Osservatori delle vicende afghane hanno diffuso dati relativi alle entrate finanziarie registrate dal governo di Kabul. Sorprendentemente, visto il caos in cui versa il Paese, nei primi sei mesi del 2016 si riscontra un incremento di oltre l’11% rispetto all’anno precedente, si passa dal 22% al 33.3%. Immediata giunge la precisazione che questo non determina alcun segnale di salute dell’economia interna che resta bloccata oppure svenduta per i vantaggi di multinazionali straniere che offrono cifre non certo stratosferiche in cambio dello sfruttamento di talune risorse, ad esempio nel settore minerario. Il surplus è frutto del pagamento di talune tasse, fra cui quella di sorvolo versata per intero dall’aeronautica militare americana e conseguente all’attività delle nove basi strategiche allestite in questi anni. Seguono le somme incamerate dalla vendita a privati di terreni del demanio e un certo rientro della cifra (circa un miliardo di dollari) scomparsa dalla Kabul Bank in occasione dello scandalo del 2010. Altre entrate vengono dalle ricariche telefoniche, nonostante la diffusa povertà la metà della popolazione afghana è dotata di telefono cellulare e l’utilizza quotidianamente. I gestori telefonici sono stranieri (statunitensi, sauditi, iraniano) ma sulle ricariche introita Kabul.
Le entrate hanno galleggiato sul raddoppio da 2% al 4% dell’imposta per il business che coinvolge importazioni, vendite, contratti e su un incremento fiscale del 10% per le telecomunicazioni (aumenteranno le tariffe dei cellulari?), quindi sulla riscossione di tributi sul reddito dipendente con ritenute alla fonte degli stipendi impiegatizi. Hanno concorso all’incremento delle entrate anche tutta una serie di accordi stipulati dalla presidenza Ghani con la World Trade Organization, con taluni programmi del Fondo Monetario Internazionale e coi patti di collaborazione proposti dai giganti dei prestiti che chiedono in cambio un controllo politico-economico della nazione aiutata. L’esempio più illustre è l’Usaid. Quest’impegni saranno monitorati anche nella Conferenza Internazionale sull’Afghanistan prevista il 5 ottobre prossimo a Bruxelles, in cui i Paesi donatori (e in tanti casi occupanti affiliati alla Nato) analizzeranno gli sviluppi di nuovi piani che s’innestano su quelli antichi avviati con l’Enduring Freedom. Ricordiamo come nei quattordici anni di “attenzione” occidentale alle vicende afghane, sviluppatisi anche con la missione Isaf, sono stati spesi 4500 miliardi di dollari.
Di questi 357 miliardi erano orientati verso spese civili, quasi nulla per i servizi (infrastrutture, ospedali, scuole), il resto è stato speso per operazioni belliche seminatrici di morte fra la stessa popolazione. L’ultima assise della Nato, svoltasi a Varsavia nel luglio scorso, ha quantizzato in 4.5 miliardi di dollari l’anno, fino al 2020, il sostegno per l’Afghan Security Force: si continua a perseverare su un’iniziativa che rappresenta uno dei buchi nell’acqua più grossi compiuti dal Pentagono in quel Paese. Comunque, al di là d’una tendenza favorevole ma passeggera nelle entrate, l’economia afghana conserva una debolezza cronica, priva di prospettive per investimenti e occupazione. Ultime proiezioni del Fmi stimano un Pil dello 0.8% che potrebbe salire al 2%, ma questi calcoli sembrano solo ipotetici. Dietro una presunta normalizzazione basata su governi fantoccio, come sono stati i due mandati amministrativi di Karzai e l’attuale di Ghani, la tendenza internazionale è quella di usare il territorio per interessi geostrategici da parte statunitense e per la rapina mineraria a opera di aziende occidentali e cinesi. Entrambe lasciano l’area priva di autodeterminazione politica ed economica che può vivere solo di protezione e sostegno esterni. Una doppia umiliazione dopo decenni di occupazione.
Enrico Campofreda
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