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Reportage. La Palestina vista da lontano, tra politica e campi profughi

Libano, Giordania, Cisgiordania. Le tre delegazioni italiane della missione “Per non dimenticare il diritto al ritorno” continuano il loro lavoro nelle decine di campi profughi palestinesi disseminati nei vari paesi arabi dopo la pulizia etnica israeliana del ’48. Qui di seguito i loro reportage paese per paese.

Libano. Report della delegazione italiana “Per non dimenticare il diritto al ritorno”

Si arriva a Sidone, la citta’ principale di questa parte di Libano, per l’incontro con il partito nasseriano, che qui e’ molto forte. Osama Saad ci racconta la storia di suo padre Maaruf, uomo del popolo, capo del sindacato dei pescatori, fondatore del partito, un simbolo per la lotta del popolo palestinese, ed assicura che il partito, proseguendo sulla linea da lui impostata, continua a lottare in senso progressista per un cambiamento nel corrotto sistema politico-sociale del Libano e per il riconoscimento dei diritti dei Palestinesi. Esprime anche l’auspicio che la lotta dei popoli arabi possa recuperare la spinta iniziale per il progresso e per i diritti umani, nel nome dell’unita’ panaraba, superando i conflitti (in Libia, in Siria, in Somalia, nello Yemen, in Iraq….) creati a tavolino nel laboratorio degli Stati Uniti e dei loro alleati proprio per bloccare e reprimere la volonta’ di cambiamento.


Dopo la posa di una corona al monumento a Maaruf Saad, la delegazione prosegue per Tiro e poi piega verso il confine. In tarda mattinata si arriva in Alta Galilea. La vista spazia sul confine, ben riconoscibile, tra Libano e Palestina; il contrasto e’ molto evidente: a destra le aride zolle del territorio libanese, a sinistra gli spazi verdeggianti della Palestina occupata, punteggiati dai tetti rossi dei piccoli villaggi palestinesi e da quelli piatti degli insediamenti israeliani, forniti di piscine e di comode strade asfaltate. Siamo nel parco di Maaroun al Rass, realizzato con il contributo finanziario iraniano; qui le famiglie vengono a trascorrere una giornata rilassante, e possono utilizzare una delle piattaforme attrezzate per pic-nic o andare al ristorante, mentre i bambini giocano nei parchi-gioco tra il verde. Il capo militare di quest’area, che ha patito per anni il carcere israeliano ma, come ci raccontano, “e’ tornato piu’ forte di prima”, ci spiega che c’e’ stata la volonta’ precisa di costruire il parco proprio qui, ben visibile da parte degli occupanti sionisti della Palestina, per dare una risposta agli insediamenti israeliani, in modo che si possa vedere bene come si e’ stati in grado di rendere piu’ bello il paese.

Ci spiega anche che dall’altra parte ci sono sette villaggi libanesi contesi, che c’e’, poco distante, il lago Tiberiade, la cui acqua viene rapinata dagli israeliani, e che l’occupante cambia anche la toponomastica di questi luoghi, rinominando ad esempio “montagna Meiroun” quello che in arabo e’ il monte El Jarmak, dietro il quale, a 40 km., c’e’ Haifa. Oltre ad essere teatro della guerra del 2006, questi luoghi hanno vissuto altri episodi cruenti: il 15 maggio 2011, in occasione dell’ anniversario della Nakba, ottomila rifugiati dei campi profughi del Libano si spinsero fino a questo confine per dar vita a una grande manifestazione che chiedeva il diritto al ritorno. I militari israeliani aprirono il fuoco, sei morti palestinesi rimasero sul terreno, molto numerosi furono i feriti.

I delegati ascoltano emozionati, colpiti dall’intensita’ delle parole del comandante e dalla vista che hanno davanti agli occhi. Intanto Kassem al Aina, il direttore dell’associazione Beit Atfal Assomoud che ci ospita, appoggiato alla balaustra della piattaforma, osserva concentrato la collina che gli nasconde la vista del suo villaggio natale, laggiu’… in Palestina.

 

Giordania. Viaggio tra politica e campi profughi

E’ la Giordania il paese dove un’altra delegazione dell’organizzazione “per non dimenticare il diritto al ritorno del popolo palestinese” si è recata per verificare e comprendere come vivono e come sono organizzati i palestinesi da anni in attesa di tornare nei propri territori. Un viaggio alla ricerca di contatti ed informazioni non solo istituzionali ma reali. Soprattutto in un paese politicamente governato in modo non del tutto trasparente ed egualitario. Basti pensare che la maggior parte dei  partiti politici che compongono la maggioranza, sono nominati dal Re e rappresentano soprattutto gli interessi delle oligarchie familiari economiche del paese.

Forse è anche per questo motivo che i nostri referenti l’Unione delle Donne Giordane (JORDANIAN WOMEN’S UNION) hanno privilegiato i partiti di sinistra, oggi non presenti in parlamento a causa di una legge elettorale che li ha volutamente penalizzati, per cercare di comprendere cosa realmente pensano della questione palestinese e internazionale e come agiscono per cercare di attuarlo.

L’ Unione delle Donne Giordane è un associazione indipendente con 16 filiali che opera dal 1945 contro le discriminazioni e per il rispetto dei diritti umani. Più volta sospesa dal governo Giordano per motivi politici (1957 e 1981) dal 1990, con la “Democratizzazione della Giordania”, riprende la sua importante opera sociale. Il riferimento del loro intervento non poteva che condurre a quanto sta avvenendo nel mondo arabo e in particolare al pericolo ISIS, un islam diverso da quello che noi conosciamo, il cui risultato sarà in primis pagato dalle donne arabe. La responsabile ha sottolineato che la questione Palestinese rimane la primaria e che il pericolo di quanto sta avvenendo ha come obiettivo fondamentale dividere ulteriormente il mondo arabo, creare nuove entità etniche e religiose e ridisegnare i rapporti di forza, imponendo sotto il controllo Americano, tutta questa importante area geopolitica.

Il primo partito che abbiamo incobtrato presso la sua sede, è il Partito Democratico del Popolo.

“Impossibile risolvere tutti i problemi legati alla Palestina” comincia così la presidentessa del partito Abla Abu Elbe. Ci comunica poi che in Giordania esistono tre campi non autorizzati e non è possibile sapere quanti Palestinesi sono presenti in Giordania. Si pensa oltre 4 milioni di cui 500 mila senza gli stessi diritti dei Giordani. I palestinesi sono divisi tra chi è in possesso del passaporto giordano e quelli provenienti da Gaza, a cui non viene rilasciato. Solo nel campo di Jerash, 30 mila sono senza passaporto. Palestinesi per lo più poveri rispetto ai quali, solo oggi il governo giordano, comincia a comprendere il pericolo sociale di una tale situazione.

“Noi lavoriamo affinché i palestinesi comprendano che qui è possibile vivere ma, questo crea dei problemi all’interno dei campi”.

In Giordania esiste una legge (n°149) che prevede il diritto al ritorno di tutti i profughi palestinesi. Una legge che, secondo loro, non influirà sul ricordo e la volontà di questo popolo di voler tornare in Palestina. Motivo in più per aiutarli a non dimenticare e contemporaneamente far pressione affinché non siano dimenticati. Soprattutto ora con il taglio dei fondi degli Stati nei confronti dell’UNRWA che ha già minacciato di chiudere le scuole. Un pericolo sociale assai grave dato che circa 120 mila bambini in Giordania e 750 mila in tutti i campi profughi palestinesi, finirebbero in strada. Così come gli oltre 7.000 operatori in Giordania dei 20.000 impiegati in tutte le altre scuole dell’URWA. Esiste poi il problema degli altri immigrati provenienti dalla Siria e dall’Iraq che ha e sta creando problemi di gestione e convivenza. I primi sul lavoro, costano meno dei palestinesi diversamente degli iracheni che sono invece più ricchi. Anche se questi hanno provocato fenomeni speculativi e l’innalzamento degli affitti e dei beni di prima necessità.(ndr).

Successivamente abbiamo incontrato il PARTITO COMUNISTA GIORDANO.

Il JCP nasce nel 1951. In quel quadrante geografico la posizione politica dei comunisti sugli avvenimenti del 1948, quando iniziò la guerra con la sottrazione delle terre ai palestinesi, fu di riconoscere che i paesi arabi non avevano sufficienti forze a disposizione per vincere contro il movimento sionista e quindi accettarono i nuovi assetti geopolitici. I comunisti palestinesi che rimasero in quella che d’allora si chiamò Israele, prese il nome di partito comunista d’Israele. Coloro che riuscirono ad arrivare sul territorio Giordano entrarono in contatto con le componenti marxiste leniniste popolari e fondarono il partito comunista giordano.

Nel 1957 il governo provò a scioglierlo, arrestando dirigenti e militanti che a centinaia conobbero il carcere per i successivi 25 anni. Ancora oggi, pur manifestandosi sotto altra veste, le politiche repressive persecutorie contro la loro organizzazione continuano.

L’attuale programma del JCP in relazione alla questione palestinese è sintetizzabile in 3 punti:

1 – esercitare pressioni politiche contro l’attuale governo perché ponga ai paesi arabi, ma anche agli USA e all’UE, i finanziamenti all’UNRWA;

2 – evidenziare che a determinare la situazione attuale di crisi economica dell’UNRWA non è una questione economica ma una precisa scelta politica contro il popolo palestinese:

3 – rafforzare il movimento di resistenza popolare contro l’UNRWA attraverso manifestazioni fuori e dentro i campi profughi.

In merito alla politica internazionale, per quanto riguarda il ruolo dell’ISIS da loro identificato come prodotto degli USA, ritengono che l’obiettivo dello stato islamico sia la divisione dei paesi arabi: l’Iraq in tanti paesi, la Siria in due paesi sunniti, rompendo ed annientando le sovranità nazionali, così come è già accaduto per la Libia di Gheddafi.

Giudicano poi il recente accordo nucleare con l’Iran, una sostanziale resa degli americani e un tentativo di rafforzare la propria presenza nell’area in una fase in cui vedono il pericolo di un avanzamento della Cina e dei BRICS.

Per completare i nostri incontri, il giorno successivo abbiamo incontrato il PARTITO DELL’UNITA’ POPOLARE DEMOCATICO GIORDANO

Nato nel 1990 con la volontà di far riconoscere i diritti dei palestinesi in Giordania. Due i suoi punti fondamentali:

1 – riconoscere pari diritti a tutti i palestinesi presenti in Giordania.

2 – rendere la Giordania un paese democratico.

Giudicano un errore l’intromissione del loro paese negli ultimi interventi internazionali e ritengono al tempo stesso che senza la distruzione del progetto sionista e la soluzione della questione palestinese, non sarà possibile stabilizzare la zona mediorientale. Operazione questa che difficilmente sarà possibile ottenere senza una lotta armata.

Il loro obiettivo è riuscire a ottenere l’unità tra i palestinesi e i giordani. Perché nel paese è in atto una trasformazione pericolosa causata anche da politiche sbagliate attuate negli anni passati, come ad esempio l’impossibilità, a causa di accordi fatti con multinazionali estere, di usufruire dei diritti d’estrazione sui fosfati, potassio, acqua e cemento. Un problema che si sta in parte oggi risolvendo.

Il debito della Giordania è molto alto 1 miliardo e 800 milioni e cresce il divario tra poveri e ricchi con una povertà aggravata anche a causa della riduzione delle tasse applicate a banche e ricchi immigrati iracheni e leggi che hanno favorito solo le classi più ricche. Come diretta conseguenza questo ha provocato un aumento della violenza nei quartieri più poveri del paese.

Giudicano errati gli accordi imminenti con Israele, come quello sul gas, perché porteranno ad un ulteriore perdita di democrazia e al pericolo di un controllo sionista sul paese. Un esempio diretto è stata la modifica della legge elettorale che ha ridotto la possibilità delle minoranze di essere presente in parlamento e ha aumento un sistema già nepotista e clientelare. Militari e uomini di Stato ovviamente hanno la priorità in ogni ambito.

Private sono istruzione e sanità. Le scuole sono fatiscenti e le classi sono composte da oltre 60 bambini. Inoltre le tasse universitarie (30 sono le università private) sono più alte per quegli studenti che vengono ammessi con voti inferiori, salvo per chi appartiene alla locale borghesia. Uguali dicasi per gli ospedali: molti medici provano ad andare in Arabia Saudita per trovare un posto di lavoro e le classi meno abbienti non hanno di fatto diritto ad una dignitosa assistenza sanitaria.

“Il problema palestinese è grande”. A differenza del Libano o della Siria i palestinesi possono avere il passaporto ma per risolvere il problema del sovraffollamento nei 13 campi (10 ufficiali e 3 non riconosciuti) bisogna innanzitutto:

1 – Risolvere il problema dei profughi e del loro diritto al ritorno.

2 – Organizzare i campi in modo dignitoso garantendo loro assistenza e formazione.

3 – Il problema dei mancati finanziamenti versati all’UNRWA

In particolare lavorano sul sensibilizzare le nuove generazioni al mantenimento della cultura palestinese. Grave è che dopo un ispezione dei responsabili dell’UNRWA nelle scuole, sia stato deciso di cambiare tutti i libri di testo e il metodo d’insegnamento perché secondo loro, troppo spostato sulle posizione di difesa dei palestinesi e contro Israele. A Gaza, per esempio, a causa della scadenza del bando che prevedeva il finanziamento dell’affitto da parte dell’UNRWA, oltre 10 mila famiglie rischiano di essere sfrattate.

Sul piano interazionale ribadiscono l’opinione che l’ISIS è una costruzione americana per mettere gli “arabi conto arabi” e questo gioco riesce facile anche a causa della corruzione dei governi arabi e della loro mancata volontà di liberarsi dal giogo americano. Due esempi di questa politica sono l’attuale assetto egiziano e la strumentalizzazione della questione iraniana in funzione filo americana. “Purtroppo il pensiero dell’ISIS e nelle menti di molti di noi arabi anche a causa del fatto che la religione mussulmana ha smesso di essere tale subito dopo la morte di Maometto e si è trasformata in pura politica che trova facile terreno nei ceti poveri e con bassa scolarizzazione”.

In Giordania il partito ha un comitato che si occupa dei prigionieri politici palestinesi. Inoltre attualmente anche 30 cittadini giordani sono detenuti nelle carceri israeliane.

Prima di lasciarci ci comunica che nei campi profughi opera un comitato che si chiama “per non dimenticare il diritto al ritorno” che ha il compito di far comprendere ai palestinesi nei campi quanto sia importante la loro unione.

Nei tre campi profughi di Wehdat, Hittin, Husun, abbiamo avuto numerosi riscontri oggettivi al drammatico scenario delineato negli incontri istituzionali.

Nel primo campo, in cui vivono oltre 50 mila profughi siriani, palestinesi ed iracheni, abbiamo incontrato un associazione che opera contro la violenza sulle donne, mettendo a disposizione, un servizio di prima accoglienza, due avvocatesse e una psicologa. Successivamente ad un primo tentativo di mediazione, accompagnano la donna nella procedura legale e non avendo a disposizione appartamenti protetti, la sostengono nel rientro nella famiglia dei genitori. Alle donne che si trovano in tale situazione di difficoltà, vengono messi a disposizione corsi di formazione professionale, corsi di autodifesa e un sostegno psicologico su come reagire alla violenza in genere dell’uomo. Purtroppo la percentuale di donne che subiscono violenza nei campi profughi è elevata e la donna è culturalmente “abituata” a subire.

All’interno del campo, c’è un alto tasso di disoccupazione innalzatosi con l’arrivo dei profughi siriani che offrono la loro manodopera ad un costo inferiore.

Le controversie anche violente tra le abitanti del campo, vedono l’intervento della polizia giordana solo nei casi in cui si riscontrino episodi di particolare gravità (omicidi). In tutte le altre situazioni esiste una sorta di autogestione dei livelli di conflittualità espressi.

Non è stato possibile visitare il campo a piedi, pur se accompagnati da esponenti operanti all’interno, perché ritenuto pericoloso per la nostra incolumità fisica. Soprattutto per le donne del nostro gruppo. Ci siamo limitati ad attraversarlo a bordo di un pulmino. All’interno dello stesso campo, abbiamo inoltre visitato un centro per disabili in cui 11 maestre lavorano con 157 alunni affetti da diverse patologie. Tale istituzione è sotto giurisdizione dell’UNRWA che non contribuisce in nessun modo economicamente lasciando così il finanziamento a discrezione di lasciti privati. In questo campo oltre alle problematiche sopra descritte, si somma la periodica mancanza d’acqua e di elettricità.

Nel campo di Hittin vivono 90 mila profughi. Il 40 % proviene da Gaza. Abbiamo visitato un centro per bambini in condizione di particolare disagio socio economico gestito da maestre volontarie: il governo giordano ha messo a disposizione solo i locali in cui sono svolte le diverse attività ludico educative. Siamo stati successivamente accolti in un’abitazione in cui vive una famiglia composta da 13 persone che ha messo a disposizione la propria casa perché potessimo renderci conto della drammatica realtà che vivono quotidianamente.

Nei nostri incontri ci è stato ripetutamente chiesto di fare pressioni sul nostro governo perchè queste drammatiche situazioni possano cambiare. A tutti abbiamo spiegato che l’origine di questa barbarie risiede nell’occupazione israeliana e che il nostro governo è uno dei principali partner d’Israele, con  il quale commercia impunemente armi e collabora in campo di ricerca e sviluppo. Abbiamo specificato che la nostra è un organizzazione di opposizione alle politiche del governo.

Nel campo di Husun siamo stati accolti dall’associazione Sanabel, un associazione benefica costituita nel 2000, da un gruppo di giovani che si occupa di: aiuto economico alle famiglie bisognose, assistenza sanitaria, ass. scolastica, progettazione educativa rivolta ai giovani contro l’uso di droga e alcool, tener viva la memoria delle tradizioni culturali palestinesi e propagandare il diritto al ritorno. Successivamente abbiamo assistito ad uno spettacolo teatrale di bambini frequentanti un centro estivo del campo e abbiamo avuto la possibilità di visitare un associazione per donne siriane all’interno della quale vengono svolti corsi professionali in sartoria e cucina. In ultimo, siamo stati ricevuti da un altra associazione benefica finanziata direttamente dalla famiglia reale di giordana che hanno dichiarato di impegnarsi per la causa palestinese.

Non potendo esistere organizzazioni politiche palestinesi all’interno dei campi profughi giordani, questi sono lasciati in balia di se stessi sia per quanto riguarda gli aspetti organizzativi che per la sicurezza interna, Questa caratteristica li rende unici rispetto a quelli esistenti in altri paesi.

Comitato “per non dimenticare il diritto al ritorno” delegazione Giordania.

REPORT DELLA DELEGAZIONE ITALIANA IN CISGIORDANIA

Le visite ai campi profughi e alle città palestinesi continuano. La delegazione per il diritto al ritorno ha preso molto seriamente e a cuore il problema, non vogliamo solo capire ma vogliamo portare in maniera diretta la nostra solidarietà e abbiamo promesso a tutte le personalità che abbiamo incontrato che intensificheremo le nostre campagne di sensibilizzazione in Italia per non far cancellare dall’agenda politica internazionale e nostrana il diritto al ritorno del popolo palestinese alle proprie case e terre.

Il campo profughi di Aida

Questa mattina abbiamo visitato il campo profughi AIDA CAMP vicino a Bethelem costruito nel 1950 per i profughi del ’48. Buona parte del campo confina con il muro, un muro impressionante alto più del doppio del muro che avevamo visto fino ad oggi. Questo campo e abitato da palestinesi indomiti che fanno della resistenza all occupazione sionista uno scopo di vita. Nel 2012 durante l’operazione piombo fuso a gaza ci furono scontri violenti furono bruciati quintali di immondizie e copertoni sotto l’altana di cemento, i soldati per il fumo scapparano e i giovani palestinesi iniziarono la demolizione del muro, durò poco, perchè arrivarono rinforzi e gli scontri divennero impari, venne bombardata anche la scuola li di fontre con morti e feriti, altri giovani si rifugiarono all’iterno della chiesa della Natività. Ricordiamo anche che in questo campo o per lo meno nei pressi sono passati gli ultimi tre papi Woytila, Ratziger, e BerGoglio. Quest’ultimo ha subito pressioni per non passere all’interno del campo, ma ebbe il coraggio di fermari a pregare davanti al muro, un po poco diremmo noi ma comunque un segnale che infastidì i sionisti……. ma questa è storia passata.
Ora da quello che vediamoc’ è un’aria pesante (senza considerare numeri o fatti precisi), uno scontento diffuso sia per le minacce di svuotare l’UNWRA di competenze e soldi sia per la repressione, sia per le nuove colonie illegali abitate da fondamentalisti sionisti particolarmente violenti. Non riconoscre il diritto al ritorno non permetere la costituzione di uno stato palestinese allontana sempre di pù la pace.

Il campo di Shufat

Oggi abbiamo visitato l’ennesimo campo profughi, quello di Shu’fat. Questo campo a pochi kilometri da Gerusalemme è l’unico pezzo di Palestina che congiunge Gerusalemme alla Cisgiordania, infatti tutti intorno alla città ormai ci sono una continuità di colonie israeliane che stanno chiudendo il cerchio per annettere definitivamente tutta l’area e creare così una cinta di insediamenti che estrometterebbero definitivamente i palestinesi da quella che considerano la loro capitale del futuro stato di Palestina.
Nonostante il campo sia nato nel 1966, ad opera di un accordo tra Giordania e ONU per i profughi del ’48 e dopo la grande affluenza di profughi dopo la guerra del 1967, questo insediamento non è coperto ne dall’UNWRA ne da Israele ne dall’Autorità palestinese (di fatto estromessa dagli israeliani) nonostante gli oltre 30.000 profughi che non lasciano il campo per non perdere la carta d’identità di Gerusalemme e il loro stato di profughi anche se sul totale degli abitanti solo 11.000 lo sono riconosciuti ufficialmente profughi. Un vero ginepraio dove il confine tra tragedia e una realta kafkiana è debole. Solo con una gelida analisi si comprende qual’è l’obiettivo dietro a tutto questo, la cacciata definitiva per esasperazione della popolazione per permettere definitivamente l’annessione di tutta l’area di Gerusalemme ad Israele. all’interno del campo la mancanza di controlli e di servizi è palpabile e visibile a occhio nudo; cumuli di immondizia non raccolta, odore di fogne non in grado di recepire tutti gli scarichi, strade sconnesse e senza segnaletica. I ragazzi che ci accompagnano sono i primi a dirci di fotografare e raccontare il degrado. Inoltre, durante l’incontro con le ong che operano all’interno del campo e l’incontro con la deputata del Parlamento palestinese a Ramallah, la d.ssa Jihad, presidente del Women’s Center di Shu’fat, vieniamo a sapere che all’interno del campo da un pò di tempo circola la droga. Ne parliamo direttamente con lei e l’impressione che ne ricaviamo tutti è che nello stato di controllo e repressione che vige in entrata e uscita di merci e persone, la droga può entrare solo se c’è collussione. Tutto questo per la terra santa e promessa ma che a noi sembra solo maledetta…

 

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