriormente la Turchia. Ankara nei giorni scorsi ha esplicitamente affermato di essere indisponibile a tollerare la formazione di ‘uno stato curdo’ ai propri confini e di essere in procinto di inviare una consistente forza militare turca in territorio siriano per creare una ‘zona cuscinetto’ di varie centinaia di chilometri quadrati. Secondo alcuni media, sarebbero state proprio le pressioni e le rimostranze di Erdogan nei confronti dell’ex alleato americano a convincere Obama a bloccare i già scarsi rifornimenti ai combattenti curdi.
E’ evidente che il disappunto delle petromonarchie – o di alcune, perché anche all’interno del polo islamico guidato da Riad non mancano le divergenze strategiche – potrebbe avere un carattere strumentale a rafforzare la propria egemonia nella regione. Che i regimi feudali del Golfo temano l’espansione dello Stato Islamico, dopo averlo sostenuto e foraggiato contro Baghdad, Damasco, Teheran e Beirut è più che evidente visto che il Califfato ha iniziato a minacciare anche i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Ma è anche evidente che nel mirino del blocco regionale islamico ci sono comunque i paesi sconvolti dalla guerra civile. Sostenere ora i curdi iracheni – anche in questo caso senza esagerare – e solo in minima parte quelli siriani dopo aver sostenuto i jihadisti potrebbe rappresentare un modo per perpetuare la destabilizzazione dell’area e giocare così al sempre verde ‘divide et impera’. Usa, Unione Europea e petromonarchie giocano col fuoco, sulla pelle dei popoli del Medio Oriente e non solo.
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