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Caso Khashoggi: quel brutto pasticcio tra Arabia Saudita e Stati Uniti

Il 2 ottobre Jamal Khashoggi, giornalista saudita residente negli Stati Uniti, è a Istanbul. L’uomo, 60 anni, si è recato nella capitale turca perchè deve sposarsi. Vive auto-esiliato negli Stati Uniti, dove collabora con il Washington Post, dopo aver criticato il principe ereditario Mohammed Bin Salman. Teme una ritorsione nei suoi confronti.

Intorno alle 13 si reca al consolato saudita, gli servono dei documenti. Da quel momento sparisce.

La fidanzata turca e lo stesso Washington Post si attivano, iniziano a chiedere sue notizie.

Fonti vicine al presidente turco Erdogan comunicano che, secondo informazioni in loro possesso, Khasohggi è ancora dentro al consolato.

Sono passate ventiquattro ore. La diplomazia saudita dichiara che il giornalista è scomparso dopo essere uscito dal consolato, ma Istanbul continua a sostenere la tesi che l’uomo si trovi ancora all’interno della palazzina.

Lo stesso principe ereditario saudita interviene, sostenendo che Khasohggi sia uscito dopo circa un’ora.

Il 6 ottobre – sono passati già quattro giorni dalla sua sparizione – fonti di intelligence turca iniziano a diffondere la notizia che il giornalista saudita sia stato ucciso all’interno del consolato da un commando di agenti giunti da Riad.

Vengono mostrate foto e video di quindici persone, tra cui sono riconoscibili personaggi noti (militari, agenti, un medico esperto di autopsie) vicini al principe ereditario.

Il 7 ottobre il Washington Post diffonde la notizia che Khashoggi è stato ucciso, fatto a pezzi e portato via dal consolato dentro alcune casse.

Il 9 ottobre l’Arabia Saudita autorizza perquisizioni ed indagini all’interno del consolato. Si parla di un possibile rapimento. Il Post afferma di essere a conoscenza di un piano saudita, noto ai servizi USA, che prevedeva il rapimento e la deportazione a Riad.

Erdogan chiede che siano consegnati i video che provano l’uscita dell’uomo dal consolato, i sauditi dichiarano che “quel giorno le telecamere non erano in funzione”.

Secondo il Post, la Turchia è in possesso di registrazioni che dimostrano che Khashoggi sia stato torturato e ucciso nel consolato.

Cominciano le reazioni a livello internazionale: il miliardario Richard Branson, fondatore del gruppo Virgin, blocca progetti di investimento in Arabia Saudita. Christine Lagarde, già a capo del FMI, decide di disertare il “Future Investment Initiative” in programma a fine ottobre a Riad.

I sauditi negano ogni responsabilità, e finalmente interviene Trump.

Siamo arrivati al 13 ottobre: sono passati undici giorni dalla scomparsa di Khashoggi che, ricordiamolo, vive negli Stati Uniti e collabora con un giornale statunitense.

L’Arabia Saudita è un alleato forte degli americani, e l’amministrazione Trump è tra quelle più vicine a Riad.

Ma il presidente statunitense non può non intervenire, e lo fa: minaccia sanzioni nel caso venga provata la colpevolezza dei sauditi, ma intanto non blocca la vendita delle armi.

Nel frattempo invia Mike Pompeo, il segretario di stato, a Riad.

Tra il 15 e il 16 ottobre la polizia turca effettua la perquisizione: otto ore di attività di indagine.

La CNN afferma che Riad stia preparando un documento che sosterrebbe che Khashoggi è morto in seguito ad un interrogatorio “finito male”.

La stampa turca rivela particolari della morte dell’uomo: sono agghiaccianti.

Il giornalista saudita sarebbe stato torturato, poi decapitato, infine sezionato. Il tutto ascoltando musica, e alla presenza del console.

Trump è in difficoltà: la stampa statunitense, Washington Post in testa, chiede un suo intervento, accusandolo di voler “coprire” l’alleato saudita. Chiede di aver accesso alle registrazioni, dichiara di aspettarsi che tutto si chiarisca entro la settimana. Attende un rapporto di Pompeo, e nel frattempo alterna minacce di sanzioni (a cui Riad ha dichiarato di voler reagire) a toni concilianti.

La polizia turca ha iniziato a perlustrare una zona boschiva fuori città dove potrebbe essere stato seppellito il cadavere.

Questa la cronaca.

Una vicenda che dice molto, e che potrebbe avere conseguenze importanti a livello strategico.

Che l’Arabia Saudita fosse un paese in cui la democrazia, il rispetto dei diritti, la tolleranza del dissenso fossero inesistenti era noto. Non c’era bisogno di questa spy story splatter, ma certamente questa vicenda aiuta a ricordare di che pasta sia fatta la monarchia saudita, e sopratutto quanto grande sia l’ipocrisia di chi continua a farci affari, Italia compresa.

Che gli Stati Uniti abbiano forti interessi a tenere in piedi l’alleanza con Riad è altrettanto risaputo: interessi simili, obiettivi comuni in Medio Oriente, nemici condivisi.

Ma se fosse confermata, questa storia non potrebbe essere fatta scivolare nel dimenticatoio: troppa pressione da parte della stampa americana, troppa visibilità, troppe implicazioni. Siamo in Turchia, altro protagonista delle dinamiche economiche e politiche mediorientali. Erdogan ha la possibilità di mettere a profitto tutto questo, e non abbiamo dubbi che lo farà.

Molto di quello che può accadere dipende da Trump, al netto degli esiti delle indagini della polizia turca.

Occhi aperti su quello che sta succedendo a Istanbul.

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