Ramallah. “In questo momento è chiaro che ogni via politica per i Palestinesi è chiusa. Mentre il Medi Oriente è in fiamme, per le scorribande dei terroristi dell’Isis, guardati a vista dall’Occidente, noi non siamo una priorità”, pesano come pietre le parole dirette e chiare di Nasser Sharaya, guida del Comitato per non dimenticare il diritto al ritorno, palestinese di Birzeit che non entra a Gerusalemme quando gli viene negato il visto. Siamo nei Territori dell’Autorità Nazionale Palestinese sotto occupazione dell’esercito israeliano ed è difficile pensare ad una soluzione politica: nell’area sotto controllo palestinese ci sono circa 22 check point fissi, più quelli mobili – si aprono e si chiudono a piacere degli israeliani -; un sistema di interruzione delle strade che scientificamente impedisce comunicazioni normali; il 60% dell’area dell’Anp è riservata al settore C, quello sotto il controllo amministrativo e della sicurezza di Tel Aviv, il resto è diviso tra area A, le grandi città (amministrazine e sicurezza palestinese) e quella B, le zone limitrofe alle città (amministrazione palestinese, sicurezza israeliana); un sistema idrico controllato dagli occupanti; 6000 prigionieri politici. la lista della anormalità palestinese è ancora lunga: in sintesi si tratta del metodo politico dell’occupazione, ci spiegano le autorità che incntriamo, dal sindaco di Ramallah, Mousa Abu Hadeed, ai governatori dei distretti di Ramallah e Jenin. in pratica consiste nella ricerca dei modi per soffocare la popolazione: ad Hebron, ad esempio, gli insediamenti illegali dei coloni israeliani va avanti casa per casa. l’avvocato Afif Gatesh, che gestisce il campo profughi di El Fawar, vicino Hebron, ci mostra la scuola della città: sventolano le bandiere israeliane, un soldato assicura che i locali stiano lontani dall’edificio dove i loro figli andavano a scuola fino a pochi anni fa, prima che venisse requisito. non c’è niente da queste parti che faccia pensare alla possibilità di una soluzione politica per lo Stato di Palestina, soprattutto ci sono ben 23 campi profughi, un esercito di 500 mila anime che vivono da rifugiati a casa loro. i campi della Cisgiordania non sono diversi da quelli di tutti gli altri paesi che li ospitano: Siria e Gaza, dove il nostro Comitato non ha avuto la possibilità di entrare, Giordania e Libano, dove altre due delegazioni del nostro Comitato si trovano contemporaneamente alla nostra per portare solidarietà ai profughi e insistere su un obiettivo irrinunciabile, il diritto al ritorno, cuore della questione palestinese. finchè non sarà riconosciuta l’illegalità e il crimine della colonizzazione della Palestina, e il diritto della diaspora palestinese di avere giustizia, non potrà essere chiuso un conflitto che ha massacrato un intero popolo e destabilizzato l’intera area del mediterraneo. come tutti i campi profughi, anche quelli di Cisgiordania hanno strade strettissime, sporche e malsane, una superfice mai superiore ad un chilometro quadrato, palazzi che guardano tristemente verso il cielo, un piano sopra l’altro costruiti via via negli anni, dal 1948 in poi, una vita senza speranza per chi li abita. il 60% è una popolazione giovane. e cominciano ad entrare le droghe: Eman Adawi, si occupa di affari sociali, ci riceve al campo profughi di Jalason, 18mila persone in 800mq, e ci avverte che la questione delle tossicodipendenze è grave, in Palestina ci sono già 84 casi di Aids. chi fa entrare le droghe? qualche volte viene preso qualche piccolo spacciatore ma il problema è molto serio, chi sta tentando di deviare i ragazzi dei campi? e’ una storia che noi conosciamo già, anche l’Italia ha avuto i suoi signori della droga negli anni ’70: fu l’operazione Blue moon a diffondere sostanze stupefacenti tra le nuove generazioni che avevano energie e creatività per affrontare il loro futuro in bene altro modo. negli Stati Uniti la stessa operazione si chiamava Chaos, era organizzata dalla Cia, che poi ha mandato in giro per il mondo i suoi uomini a ripetere lo stesso modulo. ci auguriamo che i giovani di palestina sappiano resistere a questi metodi: la storia dei palestinesi è una grande storia di resistenza e dignità. Ce lo ricorda lo splendito memoriale dedicato a Mohaumud Darwish, il poeta che ha cantato la lotta di liberazione del suo popolo. e’ un bellissimo, enorme monumento costruito accanto alla Moqtada, lo visitiamo commossi, è una sintesi potente di storia e di futuro.
* Comitato per non dimenticare il diritto al ritorno, delegazione in Cisgiordania
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa