Non ci stanno i famigliari di Sinan Gencer. Non si rassegnano ad accettare per buona la versione fornita dalle autorità carcerarie. Stando alle dichiarazioni ufficiali, il loro congiunto – un prigioniero politico curdo – si sarebbe tolto volontariamente la vita.
Per la cugina di Sinan, Zeynep Gencer, “ci hanno detto che si è suicidato. Ci hanno anche detto che avrebbe lasciato una lettera, ma noi non l’abbiamo ancora vista.
Invece noi sappiamo che Sinan ci confortava e incoraggiava sempre. Diceva che un giorno sarebbe uscito dalla prigione e che insieme saremmo stati felici, avremmo vissuto ancora giorni belli. Pensiamo che ci stiano ingannando. Sinan finora non aveva manifestato di avere dei problemi, aveva anche partecipato a uno sciopero della fame…”.
Il suo cadavere era giunto nella mattinata del 23 settembre al centro medico dell’università Van Yuzuncu Yil Dursum Odabasi per l’autopsia.
Parenti e avvocati si erano immediatamente recati all’ospedale dove appunto venivano informati del presunto suicidio di Sinan. Suicidio, ripeto, su cui aleggiano fortissimi dubbi, non soltanto da parte dei famigliari.
Le vicende umane e politiche di Sinan Gercer ricalcano quelle di tanti giovani curdi entrati nella Resistenza in Bakur (territori curdi sotto occupazione turca).
Arrestato dopo un conflitto armato a Macka in cui era rimasto ferito, veniva condannato a due ergastoli. Rinchiuso ormai da quindici anni nella prigione di massima sicurezza di Van (da due anni in isolamento), si dedicava alla pittura, allo studio della lingua curda e a varie attività culturali.
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Gianni Sartori
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