La storia di Javier, il medico antifascista partito per la regione contesa tra esercito ucraino e le milizie popolari delle autoproclamate Repubbliche Popolari ostili al governo di Kiev.
Si chiama Javier Benitez Fuentes, ha 24 anni e viene da Bajadoz il capoluogo dell’Estremadura (Spagna). E’ arrivato nelle autoproclamate Repubbliche Popolari della Novorossija (o Nuova Russia) il 20 Febbraio di quest’anno, appena due mesi dopo aver conseguito la laurea in Medicina nell’Ateneo della propria città. La volontà di aiutare con le proprie conoscenze, le proprie capacità ed il proprio impegno un popolo esasperato da oltre un anno di guerra civile, è ciò che lo fatto arrivare in Donbass, la regione che si estende a cavallo tra Ucraina orientale e Russia meridionale e che settant’anni or sono, durante l’Operazione Barbarossa divenne l’incubo delle truppe d’occupazione nazifasciste durante la loro ritirata.
Questa, ci racconta Javier, o Javi, come si fa chiamare, non è la sua prima esperienza di solidarietà internazionale: appena compiuti i 18 anni ha passato l’estate a Lavrio, nel sud-est dell’Attica (Grecia), dove ha lavorato come volontario in un campo di accoglienza per rifugiati politici curdi, iracheni ed afghani. Qui ha potuto vedere con i propri occhi uomini e donne in fuga da terre martoriate da conflitti, le cui responsabilità, a suo avviso, pesano sulle spalle dei paesi occidentali.
Nel suo sguardo ostinato si scorge una viscerale determinazione, la stessa, ci dice lui, che durante la guerra civile del 1936 fece accorre nel suo paese volontari antifascisti dai paesi dell’URSS e dal resto del mondo.
Oggi, a pochi mesi dall’ottantesimo anniversario della fondazione delle Brigate Internazionali, sono molti gli spagnoli, gli italiani, i latinoamericani ed altri, partiti per il Donbass per combattere o, come Javi, per svolgere attività di volontariato.
Come tanti altri coraggiosi ragazzi ha acquistato – a sue spese – un biglietto aereo per Rostov sul Don (Russia meridionale), e dai qui, attraversando in autobus la frontiera russa è arrivato ad Alcevsk, uno dei principali centri urbani dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Lugansk.
Alla sua partenza aveva messo in conto che per mesi avrebbe potuto essere l’unico occidentale tra russi, ucraini, moldavi, kazachi ed altre etnie dell’ex Unione Sovietica, un pezzo di mondo dove la conoscenza delle lingue occidentali è assai poco diffusa: oltre a doversi districare tra le insidie di una guerra civile avrebbe dovuto fare i conti con la problematica linguistica, che in certe situazioni può sembrare insormontabile. Invece, nella stazione degli autobus di Alcevsk il suo destino si è incrociato con quello di Eloy, un altro spagnolo che, lavorando da tempo in Russia e conoscendone bene la lingua, un po’ come Javier – e tanti altri – non è riuscito a stare a guardare, ed è arrivato in Donbass per partecipare al lavoro di volontariato e solidarietà.
Dopo essersi conosciuti nel gelo infernale del Donbass, con un lavoro congiunto hanno potuto essere d’aiuto sia alle persone ferite durante i bombardamenti ucraini, sia a quelle già indebolite da problemi di salute, dai più banali ai più seri, che la guerra ha naturalmente aggravato e reso talvolta insostenibili, rendendo talvolta impossibile, ci racconta Javier, procurarsi farmaci per il trattamento di numerose patologie cardiologiche e respiratorie, del diabete e dell’epilessia.
Nel corso dell’inverno, problemi di questo genere erano assai più complessi lontano dai centri urbani delle neonate Repubbliche Popolari insorte contro gli esiti delle proteste di Piazza Maidan: il gelo della steppa, il manto stradale ridotto in frantumi dai cingoli dei carri armati e polverizzato dalle esplosioni, i posti di blocco, ed i costanti combattimenti, hanno reso per lunghi periodi assai difficoltoso l’arrivo di rifornimenti nei villaggi sparsi nelle campagne. In uno di questi, quello di Kommissarovka lo abbiamo incontrato e conosciuto per la prima volta in una delle basi della “famigerata” Brigata Prizrak (in russo: fantasma) del comandante Alexey Mozgovoi, al quale nel maggio scorso un’imboscata non ha lasciato spazio. In questa base, ha prestato assistenza alle persone del villaggio ed ai miliziani feriti sulla “linea del fuoco”, ad appena quattro, cinque chilometri, dove lui stesso è stato più volte per fornire primo soccorso ai ribelli feriti.
Il suo impegno ha ricevuto il supporto di alcuni comitati a sostegno del Donbass della penisola iberica e della Carovana di Solidarietà promossa dalla Banda Bassotti, che insieme a cento antifascisti provenienti da tutto Europa, ha fatto arrivare in Donbass chili e chili di farmaci ed aiuti umanitari.
Ad oltre un anno di distanza dal suo inizio la guerra tra esercito ucraino e milizie della Novorossija non accenna a volgere al termine: nonostante la tregua che vige tra le parti coinvolte nel conflitto, il Donbass viene da mesi bombardato quotidianamente dall’artiglieria ucraina. Le corsie degli ospedali, come le sale degli obitori continuano ad essere tragicamente affollate. Javi, lo sa molto bene, ma sorride con la tranquillità di chi è conscio della propria scelta, farà ritorno nella propria terra, ci dice solo quando il tempo avrà lavato delle steppe del Donbass il sangue della prima guerra civile europea del XXI° secolo.
Foto 1 – Javier Benitez Fuentes, “Javi”
Foto 2 – Uno dei luoghi dove ha prestato servizio medico Javier, l’ospedale militare di Donetsk
Foto 3 – Un’ambulanza crivellata di colpi. Le decine di fori dei proiettili sono stati coperti alla meglio con dello stucco
Foto 4 – Al centro di traumatologia di Donetsk un bimbo ferito dall’artiglieria ucraina durante i bombardamenti dell’esercito ucraino
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marco
scusate…. ma perché nell’articolo la gloriosa brigata “prizak” è definita famigerata?