Lunedì scorso con la proclamazione del cessate il fuoco tra tutte le parti in conflitto (tranne lo Stato Islamico e al Qaeda, ovviamente, che si scontrano tra di loro per la conquista dell’egemonia sul fronte jihadista) la situazione nel martoriato Yemen sembrava stesse volgendo al meglio. Ma in questi giorni le violazioni sono state numerosissime, e per ora la prospettiva prevalente sembra quella di una continuazione ‘a bassa intensità’ della guerra civile trasformatasi in conflitto regionale dopo il massiccio coinvolgimento delle potenze sunnite a sostegno del governo fantoccio del presidente Hadi. In questi giorni non sono mancati i raid sauditi contro alcune città controllate dai ribelli nel centro del paese, mentre a Nord gli Houthi ne hanno approfittato per allargare i territori da loro controllati.
Il cessate il fuoco proclamato all’inizio della settimana è propedeutico all’apertura del negoziato, prevista per il 18 aprile in Kuwait, e che nell’intenzione del mediatore dell’Onu dovrebbe affrontare 5 questioni assai spinose: il ritiro delle milizie sciite dalle città occupate nei mesi scorsi, la consegna delle armi, la gestione della sicurezza interna, la ristrutturazione delle istituzionali statali di fatto in mano esclusivamente alla componente sunnita della popolazione, la creazione di un comitato che porti alla liberazione dei prigionieri.
Sull’avvio del negoziato pesa il sostanziale sostegno da parte dell’Onu alla strategia aggressiva dell’Arabia Saudita, dell’Egitto e delle altre petromonarchie che, di fronte alla prospettiva di una vittoria dei ribelli Houthi dopo la sollevazione del febbraio 2015, hanno prima scelto la via di una massiccia campagna di bombardamenti navali e aerei contro gli sciiti e il settore delle forze armate fedele all’ex presidente Saleh (anch’egli in rotta con Hadi che era il suo vice prima della sua destituzione nel 2012) e poi addirittura di un’invasione e di un’occupazione militare che però ha rivelato la debolezza di Riad.
Migliaia di soldati (per lo più mercenari) inviati dall’Arabia Saudita, dal Qatar, dagli Emirati Arabi Uniti e dal Sudan, con il sostegno del Cairo, e i soldi e le armi regalati alle truppe leali ad Hadi non sono bastati per schiacciare la ribellione sciita che ha dato filo da torcere agli invasori mentre la popolazione del paese, già la più povera di tutta l’area, ha pagato un tributo altissimo in termini di morti, feriti, sofferenze. Grazie a bombardamenti indiscriminati e sanguinosi soprattutto contro la popolazione civile, i lealisti sono riusciti a riconquistare lo strategica città portuale di Aden ma non la capitale Sana’a, che rimane sotto il controllo dei ribelli. L’ultimo sanguinoso bombardamento risale al 15 marzo scorso quando i caccia sauditi ed emiratini hanno sganciato tonnellate di bombe sul mercato della cittadina di Mastaba causando quasi 100 vittime civili.
Alle prese con serie difficoltà economiche (la spregiudicata guerra del petrolio condotta contro gli altri produttori e l’industria dello shale oil degli Stati Uniti ha obbligato i sauditi a tagliare le spese), impotente di fronte alla fine delle sanzioni internazionali contro l’Iran e dopo aver visto i propri piani frustrati parzialmente in Siria dall’intervento militare russo, re Salman ora ha dovuto implicitamente ammettere l’impossibilità di avere del tutto la meglio sugli Houthi. E alla fine ha dovuto accettare il cessate il fuoco e l’inizio di una trattativa con gli odiati miliziani sciiti supportati, anche se senza particolare impegno, proprio da parte di Teheran.
Pur di mantenere l’egemonia nel paese – fondamentale per quanto riguarda il controllo delle rotte petrolifere verso l’Europa – Riad potrebbe addirittura sacrificare il presidente Hadi e parte del suo entourage a favore di un altro esponente dell’oligarchia sunnita meno inviso alle controparti. E’ quanto ha esplicitamente chiesto all’Arabia Saudita l’amministrazione statunitense, che punta a far calare la tensione nell’area e al tempo stesso a ridimensionare le pretese da ‘grande potenza’ della petromonarchia che negli ultimi anni ha spesso avuto un atteggiamento conflittuale e competitivo nei confronti di Washington e dei suoi interessi.
L’Arabia Saudita si lecca le ferite e tenta ora di mantenere un controllo relativo della situazione evitando una spaccatura del paese che consegnerebbe il nord agli sciiti.
Per cercare di evitare la defenestrazione e cedendo alle forti pressioni saudite il presidente fantoccio ha già sostituito il suo vice nonché primo ministro con un generale molto influente nel nord dello Yemen e con un rappresentante delle élite del sud, dove cresce l’influenza dei movimenti che puntano apertamente all’indipendenza da Sana’a. Entrambi vengono descritti dalla stampa araba come due ex appartenenti all’entourage dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, attualmente alleato con gli Houthi contro il governo. E’ evidente il tentativo di separare il fronte avversario puntando a una riunificazione del fronte sunnita allo scopo di isolare gli sciiti.
Questo mentre nel sud aumenta l’influenza dello Stato Islamico e soprattutto di Aqap, Al Qaeda nella Penisola Arabica, che ora controlla un vasto territorio nelle zone sud-orientali del paese. Aqap si è di fatto impossessata della città portuale di Mukalla, che con i suoi 500 mila abitanti è diventata di fatto la capitale di un emirato che, a causa del tracollo delle istituzioni statali e della guerra civile, potrebbe ulteriormente espandersi.
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