Lasciare l’Unione Europea per vie legali è più complicato che entrarvi, pare. Le polemiche nel governo conservatore britannico dimostrano che il tessuto connettivo degli affari è molto più resiliente di quanto la politica più prona al business – quella dei conservatori, appunto – potesse sospettare.
Secondo Michel Barnier, capo negoziatore della Ue, “è un momento molto importante. L’accordo concordato è giusto ed equilibrato, assicura le frontiere dell’Irlanda e getta le basi per un’ambiziosa relazione futura. Ma abbiamo ancora una lunga strada davanti, con un lavoro intenso da fare, e non c’è tempo da perdere”. Il che dà anche la misura di quanto la Ue – vero e proprio “comitato d’affari del capitale multinazionale” attivo sul Vecchio Continente – abbia saputo far pesare gli interessi “hard”.
Il presidente del Consiglio europeo, di conseguenza, il polacco Donald Tusk, ha annunciato che un vertice straordinario sull’accordo è stato convocato per il 25 novembre, alle 9,30.
Al contrario, la premier inglese Theresa May ha tenuto insieme con molta difficoltà il suo governo, in cui almeno un terzo dei ministri è in aperto dissenso con la bozza d’accordo, pur votando a favore. La stessa May ha annunciato che la decisione è stata presa “collettivamente”, ma dopo ben 5 ore di riunione; non è stata comunque una cosa “leggera”, ed è passata soltanto come il migliore accordo possibile “nell’interesse nazionale”, perché consente di “recuperare il controllo” di alcuni poteri fondamentali (non di tutti), mentre l’alternativa sarebbe stata “tornare alla casella numero 1”. In quel caso, però, il governo conservatore si sarebbe dimostrato incapace di adempiere al mandato referendario che aveva deciso la Brexit.
Sono passate però solo poche ore che già il governo di Londra ha cominciato a perdere i pezzi. Si sono infatti dimessi il ministro per la Brexit Raab e il sottosegretario britannico per l’Irlanda del Nord, Shailesh Vara, annunciate quest’ultimo via Twitter. Subito seguiti da la sottosegretaria alla Brexit Suella Braverman e dalla ministra del lavoro Esther McVey.
Raab, per il suo ruolo, era stato figura chiave nell’ultima fase dei negoziati e un ‘brexiteer’ della prima ora. Ma ora afferma di non poter “sostenere in buona coscienza i termini dell’accordo con l’Ue proposto”. Nella sua lettera di dimissioni indirizzate alla premier Theresa May afferma di “comprendere” i motivi per i quali il governo abbia deciso a maggioranza di sposare la bozza d’intesa e di “rispettare il diverso punto di vista” espresso che ha spinto la premier e “altri colleghi” a dare il via libera al testo “in buona fede”. Personalmente, afferma tuttavia di non poter accettare un accordo che a suo dire nella soluzione proposta per l’Irlanda del Nord rappresenta “una minaccia reale all’integrità del Regno Unito”, né un meccanismo di “backstop indefinito”. Raab – secondo ministro per la Brexit a lasciare in questi mesi dopo David Davis – non chiede le dimissioni di May. Ma il suo forfait significa comunque un colpo duro sia per il governo e per il contesto negoziale, mentre non si escludono ora possibili defezioni di altri ministri Tory dissidenti.
Vara, sottosegretario al dicastero dell’Irlanda del Nord (junior minister nella definizione britannica) è il primo componente del governo di Theresa May a dimettersi per protesta contro l’intesa con Bruxelles. Nella lettera di rinuncia deplora che la bozza sia destinata a lasciare il Regno Unito “a metà del guado” a tempo indeterminato e non dia garanzia definitive che l’Irlanda del Nord non abbia alla fine relazioni con l’Ue più profonde rispetto al resto del Paese. La premier difenderà viceversa l’accordo più tardi di fronte alla Camera dei Comuni, dove è peraltro attesa dal fuoco di fila delle polemiche incrociate da oppositori e sostenitori ultrà della Brexit, sia nei gruppi di opposizioni, sia una parte della sua stessa maggioranza.
Anche gli unionisti – nordirlandesi protestanti – del Dup rompono con May. Vitali per la maggioranza, hanno denunciato la bozza d’intesa sulla Brexit come una violazione delle promesse fatte in termini di garanzia del legame fra Londra e Belfast. Il capogruppo Nigel Dodds ha sostenuto che l’intesa farà del Regno Unito “uno Stato vassallo destinato alla fine a disgregarsi”. Critiche che la premier ha respinto, ribadendo le garanzie all’Ulster e sull’integrità futura del Regno e invitando il Dup a nuovi colloqui.
Il contenuto dell’accordo è ovviamente vastissimo, visto che coinvolge tutti i settori di relazione tra la Gran Bretagna e l’Unione.
Uno dei punti più “sensibili”, e più mediatizzabili, è quello delle frontiere dell’Irlanda del Nord, per definizione da mantenere aperte secondo gli accordi di pace di 320 anni fa tra governo inglese, Irlanda, e Sinn Fein e Ira dell’Ulster. Di fatto quell’accordo ha trasformato il Nord Irlanda in un condominio tra Londra e Dublino, e nessuno vuol riaprire il vaso di Pandora della guerra civile a Belfast. Quindi la situazione resta sostanzialmente identica, ma per evitare che quella frontiera diventasse il “buco” attraverso cui l’Unione Europea poteva continuare a commerciare in Gran Bretagna alle proprie condizioni (visto che Dublino è membro dell’Ue), è stato necessario mantenere tutta la Gran Bretagna all’interno dell'”unione doganale” europea. Qualcosa che svuota di molto la portata economica della Brexit.
Stesso discorso, ma un po’ meno “permissivo”, per quanto riguarda i cittadini europei che lavorano o vogliono lavorare nel Regno Unito, come del resto già concordato lo scorso dicembre. Chi già da tempo risiede nel paese manterrà gli stessi diritti dei cittadini inglesi (per quanto riguarda welfare e sanità, sostanzialmente), ma anche chi vi si trasferirà nel “periodo di transizione” (fino alla fine del 2020), potrà godere degli stessi diritti. Ma dal 2021 la libertà di circolazione verrà alquanto limitata, anche se mancano ancora numerosi dettagli (tipo: i turisti dovranno esibire il passaporto in vece che il solo documento di identità?), ma è scontato che chi si vuole trasferire lì per lavoro dovrà ottenere un permesso.
Sulle materie meno “propagandistiche”, Londra si è impegnata a pagare un «conto del divorzio» di circa 50 miliardi di euro per assolvere gli obblighi già presi nei confronti dell’Unione.
Il tutto è però ora consegnato all’approvazione del Parlamento inglese e delle istituzioni europee. L’incognita principale riguarda ovviamente Westminster, dove si annuncia un iter ancora più travagliato di quello avvenuto nel governo. Se la discussione dovesse concludersi con una bocciatura, e quindi la caduta di Theresa May, la Gran Bretagna sarebbe costretta ad uscire comunque alla data fissata – il 29 marzo 2019 – ma senza nessun accordo.
Le conseguenze pratiche di un’eventualità del genere sono al momento assolutamente imprevedibili. Non date dunque retta ai media mainstream che descrivono scenari plumbei per la sola economia britannica. La coincidenza temporale tra Brexit effettiva ed elezioni europee (maggio 2019) ha diverse caratteristiche della famosa “tempesta perfetta” in cui la nave dell’Unione rischia – se non il naufragio – certamente danni serissimi, che costringerebbero ad accantonare parecchie ambizioni geopolitiche coltivate fin qui con cura.
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