“Noi vorremmo sapere… per andare dove dobbiamo andare… per dove dobbiamo andare?”
La battuta di Totò resta inarrivabile come sintesi del dibattito politico nella “sinistra” italiana, soprattutto quando si tratta di affronatre le coordinate fondamentali della realtà in cui ci troviamo a vivere. Ossia su struttura e gerarchia dei poteri (economici, politici, militari), stato della crisi capitalistica, ruolo dello Stato e quel “piccolo vincolo esterno” rappresentato dalla stratificazione di Trattati e istituzioni che costituiscono l’Unione Europea.
Senza un briciolo di chiarezza su questo mondo – certamente complesso – si è condannati a brancolare nel buio della regione. Tra patetici tentativi di usare le antiche categorie per nuovi fenomeni, o all’opposto di buttare a mare un patrimonio di idee e chiavi di lettura che non si riesce ad utilizzare.
Di base, quel che manca è lo studio della realtà empirica. Che è complicata, praticamente inaffrontabile con le risorse solo individuali e anche di piccoli gruppi. Ma camminare su un terreno sconosciuto espone ogni momento a rischi enormi, e a figuracce frequenti.
La scorsa settimana, solo per quanto riguarda l’ultimo (e persino il meno potente) dei “poteri forti” prima nominati, l’Unione Europea, si sono registrati due momenti importanti. Il primo è stata la sentenza della Corte Suprema tedesca, che ha dato tre mesi di tempo alla Bce per “giustificarsi” sulle politiche monetarie troppo “lassiste” degli ultimi anni.
Il secondo è stato l’”accordo” raggiunto nell’Eurogruppo per imporre il Mes (Meccanismo Europeo di Statbilità) come unico – al momento – strumento finanziario a disposizione dei governi per far fronte ai costi e ai danni della pandemia. Abbiamo smontato più volte la menzogna spudorata sull’”assenza di condizionalità”, e quei contributi rimandiamo senza tornarci.
Due eventi che vanno in direzione divergente, perché la sentenza di Karlsruhe evoca una pretessa di “diritto superiore tedesco” sulla struttura comunitaria sovranazionale (che ha prodotto ovviamente perplessità e irritazione a Bruxelles), mentre la trappola del Mes è in continuità diretta con la vecchia struttura “comunitaria”, così ossessionata da regole fuori tempo da non riuscire a modificarle neanche di fronte alla più immensa crisi che abbia colpito il modo di produzione capitalistico.
Non solo a noi sembra chiaro che una struttura di governance incerta sulla direzione da prendere (prevalere del nazionalismo tedesco, che aprirebbe la strada o a un dominio di stampo neocoloniale o, più probabilmente, a una reazione generale di stampo nazionalistico) si trova esposta a un serio rischio di implosione.
La questione non è però una curiosità intellettuale per patiti di geopolitica, peraltro troppo deboli per pesare nelle equazioni che descrivono i rapporti di forza.
Che l’UE ci sia o no, con quali politiche e quali effetti pratici, è questione che riguarda direttamente la vita di tutti noi, anche in questo Paese e nel più piccolo e sperduto paese del nostro territorio. Soprattutto, riguarda direttamente i nostri settori sociali di riferimento.
Se non altro perché quell’impianto sovranazionale (mal)diretto da Bruxelles decide se avremo o no possibilità di finanziare l’immensa quantità di sussidi a fondo perduto che sono pretesi da Confindustria, Confcommercio, lavoratori in cassa integrazione, precari e partite Iva, piccole imprese di tutti i tipi, ecc. Fino ad arrivare alla continuità di erogazione delle pensioni, la struttura sanitaria nazionale, l’struzione, ecc.
Ricordiamo sempre che i Paesi della Ue hanno perso la possibilità di monetizzare il debito attraverso le emissioni della Banca centrale nazionale, e che dunque possono soltanto ricorrere ai prestiti (ossia nuovo debito) delle istituzioni internazionali (Ue, Fmi, ecc) oppure dei “mercati finanziari”.
Incaprettati e con le mani legate dietro la schiena, sembra difficile non vedere che bisogna guardare a quel che avviene sul piano europeo per poter capire, con qualche anticipo, quel che accadrà a breve dalle nostre parti. Insomma, per poter approntare qualche reazione difensiva, un conflitto sociale razionale e intelligente, un briciolo di rappresentanza politica di interessi sociali sulla via dell’annientamento.
La lunga, ma necessaria premessa, serviva a introdurre questa importante intervista a Wolfgang Streeck, direttore emerito del Max Planck Institute, apparsa sulla Frankfurter Algemeine Zeitung.
Il parere di un illustre studioso tedesco, insomma, certamente affezionato al suo Paese ed anche alla UE, destinata al pubblico di uno dei più importanti quotidiani di Germania.
La descrizione di ciò che è la Ue, delle diseguaglianze costitutive dei trattati e della loro continua implementazione, nonché delle politiche di austerità, ecc, sembra scritta da feroci “anti-europeisti”. E invece è una pacata fotografia concettuale di un mostro che divora tutto ciò che incontra per garantire a un manipolo di capitali di crescere a dismisura. Anche nelle attuali condizioni.
Forse sarebbe il caso di aprire gli occhi e guardare in faccia la Gorgona. C’è la possibilità che, all’opposto del racconto mitologico, si possa uscire dalla pietrificazione del pensiero che si pensa “di sinistra”.
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La bomba è l’Italia. La crisi dell’UE è imminente
Le crisi degli ultimi anni sono state un fenomeno globale in rapida espansione. Gli stati sono stati in grado di risolvere le crisi?
Gli Stati sono allo scoperto. Non hanno alcun mezzo per affrontare efficacemente il rapido processo di globalizzazione. La globalizzazione può aver portato benefici, ma ha anche comportato costi troppo elevati.
Almeno per affrontare la globalizzazione, i paesi avrebbero dovuto rafforzare i loro sistemi sanitari, previdenziali ed educativi. Ma la maggior parte dei governi ha ridotto questi servizi pubblici o semplicemente li ha rimandati.
In Europa, negli ultimi trent’anni, il costo della globalizzazione è stato finanziato con più debito, anziché più tasse. Si sono accumulate enormi montagne di debito e il debito cresce da una crisi all’altra.
La cosiddetta “governance globale” mirava a rinunciare ai parlamenti nazionali; il termine tecnico è “diplomazia multilivello in un ordine multilaterale“.
Dagli anni ’90, i processi di liberalizzazione economica nell’Unione europea sono stati tali che un governo nazionale, con un sistema politico democratico, non sarebbe mai stato in grado di eseguire.
Si può dire che l’Unione europea ha fatto pressioni, ad esempio, per tagliare i sistemi sanitari?
Sì e no. La zona euro ha spinto su politiche di risanamento di bilancio, chiamate anche di “austerità”. In effetti, ha creato strumenti di monitoraggio specifici per controllare i budget.
L’economista irlandese Emma Clancy ha segnalato 63 casi in cui l’Unione Europea ha chiesto ufficialmente agli Stati membri di tagliare la spesa sanitaria pubblica.
L’UE ha inoltre presentato appelli permanenti per la privatizzazione delle prestazioni sociali e dei diritti dei lavoratori.
In Italia e Spagna, il sistema sanitario pubblico equivale al 6,5 percento del prodotto sociale, in Germania è superiore di tre punti percentuali, raggiungendo quasi il 10 percento.
Pensi che questa tendenza continuerà?
Ora si dice che dopo la pandemia nulla sarà più come prima. Comunque tendo a vedere una continuità. Non ho osservato alcun cambiamento nelle politiche di indebitamento, continua la crescita dell’offerta di moneta e purtroppo continua anche l’aumento della disuguaglianza sociale. A ciò si aggiunge il calo della spesa pubblica, che è ancora finanziata dalle tasse.
La Germania è stata a lungo una grande eccezione, beneficiando dell’asimmetria strutturale dell’unione monetaria. Questa politica, rappresentata dall’euro, ha favorito l’economia tedesca, che per la crescita è solidamente basata sulle esportazioni.
Nell’attuale crisi, lo stato nazionale ha dimostrato di essere un fattore stabilizzante. Significherà un cambiamento o saranno solo misure di emergenza?
Quando le cose si fanno serie, lo Stato nazionale è l’unico “che gioca per la città“, dicono gli americani… La retorica del ridimensionamento dello Stato-nazione è sempre stata una tecnica legittimante che i governi usano per giustificare il “libero commercio“. E poi, per coprire la loro impotenza con le crisi che hanno causato quelle politiche.
È possibile che l’unione monetaria rafforzi l’indipendenza degli Stati nazionali contro il potere dei mercati finanziari?
Al contrario. Francia e Italia hanno deciso di aderire all’unione monetaria perché i loro governi credevano che i loro paesi necessitassero di una “modernizzazione strutturale” nelle aree economiche e sociali. Questa “modernizzazione” non avrebbe potuto essere realizzata all’interno dei quadri democratici dello stato nazionale.
Per questo motivo, le élite politiche hanno accettato l’euro come vincolo esterno. Questa è in realtà una moneta “tedesca” dura. Il piano B ha cercato di ammorbidire questo duro euro. Si trattava di salvare l’unione monetaria mediante riforme strutturali “interne” in sostituzione di una svalutazione “esterna” dell’euro. Queste riforme falliranno, soprattutto in Francia, a causa della forte resistenza popolare.
Nell’attuale crisi, la Banca centrale europea fornirà 750 miliardi di euro e oltre duemila miliardi di euro acquistando obbligazioni emesse da governi nazionali. Che cosa significano queste misure?
Tutte le azioni importanti della BCE hanno conseguenze distributive asimmetriche tra i paesi che partecipano all’unione monetaria e sono anche piuttosto opache e oscure. Non esiste un Parlamento davanti al quale la Banca centrale europea deve rendere conto delle sue azioni. Gli Stati nazionali non possono mitigare la crisi creando il proprio denaro e devono raccogliere fondi sui mercati finanziari privati.
I finanziamenti del governo – anche attraverso la BCE – sono esclusi dal trattato di Maastricht. Tuttavia, la BCE acquista obbligazioni da istituti di credito privati. Questi istituti di credito sono banche private che creano liberamente euro ottenendo un premio per quella funzione. Fondamentalmente la Banca centrale europea non fa nulla per sostituire questo denaro creato da banche private.
Ciò significa che la BCE assumerebbe compiti politici senza controllo democratico e in contrasto con la legge della stessa UE. Perché i governi accettano questa politica monetaria?
Esistono molti strumenti oscuri per mantenere viva l’unione monetaria. Il governo tedesco li accetta perché il valore reale dell’euro viene svalutato a causa dell’adesione ai paesi più deboli. Questo in pratica favorisce l’esportazione di prodotti tedeschi.
Questa politica monetaria impedisce ai paesi dell’Europa meridionale di superare le crisi. Finché la classe politica rimarrà “pro-europea”, il costo di queste crisi continuerà a essere pagato dai settori popolari.
Quello che fa la BCE è il ruolo di una farmacia di emergenza che fornisce solo antidolorifici.
Cosa succederà se l’UE proseguirà con queste politiche?
La bomba a orologeria è il declino dell’Italia, che sarà probabilmente seguita da una caduta della Francia. Qualunque cosa faccia l’UE – in base al progetto di Maastricht – nulla sarà sufficiente per recuperare l’economia italiana.
Pertanto, esiste una reale possibilità che la classe politica filo-UE venga spazzata via alle prossime elezioni. Questo stava per accadere anche prima della crisi del coronavirus.
La stabilizzazione potrebbe essere solo il risultato di una ristrutturazione dell’Unione monetaria. C’è un modello per questo?
Il problema con l’euro è che non consente agli Stati membri di effettuare svalutazioni. Un’alternativa sarebbe che ogni paese abbia una valuta nazionale che viene aggiornata o deprezzata rispetto all’euro, a determinate condizioni concordate in anticipo.
Un’altra opzione sarebbe una certa gamma di fluttuazione automatica tra l’euro e le valute nazionali. Per inciso, ciò esiste tra l’area dell’euro e la Danimarca.
Per gli europei del sud, questo potrebbe almeno offrire loro l’opportunità di prendere una pausa. Consentirebbe inoltre loro di rimanere integrati nel sistema preservando la sovranità nazionale e la pace politica interna.
Le istituzioni politiche all’interno dell’UE non dovrebbero essere rafforzate per correggere il suo deficit democratico?
Nessuno vuole davvero un’unione politica. Quando si tratta di questa spinosa questione, la sovranità politica viene sempre per prima. Come abbiamo visto, lo stesso non accade con la sovranità economica.
Anche Emmanuel Macron la pensa così?
Soprattutto difende la sovranità politica. Nessun presidente francese vorrà rinunciare alla sovranità della Francia. Politicamente sarebbe morto.
La formula di Macron è: “Una Francia sovrana in un’Europa sovrana”. Questa non è esattamente un’unione politica.
La proposta tedesca di condividere il seggio francese nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stata respinta da una Francia inorridita. I francesi non saranno mai disposti a mettere la Germania sotto l’ombrello atomico francese.
In queste condizioni, quali sono le prospettive future per l’Unione europea?
Trovo interessante la proposta di un’Unione europea limitata. È un’Unione europea organizzata in base a settori di attività selezionate congiuntamente. Un’Europa che sarebbe una piattaforma per la cooperazione orizzontale volontaria, senza una direttiva gerarchica.
Il modello attuale, che è in declino da molto tempo, è un progetto tecnocratico di globalizzazione e centralizzazione tipico degli anni ‘90. Ora ha fatto il suo tempo. Oggi viviamo in un altro mondo.
Ma il mondo ha bisogno di un’Europa politicamente forte: l’UE che descrivi avrebbe un fascino politico e un peso internazionale?
Non è serio o realistico credere che possiamo competere militarmente con gli Stati Uniti o con la Cina. Non potremmo nemmeno competere in termini militari con la Gran Bretagna. L’Europa potrebbe sfruttare con successo la dualità emergente nella politica internazionale. In questo modo potremmo costruire una nicchia, in modo che la civiltà europea preservi la sua diversità e viva pacificamente senza ambizioni imperiali (interne o esterne). A questo punto, vorrei regalarmi il lusso di sognare, per una volta.
* da https://observatoriocrisis.com
** La ricerca di Streeck si concentra sull’analisi dell’economia politica del capitalismo, in cui propone di assumere un approccio dialettico all’analisi istituzionale in contrasto con le varietà più rigide del capitalismo. Ha scritto molto sull’economia politica della Germania e più recentemente si è occupato di dibattiti sulla politica dell’austerità, l’ascesa di ciò che definisce lo stato del debito come conseguenza della rivoluzione neoliberale degli anni ’80 e del futuro dell’Unione europea.
Nel 2014 Streeck ha scritto un articolo per la New Left Review in cui postula come il capitalismo potrebbe giungere al termine, discutendo di diversi fattori che rendono questo probabile.
Streeck afferma che poiché il capitalismo contemporaneo è afflitto da cinque disordini – crescita in declino, oligarchia, fame della sfera pubblica, corruzione e anarchia internazionale – per i quali al momento non esiste alcuna agenda politica adeguata ad affrontarli, continuerà a regredire e atrofizzarsi fin quando potrebbe finire.
Ha approfondito questo tema in un libro del 2016, How Will Capitalism End?
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