Un Rutte salva l’Olanda e l’Unione Europea? A leggere le cronache, zeppe di dichiarazioni alimentate da un grande sospiro di sollievo, sembrerebbe di sì. A leggere i dati elettorali reali, invece, l’impressione è un po diversa.
Gli xenofobi di Geert Wilders non hanno fatto il temuto pieno, ma hanno guadagnato appena 5 seggi in più (20) rispetto alle precedenti elezioni, passando dal 10,1 al 12,6%. Vene il sospetto che le paure siano state alimentate ad arte, nei mesi precedenti, in modo da poter presentare il risultato attuale come uno stop non tanto al “populismo”, quanto alla serie di risultati shokkanti inanellati dall’establishment occidentale nel 2016 (Brexit, Trump e referendum italiano, senza dimenticare quello greco del luglio 2015, subito tradito da Tsipras).
Stesso discorso per le due elezioni più attese dell’anno – Francia e Germania – dove i mostri da battere (Marine Le Pen e Alternative fur Deutschland) hanno ben poche chance di vincere davvero.
Odiamo i nazisti dell’Illinois e dunque anche quelli di Rotterdam o dintorni. Ma ci sembra che alcuni particolari vadano evidenziati, proprio perché cancellati dai commentatori mainstream.
L’Olanda, proprio come la Francia e la Germania, è uno dei paesi economicamente più forti dell’Unione Europea, uno di quelli che ha più guadagnato dal poter “competere” ad armi impari (sistema industriale più avanzato, filiere integrate con quelle tedesche) con i paesi mediterranei, sfruttando al meglio una moneta unica che non tiene conto di differenze strutturali pesantissime.
La crisi economica globale, giunta ormai al decimo anno, ha colpito anche i Paesi Bassi, naturalmente. Ma la posizione particolare occupata nel dispositivo europeo le ha consentito di limitare i danni. Il partito di Wilders ha raccolto da destra quel tanto di malessere sociale comunque emerso, ma questo non aveva le dimensioni critiche necessarie a creare un vero pericolo, specie in presenza di opzioni politiche che hanno conteso tale egemonia (i Verdi, gli antirazzisti di sinistra del DENK ed il Partito Socialista). Tanto più in un paese con una legge elettorale proporzionale, che obbliga da sempre a comporre delle coalizioni per garantire un governo. Paradossalmente, Wilders sarebbe stato più favorito da un sistema maggioritario, che consente di polarizzare al massimo le posizioni.
L’afflusso dei votanti, oltretutto, è stato stavolta altissimo, depotenziando al massimo il bacino “militante” raccolto intorno agli zenofobi. Un’altra riprova del fatto che quando la gente va a votare, in misura anomala e inattesa (e sempre più indesiderata), spariglia i giochi disegnati dai sondaggi.
In realtà quel che caratterizza queste elezioni è l’esplosione del sistema politico olandese, che esce frantumato come non mai in precedenza. Il partito conservatore di Rutte (Vvd-Alde) è rimasto, sì, il primo partito, ma ha lasciato per strada 10 seggi e 6 punti percentuali (dal 26,6 al 20,6%). Se questa è una “vittoria”, figuriamoci cosa può essere una sconfitta.
Che è poi quel che ha dovuto sperimentare il Partito Laburista (PvdA), praticamente dissolto, precipitato dal 24,8 al 6% (sei!), con appena 9 parlamentari al posto dei 38 che aveva in precedenza. Il PvdA segue così la sorte di tutti gli altri partiti social-liberisti, che pagano la contraddizione palese tra politiche di austerità e “idealità” sociale sbandierata. In pratica i due partiti che per decenni avevano rappresentato le colonne portanto del sistema – conservatori e laburisti – non raggiungono insieme nemmeno il 30%. Tant spazio per gli outsiders, dunque…
Diciannove deputati, infatti, per i cristian- democratici (Cda, sicuri alleati di Rutte nel governo) e i “liberali di sinistra” del D66, che guadagnano rispettivamente 6 e 7 seggi (parte di quelli persi dai conservatori e dai “socialisti”). Esplode il consenso per i Verdi guidati da Jesse Klaver (che in Olanda sono molto più a sinistra dei colleghi tedeschi), passati da 4 a 14 parlamentari e dal 2,3 al 10,7%. Tiene il Partito Socialista (che subisce una lieve contrazione percentuale – dal 9.6% al 9.2% – ma mantiene comunque 14 parlamentari), formazione della sinistra radicale (iscritta al gruppo del GUE/NGL in Europa) caratterizzata da posizioni moderatamente euroscettiche, fortemente critiche delle attuali politiche di austerità. Per il “Partito del Pomodoro”, un risultato in linea con quello delle precedenti consultazioni (2010 e 2012), lontano, tuttavia, dai picchi del 2006 (14.7%). Influisce, sicuramente, il successo dei Verdi; tuttavia, la sensazione è quella di una difficoltà a spostare, su posizioni di sinistra, il crescente sentimento anti-UE.
Entrano in parlamento anche gli antirazzisti di Denk, movimento fondato da due deputati turco-olandesi usciti dal partito socialista in polemica con le politiche di “controllo dei movimenti islamisti” sostenute dal vertice; una dimostrazione di come la contrapposizione con Erdogan, voluta da Rutte negli ultimi giorni, abbia rivelato una immigrazione turca niente affatto "di destra" o innamorata del "sultano".
Come si vede, dunque, il piccolo parlamento olandese è composto da sette partiti tutti oscillanti tra il 10 e il 20% dei voti. Per ora, insomma, la “diga” ha tenuto. Ma le crepe si sono moltiplicate. E parecchio…
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