Nessuna tregua, ancora una volta. Chiunque fiuti una posizione militare o politica di vantaggio cerca di capitalizzarla, la soluzione pacifica è uno slogan buono per ora solo per i giornali.
In ballo c’è il settimo paese mondiale per riserve petrolifere, ricchissimi giacimenti di gas a largo delle coste e un’ombra lunga sia sulla rotta di circa il 15% del traffico mondiale di merci, sia sulla politica mediorientale.
Fuori da questo quadro generale quanto sintetico, non si possono comprendere i continui stop and go che stanno caratterizzando queste settimane della crisi libica.
Gli stop and go militari
Il 23 aprile il Presidente della Camera dei rappresentanti (HoR) Aguila Saleh, Parlamento con sede a Tobruk, est del paese, braccio politico del l’Esercito nazionale libico (Lna) guidato da Khalifa Haftar, aveva lasciato un’intervista auspicando una soluzione che mirasse a «far uscire il paese dalla crisi con un danno minimo».
Saleh è uomo vicino ad Abdel Fattah al-Sisi, Presidente dell’Egitto dopo il colpo di stato del 2013, uno dei paesi che appoggiano l’Lna, Egitto che tuttavia insieme alla Russia, altro grande sponsor di Haftar, non aveva gradito l’auto-proclamazione da parte del Generale, siamo al 27 aprile, a «unica guida del popolo libico».
Questo significava la rottura formale (per la sostanza, ci aveva già pensato la guerra) dell’accordo siglato nel 2015 a Skhirat (Marocco) dove si certificava la divisione della Libia tra la Tripolitania, sotto la guida del Governo di accordo nazionale (Gna) guidato da Fayez al Serraj e riconosciuto dall’Onu, e la Cirenaica, controllato dall’Lna.
Ma alla fredda reazione dei suoi alleati più importanti, Haftar aveva annunciato, siamo al 29 aprile, una tregua delle operazioni militari per il periodo del Ramadan, segnando un punto di significativa debolezza soprattutto se sommato alla perdita di inizio mese in favore di Serraj di tutta la costa a ovest di Tripoli, fino alla Tunisia.
E arriviamo così a questi giorni, dove la controffensiva da parte di Serraj, chiamata ovviamente «difesa attiva», mira a ricacciare l’Lna in Cirenaica spingendosi verso il sud-ovest della regione, accerchiando Tarhuna (centro logistico) e la base aerea di Al-Watiya, colpendo i rifornimenti di armi, viveri e mercenari Janjawid reclutati in Sudan dall’alleato emiratino.
Le ragioni geopolitiche
In questa “guerra fra deboli”, gli obiettivi degli attori esterni assumono una rilevanza decisiva per la sorte del conflitto.
Dalla parte di Serraj c’è il sostegno della Turchia, che sulla Libia ha un progetto pluriennale di penetrazione politica, economica e culturale.
L’invio di armi, droni e milizie turcomanne reclutate dal campo siriano sono il braccio armato per il sovvertimento degli equilibri geopolitici nella Regione, di cui l’Islam politico è invece quello, appunto, politico.
Erdogan può contare sul Qatar, da tre anni in rotta con il resto del Golfo Persico, e ha in campo libico investimenti per oltre 20 miliardi di dollari in ambito infrastrutturale, mentre lavoratori e negozi sono da tempo, e in misura sempre maggiore, presenti sul territorio (Globalist).
Non è un caso che i primi libici a cui sarà consentito rientrare nel paese, dopo essere rimasti bloccati all’estero a causa le restrizioni ai voli per il coronavirus, saranno quelli provenienti dal suolo turco.
Dall’altra, Haftar sta incassando un progressivo ripiego da parte della Russia, sempre più impegnata nel fronte interno dal coronavirus e dalla guerra dei prezzi sul petrolio, e dell’Egitto, che spinge per una soluzione politica del conflitto in modo da allungare la sua influenza sulla Cirenaica, evitando così anche un’eventuale debacle dell’Lna che porterebbe una scalata al potere dei Fratelli musulmani proprio ai suoi confini.
In questo, se Russia e Turchia operano una strategia di lungo respiro (nata sul campo siriano e proseguita col “Turkish stream”) di accordo-scontro che faccia comunque crescere la loro influenza nei confronti degli arretranti Stati uniti e di un’impalpabile Unione europea, a spingere per la soluzione armata sembrerebbero rimasti solo gli Emirati arabi uniti.
L’obiettivo emiratino è quello di rintuzzare ogni forma di rinascita dell’Islam politico nella regione, rappresentato dalle le milizie islamiste su cui si fonda il traballante equilibrio del governo Serraj, e di approfittare della spregiudicatezza – senza risultati – del principe ereditario Mohammed bin Salman (Arabia saudita) per assumere un ruolo di intermediario globale nel Golfo.
Le sofferenze del popolo libico e il “mercato degli umani”
Se c’è uno sconfitto, da 9 anni a questa parte, questo è di certo il popolo libico, che dall’assassinio di Gheddafi in poi non ha visto mantenute le promesse di “rinascita democratica” per il proprio paese.
Con il virus in piena espansione in tutto il nord africa (esistono dei numeri, ma la guerra rende difficile la valutazione reale), secondo un rapporto del “Global health security index” di marzo, la Libia è stata identificata come uno dei 27 paesi più vulnerabili ai focolai di malattie emergenti. «Qui si combatte contro guerra, povertà e virus», affermano i medici (Middle east eye).
Ma c’è di più. Come già accennato, con la ripresa da parte del Gna delle coste nordoccidentali del paese sono tornati anche i mercanti di umani che a flotte compongono le milizie inviate da Erdogan in supporto, ebbene sì, del governo riconosciuto dalla “comunità internazionale”, quello di Serraj.
Non è un caso che dall’ingresso di Ankara nel conflitto stiano risuonando di nuovo nel nostro paese le sirene degli “sbarchi”, mentre sia l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), sia l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), lanciano appelli di sensibilizzazione, con pochi e insufficienti aiuti però da mettere in campo.
Su questo, Matteo Salvini sta tentando di riconquistare un pizzico della scena politica perduta, ma il momento critico e la battaglia che (non) combatte a livello comunitario il paese, oltre a rendere inutile ogni tentativo di mediazione politica dal parte degli Stati europei, rendono anche fuori tempo massimo gli slogan contro l’invasione rilanciati dal leader della Lega e dai quotidiani più servili.
Ma quando al governo, né Salvini ha mai preso parola contro la reale base che sostiene il governo di Serraj (anzi…), sostenuto anche dall’Italia via Onu, né il Partito democratico “de-renzizzato” e il Movimento 5 stelle hanno mai rigettato gli accordi criminali firmati dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, atti a finanziare il blocco dello sbarco dei migranti sub-sahariani e mediorientali dalle coste libiche tramite la costruzione di campi di detenzione – autentici lager – direttamente in Libia.
Al contrario, questi accordi sono stati rinnovati lo scorso 2 novembre.
Ma i pur lenti tempi della geopolitica non attendono di certo l’indecenza della nostra classe dominante, e la crisi pandemica ha maledettamente accelerato i processi in corso.
Per ora, a farne le spese è di nuovo l’intero popolo libico e tutti coloro che cercano di attraversarne il territorio.
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