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Libia. Botte da orbi e negoziati segreti

Torna a salire la tensione sul territorio libico, dove raid aerei, ritrovamenti di fosse di cadaveri ed esplosioni nelle aree urbane segnano gli ultimi giorni di un conflitto che, seppur mai sopito, aveva conosciuto una relativa tregua nelle ultime settimane.

Relativa, perché episodi di guerriglia urbana e attacchi spot non hanno mai smesso di interessare soprattutto la faglia che segna il confine tra l’avanzata delle forze alleate al Governo di accordo nazionale (Gna) e dall’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar.

I fatti ci dicono che il 4 luglio un misterioso raid aereo ha colpito la base militare Al Watiya, 130 chilometri a ovest di Tripoli, controllata dagli uomini di Fayez al Sarraj, quella base ad alto valore simbolico, oltre che logistico, riconquistata dalle milizie inviate dalla Turchia a metà maggio in cui furono ritrovati due sistemi Pantsir (batterie contraeree dotate di radar per intercettare più bersagli contemporaneamente) made in Russia, riconquista che sancì la ritirata di Haftar dalla Tripolitania e il riequilibrio delle forze in campo dopo 14 mesi di conflitto.

D’altra parte, Agenzia Nova riporta la notizia di una forte esplosione nel villaggio di Sukna, nei pressi di Jufra, sede della base aerea nelle mani dell’Lna, causata secondo la fonte da un attacco condotto da droni turchi. L’operazione, negata dagli uomini di Haftar, che se confermata sarebbe la risposta diretta ai raid di Al Watiya.

La fonte ha inoltre indicato Al Jufra come prossimo terreno di iniziative delle forze Gna-turche, possibilità di non secondaria importanza considerato che Al Jufra è sia un avamposto strategico per il controllo della Mezzaluna petrolifera nelle mani di Haftar, sia perché nello scorso giugno il presidente dell’Egitto, Abdel Fatah al Sisi, aveva indicato la base di Al Jufra e la città di Sirte come la «linea rossa» la cui violazione avrebbe potuto portare Il Cairo all’intervento diretto militare in quel che rimane della Libia.

Questi due episodi contengono tutta la difficoltà dei negoziati che invece continuano a ritmo serrato nei corridoi delle diplomazie internazionali, che a dispetto del sangue che attraversa le strade libiche, da questi fatti guadagnano e perdono forza negoziale nelle trattative.

La partita in atto sulla Libia infatti sconta tutto il peso geopolitico della relazione-scontro tra la Turchia e la Russia, “amici guardinghi” in Siria ma su barricate opposte nella sponda sud del Mediterraneo, con i primi a sostegno di Serraj in compagnia delle sempre meno incisive Nazioni unite e dei qataraini, e i secondi dalla parte di Haftar assieme all’Egitto, Arabia saudita ed Emirati arabi uniti.

A questo contrapposizione, chiara negli intenti e negli interessi – la Turchia vuole continuare l’estrazione di gas naturali nei giacimenti marini a largo delle coste libiche, la Federazione Russa mira all’agognato accesso al Mediterraneo occidentale, l’Egitto estendere l’area d’influenza in funzione anti-Islam politico, tutti vogliono il petrolio –, vanno aggiunti i contradditori francesi, l’inadeguatezza italiana e l’indecisione statunitense.

La Francia sostiene “ufficialmente” il governo Serraj, ma sono i maggiori indiziati per il bombardamento di Al Watiya e già erano intervenuti per sostenere militarmente Haftar, causando ad aprile la protesta ufficiale del ministro degli Affari esteri del Governo di accordo nazionale libico per la presenza di caccia francesi Rafale e di un aereo da rifornimento nello spazio aereo sopra Misurata, e ritirandosi poi temporaneamente dalla missione Nato “Sea Guardian” a seguito dell’incidente di metà giugno nel Mediterraneo tra la Marina turca e quella francese.

Il governo italiano, troppo spesso in bilico tra le due posizioni sul dossier libico, da una parte incontra con Lorenzo Guerini in missione ufficiale ad Ankara il collega ministro della Difesa della Turchia, Hulusi Akar, discutendo secondo la stampa locale  di temi regionali e della possibilità di cooperazione bilaterale, mentre la notizia dell’arrivo a Roma del ministro della Difesa ad interim del Governo di accordo nazionale libico, Salah Al Din Al Namroush, è stata smentita dall’emittente televisiva libica 218 Tv.

Dall’altra, ieri il Senato nella discussione, non senza sussulti, sul rifinanziamento del missioni all’estero, approvava tra le altre cose la necessità di intensificare l’azione diplomatica con le autorità libiche, quelle dello Gna, per rafforzare i programmi di formazione del personale della Marina militare libica nella direzione del rispetto del diritto internazionale del mare e dei diritti umani.

È su queste due direttrici che si sta sviluppando il conflitto libico, la guerra guerreggiata che a dispetto degli stop and go non concede una vera tregua alla popolazione e alle milizie/eserciti impegnati, mentre nelle stanze della politica i negoziati proseguono incessanti nel tentativo di ognuno delle parti in gioco di perseguire i rispettivi interessi. Negoziati e interessi nei quali quelli che appaiono ancora ondeggianti sono quelli statunitensi dopo “la ritirata” della loro ambasciata e dei loro soldati dalla Libia.

Interessi e ingerenze esterne che in una guerra civile “conto terzi”, non coincidono mai con gli interessi del popolo.

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