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Mosca avvisa Erdogan: “non sarà solo embargo commerciale”

Per qualche tempo, dopo il colpo di stato sponsorizzato dalla Nato in Ucraina e il conseguente inasprimento dell’accerchiamento economico e militare della Russia da parte di Stati Uniti ed Unione Europea, Mosca ha considerato la Turchia una possibile sponda contro l’isolamento commerciale e, soprattutto, per sostituire i paesi europei che sulla spinta delle pressioni dell’Ue ritiravano la propria disponibilità a permettere il transito sul proprio territorio delle pipeline che avrebbero dovuto trasportare in Europa il gas russo.

All’epoca, quando Ankara era un potenziale partner, al Cremlino si decise di mettere da parte i tradizionali motivi di attrito. Ad esempio il ruolo del governo islamista turco nel finanziamento e nella protezione dei terroristi del Caucaso che hanno dato per anni filo da torcere alla Russia, provocando stragi in numerose città e combattendo le forze di sicurezza russe in Cecenia ed in Daghestan. Anche sul fronte economico-commerciale, per anni la Turchia ha cercato, all’interno del suo progetto neo-ottomano, di inglobare nella propria area di influenza le repubbliche turcofone dell’Asia Centrale prima appartenenti all’Unione Sovietica, entrando così in conflitto con gli interessi russi nell’area. Per non parlare dell’oggettivo conflitto rappresentato dal fatto che, mentre Mosca sosteneva l’Iran e la Siria contro la destabilizzazione sunnita e occidentale, gli islamisti turchi al potere appoggiavano i ribelli jihadisti di varie fazioni, Stato Islamico compreso. A lungo – stiamo in realtà parlando solo dell’ultimo anno – il Cremlino ha fatto buon viso a cattivo gioco: evidentemente le potenzialità rappresentate da una collaborazione geopolitica ed economica con la Turchia, preziosa per spezzare l’accerchiamento di Ue, Usa e Nato, avevano convinto il Cremlino a soprassedere sui numerosi fattori di contrapposizione. Che invece, improvvisamente, sono attualmente al centro di una crisi senza precedenti tra i due paesi, deflagrata dopo un intervento diretto delle forze armate russe in Siria che ha scombinato i piani turchi nel paese. La presenza delle truppe russe, infatti, rende assai improbabile, e oltremodo rischiosa, la creazione di una zona cuscinetto e di una no fly zone nel nord della Siria, e quindi in definitiva impedisce la spallata finale al governo di Damasco. La tensione, già alta a causa dell’inizio dei bombardamenti russi sulle postazioni di Daesh e di altri gruppi fondamentalisti foraggiati da Ankara, è salita alle stelle dopo l’abbattimento di un caccia di Mosca in territorio siriano, una azzardata e isterica ritorsione contro la decisione del Cremlino di colpire sistematicamente i convogli di autobotti che trasportano in Turchia il greggio estratto da Daesh in Siria ed Iraq.
Il livello della contrapposizione tra Ankara e Mosca è salito come mai era accaduto neanche nel corso della Guerra Fredda, quando la Turchia era il bastione in Medio Oriente dell’Alleanza Atlantica. A far andare su tutte le furie il presidente turco Erdogan e il suo staff è stata l’accusa, rivolta dal Cremlino proprio al “sultano” e alla sua famiglia, di sostenere Daesh allo scopo di arricchirsi attraverso il traffico di petrolio con i jihadisti. Un’accusa corredata da foto, rilevazioni satellitari, documenti snocciolati dai generali russi nel corso di una contundente conferenza stampa.
Mentre il primo ministro turco Davutoglu rispolverava i vecchi toni anticomunisti – “Mi è sembrato di tornare all’infanzia e di rivedere la macchina della propaganda sovietica” – il ‘sultano’ Erdogan ha definito “immorali” e “calunniose” le accuse dei vertici militari russi. Colpito nel vivo, il leader della Fratellanza Musulmana turca è giunto ad affermare di essere in possesso di prove inoppugnabili che dimostrerebbero che in realtà è proprio il governo russo, attraverso alcuni noti imprenditori, ad acquistare sottocosto il petrolio smerciato dal califfato. 

Ma i generali russi hanno spiattellato ciò che in realtà tutte le cancellerie del pianeta e tutti i servizi di intelligence sanno, e da molto tempo: il governo turco sostiene i jihadisti di Daesh, e non solo acquistando il loro petrolio. In Turchia non si contano i giornalisti, i militari, i poliziotti e i magistrati morti o finiti in carcere per aver osato indagare sui legami tra Ankara e i fondamentalisti. Gli ultimi e più eclatanti casi sono quelli di Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet, arrestato lo scorso 26 novembre assieme al capo della redazione di Ankara, Erdem Gül, accusati di “spionaggio”, di “divulgazione di informazioni coperte da segreto di stato” e di “propaganda a favore di una organizzazione terroristica”. La loro ‘colpa’ è quella di aver rivelato, nel maggio scorso, notizie fino a quel momento top secret a proposito del sequestro e della perquisizione di alcuni camion appartenenti ai servizi segreti turchi (il Mit) che trasportavano armi dirette ai cosiddetti ‘ribelli siriani’. Dopo il blocco delle indagini da parte del governatore di Adana e la restituzione dei camion agli agenti del Mit, numerosi agenti e ufficiali di polizia sono stati espulsi o messi sotto processo. Sabato scorso tre alti ufficiali turchi – il generale Ibrahim Aydin, comandante della Gendarmeria regionale di Ankara, il generale di brigata Hamza Celepoglu, ex comandante della Gendarmeria Regionale di Adana, e il colonnello Burhanettin Cihangiroglu, ex capo della Sezione Criminale della Gendarmeria – sono stati arrestati perché accusati di ‘alto tradimento’ in merito al loro ruolo nel sequestro dei camion pieni di armi diretti ai jihadisti in Siria. Questo mentre nel paese è stato ordinato alla stampa il divieto di diffondere immagini e informazioni riguardanti la vicenda. E, come se non bastasse, nei giorni scorsi gli ispettori della polizia tributaria si sono presentati negli uffici del quotidiano Cumhuriyet accusandone la direzione  di frode fiscale…
I ministri degli esteri russo Lavrov e quello turco Cavusoglu si sono brevemente incontrati a margine della conferenza dell’Ocse in corso a Belgrado, dopo che Putin ha rifiutato di rispondere alle chiamate di Erdogan e di incontrarlo a Parigi a margine della conferenza dell’Onu sul clima.

Ma Mosca sembra non avere alcuna intenzione di bloccare le ritorsioni nei confronti della Turchia. Dopo la decisione di bandire le importazioni di frutta e ortaggi turchi in Russia e di ripristinare i visti per i cittadini di Ankara, è arrivata dal ministro dell’Energia di Mosca Aleksandr Novak la conferma della sospensione dei negoziati per la realizzazione del gasdotto Turkish Stream. Come ulteriore forma di punizione, il governo russo potrebbe anche bloccare il progetto per la costruzione della prima centrale nucleare turca.
“La cricca al governo in Turchia si pentirà di ciò che ha fatto (…) Non dimenticheremo mai chi ha sparato alla schiena dei nostri piloti” ha tuonato Vladimir Putin tra gli applausi dei parlamentari della Duma. E poi ha rincarato la dose, dando di fatto del matto al leader turco: «Forse solo Allah sa perché l’hanno fatto e probabilmente Allah ha deciso di punire la cricca turca al potere facendole perdere la ragione». «Se qualcuno pensa di cavarsela per un crimine di guerra così vile con il bando dei pomodori o con sanzioni nelle opere pubbliche, si sbaglia gravemente» ha garantito il leader del Cremlino. Mentre ad Ankara si vocifera di un imminente blocco del transito delle navi russe dallo Stretto dei Dardanelli e si procede al rafforzamento delle milizie turcomanne in Siria, il governo di Mosca ha già rafforzato le relazioni con i curdi delle Ypg (obiettivo degli attacchi dell’esercito turco) la cui avanzata ora è coperta dal cielo non più solo dai raid statunitensi, ma anche da quelli dei Sukhoi russi.
Visto che Ankara dipende al 60% dalle forniture energetiche russe, Erdogan e il suo primo ministro hanno già bussato alle porte del Qatar e dell’Azerbaigian per assicurarsi di non rimanere a secco.
Erdogan e Davutoglu fanno la voce grossa, ma l’escalation impressa alle già tese relazioni con la Russia contribuisce ad accelerare l’isolamento della Turchia. 
L’Akp avrà pure ripristinato il suo potere all’interno attraverso il terrorismo di stato e la repressione contro i curdi, le sinistre, il movimento di Gulen e la stampa, ma sul fronte internazionale Ankara non ha più amici veri e solidi. Neanche l’accordo chiuso alcuni giorni fa da una cinica Unione Europea con Ankara – 3 miliardi di euro, la definizione di “paese sicuro” e la riapertura delle procedure per l’avvicinamento a Bruxelles in cambio del controllo e del ‘contenimento’ dei flussi migratori – servirà a bilanciare la distanza ormai crescente tra gli interessi, gli obiettivi della Turchia e quelli del tradizionale protettore, Washington. Se è vero che in questi giorni l’amministrazione Obama ha spalleggiato l’esecutivo dell’Akp nella diatriba con Mosca sull’abbattimento del Sukhoi e sul traffico di petrolio con i jihadisti, è altrettanto vero che Washington ha il dente avvelenato con il partner anatolico. Che a lungo ha negato le sue basi ai bombardieri statunitensi, che continua a pretendere da Obama il via libera all’invasione della Siria, che seguita a sostenere Daesh nonostante la pressante richiesta americana di abbandonare la ormai troppo ingombrante e pericolosa pedina.
Scrive efficacemente oggi Alberto Negri: “Nel 2013 Erdogan voleva espellere l’ambasciatore Usa ad Ankara Francis Ricciardone e accusava gli Stati Uniti di guidare la «lobby dei tassi di interesse». La stessa vicenda dell’Imam Fethullah Gulen, in esilio in America, rientra nelle tensioni tra Ankara e Washington: c’è stato il tentativo di incrinare dall’interno il potere di Erdogan e del partito islamico l’Akp ed è andato male. Al punto che la Turchia ha persino minacciato di acquistare missili dalla Cina. Se la Nato volesse difendere davvero il presidente turco non avrebbe ritirato i Patriot. La verità è che gli Stati Uniti non si fidano di lui, altrimenti Obama non gli ha avrebbe chiesto di chiudere i confini con la Siria, cosa che peraltro i turchi si rifiutano di fare.” 

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