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Il nuovo corso “multipolare” alla prova nei Balcani

Albin Kurti è risultato vincitore delle elezioni anticipate in Kossovo la scorsa settimana.

Ex oppositore di Milosevic e suo “prigioniero politico”, Kurti ha fondato nel 2005 il suo ragruppamento politico Vetevendosje (auto-determinazione, in albanese), quando il Kossovo era sotto l’amministrazione dell’ONU, con parole d’ordine contrarie alla negoziazione con la Serbia dal quale si sarebbe staccata.

Nel 2008, con l’autoproclamata indipendenza del Kossovo, la formazione divenne un partito che si opponeva al EU Rule of Law Mission (EULEX), che monitorava il sistema giudiziario.

Ma il suo atteggiamento caustico si è mitigato nel tempo, almeno nella rappresentazione che fornisce di sé, tanto che la vittoria con circa il 30% alle precedenti elezioni con una piattaforma “populista”, e la sua nomina a Premier nel febbraio scorso, erano stati salutati positivamente da alcuni diplomatici.

Questo non vuol dire che abbia dismesso le sue convinzioni profondamente nazionaliste che danno l’imprinting a tutta la sua politica, anche quando sembra prendere accenti “di sinistra”, per come tratta le questioni sociali.

E’ un fautore infatti del progetto di “Grande Albania”.

Vetevendosje, con poco meno del 50% dei consensi ha ottenuto la più alta percentuale di qualsiasi partito dalla fine degli anni Novanta, in questo Paese con meno di 2 milioni di abitanti, la cui indipendenza è riconosciuta solo da circa 100 Paesi al mondo.

Fa il pieno di voti a Pristina, e vince in ogni fascia d’età e sesso, in particolare tra le donne.

Le formazioni che avevano dominato la scena politica kossovara (PDK e LDK) fino al primo successo di Kurti nel novembre del 2019 – il cui governo era stato sfiduciato su pressioni statunitensi nel pieno del primo picco pandemico – ottengono in totale meno di un terzo dei voti.

E’ una chiara indicazione di come il suo defenestramento pilotato, il marzo scorso, non ha incontrato il consenso di una parte rilevante della popolazione, e più in generale mostra la delegittimazione di una classe politica che non ha portato alcun beneficio ai propri cittadini.

La disoccupazione è al 30% e la pandemia non ha fatto che peggiorare la situazione.

Nonostante la situazione pandemica l’affluenza alle urne è stata però la più alta dal 2004.

Una vittoria condivisa con Vjosa Osmani, dimessasi dal LDK, dopo che il partito aveva sfiduciato Kurti, e che lo potrebbe vedere entro due mesi come prossimo Presidente Kossovaro eletto dal Parlamento. Una posizione vacante, grazie alle dimissioni del presidente uscente Hashim Thaçi accusato di crimini di guerra dalla Corte speciale.

La possibile futura presidente, attualmente ad interim, ha espresso in un inglese impeccabile le sue proposte prima della sua vittoria alla rete televisiva statunitense CNN: parità di genere, lotta alla corruzione e alla disoccupazione, questione giovanile, riforma giudiziaria…

Sarebbe un deciso cambiamento d’immagine, rispetto a quella dei capi militari dell’UCK.

Nonostante la performance elettorale, la formazione avrà bisogno di 61 deputati su 120 per assicurarsi la maggiornaza parlamentare, e probabilmente dovrà ricorrere ai partiti che rappresentano le minoranze kossovare, a cui sono assicurati automaticamente 20 eletti.

Si tratta di un altro tassello di un quadro balcanico in mutazione, anche sul piano della rappresentanza politica, come hanno dimostrato le elezioni in Montenegro .

Come stiamo cercando di approfondire, i Balcani sono diventati un terreno di scontro tra vecchi e nuovi attori della scena politica internazionale, ed hanno conosciuto il profondo fallimento dei progetti pensati all’interno delle cancellerie occidentali sia europee che statunitensi.

Russia, Cina e Turchia stanno entrando nel “Grande Gioco” balcanico, che sembrava dominato dagli USA e dell’Unione Europea, con interessi anche contrastanti, come hanno dimostrato gli attriti dell’era Trump, che difficilmente il neo-atlatismo a parole di Biden potrà far convergere.

Cerchiamo di fare il punto – grazie al contributo di Kevin Paja – su cosa potrebbe cambiare con la nuova amministrazione Biden alla luce dei profondi contrasti e delle “fratture” apertesi in questi anni.

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Il cambio dell’esecutivo USA potrebbe scompaginare gli equilibri che si erano costituiti nei Balcani durante il mandato di Trump?

L’orientamento della scorsa amministrazione nord-americana in politica estera in merito ai suoi interessi regionali aveva assunto un orientamento più improntato, almeno in apparenza, allo sganciamento dagli impegni multilaterali, ad una nuova politica doganale che favorisse l’esportazione americana e la posizione degli scambi interni.

La strategia statunitense sembrava puntare all’indebolimento dell’Unione Europea nella regione e a un ruolo più decisivo della diplomazia americana libera dalla “mediazione” della UE.

L’Unione per via dei suoi interessi particolari al suo interno ed e alle diverse direzioni a cui guardavano le varie cancellerie estere aveva “rallentato” il processo di normalizzazione dei rapporti bilaterali tra i vari paesi, in primo luogo tra Serbia e Kosovo.

Impegni che venivano diluiti nel tempo e accompagnati dai costanti appelli reiterati all’integrazione europea.

Ma, al netto di tutte le pretese di discontinuità rispetto alla «Dottrina Clinton» la politica estera statunitense nella regione è cambiata solo nella forma ed rimasta la stessa nelle intenzioni, ad essere mutate sono le circostanze e gli spazi di manovra in cui si muovono i nuovi attori della geopolitica balcanica, non più monopolio esclusivo dell’Occidente come dopo la caduta del muro di Berlino.

Il progetto della Nuova Via della Seta che passa per Atene e Belgrado, e il ruolo della Turchia nello spazio post-ottomano in cui è tornata ad esercitare la sua influenza diretta dopo la caduta muro di Berlino e l’inizio del mandato di Erdogan. In un quadro in cui gli spazi di manovra per i progetti a lungo termine del capitale occidentale sarebbero stati più stretti a prescindere dalla presenza o meno di un democratico o di un repubblicano alla casa bianca.

In primo luogo perchè i piani della politica estera sui Balcani degli USA sono stati un disastro per l’amministrazione Clinton e contenevano già in nuce le premesse del loro fallimento.

La mancanza di un vero e proprio piano di investimenti e prestiti che puntasse su un rafforzamento delle economie locali – ed un realtivo ripristino delle esportazioni e della reindustrializzazione – ha permesso che diverse «potenze» limitrofe potessero portare investimenti più decisivi nell’orientare lo sguardo delle diverse rotte commerciali balcaniche.

Il progetto neo-ottomano della Turchia nei balcani

In primo luogo ad averne tratto larghi benefici è stata la Turchia di Erdogan, in particolare la filiera alimentare, il real estate – artefice di un investimenti da centinatia di milioni di dollari come l’autostrada Belgrado-Sarajevo e «l’autostrada della pace» Prishtina-Nis -, le compagnie di volo: la Turkish Airlines è proprietaria al 49% della compagnia di bandiera Albanian Airlines.

Lo stesso aereoporto di Tirana, la cui concessione era stata affidata ad una compagnia cinese nel 2017, è andata poi dall’oligarca Kastrati solo lo scorso dicembre.

Il Turkish Stream, come anche l’industria edile che concentra i suoi sforzi perlopiù nella costruzione di maestose moschee, di scuole religiose e di opere di beneficienza, sono altri aspetti della penetrazione turca nell’area.

Tutto in buona parte orientato al ripristino di una sfera di influenza “ottomana”, che ha avuto come conseguenza anche il riaccendere le tensioni tra i vari gruppi religiosi, in una delle regioni storicamente più instabili e composite d’Europa.

Kossovo

La Turchia ha svolto un ruolo fondamentale nella trasformazione delle forze armate del Kosovo in un vero e proprio esercito, finanziando per quasi due milioni di dollari l’armamento e l’addestramento del piccolo esercito nel 2018.

Ha approfittato di un momento di relativo isolamento del governo kosovaro, avvenuto in seguito all’aumento del 100% delle imposte doganali decise dal governo di Ramush Haradinaj nel 2018, che suscitò l’opposizione (oltre che ovviamente della Serbia) anche dell’Unione Europea, ma non quella di Trump e della Turchia.

Il successivo tentativo di creare una forza armata sarebbe stato proprio quello di approfittare del relativo isolamento per creare un esercito, cosa che non sarebbe potuta avvenire se il governo del Kosovo non avesse sospeso i negoziati serbo-kossovari che infatti scoraggiavano il governo del paese a dotarsi di una vera e propria forza armata. Furono infatti fredde le reazioni dell’Unione Europea e della NATO allora.

La notizia della costituzione dell’esercito del Kosovo, preceduta dall’innalzamento dei dazi al 100% per i prodotti importati dalla Serbia – la maggioranza della domanda di mercato alimentare del Kosovo era soddisfatta prima di allora dall’industria alimentare serba – fu accolta infatti con relativo sdegno da parte del governo serbo, che potè allora rafforzare la sua posizione al tavolo e costruirsi l’immagine di parte più corretta nello svolgimento dei negoziati, inclusi quelli di adesione all’Unione Europea.

Una volta rassegnate le dimissioni di Haradinaj, che nel 2020 è stato di nuovo accusato di crimini di guerra da parte del Tribunale dell’Aja, è poi arrivata l’elezione di Albin Kurti, nazionalista di sinistra, «figlio illegittimo» del vecchio «marxismo enverista», che non ha trovato le simpatie della NATO e del dipartimento di stato americano, poiché contrario alla ripartizione territoriale del Kosovo caldeggiata dall’amministrazione Trump e che in realtà era stata implicitamente sostenuta anche dalle precedenti amministrazioni, a cominciare da Clinton, Bush e Obama.

Questa ripartizione prevederebbe uno scambio di territori tra Serbia e Kosovo: la valle dell’Ibar nel nord del Kosovo, a maggioranza serba in cambio delle valli di Presevo e di Bujanovac ad oriente del confine del Kosovo ma a maggioranza albanese.

Questo scambio di territori avrebbe come contropartita il riconoscimento della secessione kosovara da parte della Serbia, ed una probabile risoluzione della delicata questione sul destino dei monasteri ortodossi e di altri patrimoni artistici serbi.

A questa soluzione Kurti si è opposto in tutte le maniere possibili, fino ad arrivare a farne un cavallo di battaglia durante la campagna elettorale, trovando l’appoggio diplomatico della Germania (e della Turchia).

Una volta ottenuta la maggioranza relativa alle elezioni di ottobre 2019 il partito di Albin Kurti «Vetevendosje» («Autodeterminazione» in lingua albanese) si è cimentato in una lunga discussione con le altre forza d’opposizione, riuscendo, con qualche mese di ritardo, a formare un governo con l’LDK, altra forza politica del paese, , assieme al PDK di Hashim Thaci, fino all’ascesa di Vetevendosje.

Il nuovo governo, si è però dovuto scontrare con la crisi progressiva dei progetti di egemonia “a stelle e strisce” sui Balcani, che infatti hanno fatto il possibile per silurare Kurti, riuscendo in piena pandemia ad incoraggiare una mozione di sfiducia nei confronti del suo governo, accolta con entusiasmo dal capo di Stato Hashim Thaci, uomo della CIA in Kosovo e acerrimo nemico di Albin Kurti, poi costretto alle dimissioni lo scorso novembre (Thaci) perchè accusato, nuovamente, dall’Aja di crimini contro l’umanità.

Serbia

Mentre in Kosovo era caduto il governo, in Serbia Aleksandar Vucic era riuscito di nuovo a vincere le elezioni con percentuali da maggioranza assoluta, forte anche dell’astensione delle altre forze politiche di appartenenza liberale e più marcatamente europeiste, che accusano il presidente di monopolio dell’informazione e di esercitare un controllo eccessivo sulla vita pubblica.

Aleksandar Vucic è un personaggio che raccoglie attorno a se tutte le caratteristiche più controverse di un politico balcanico: giornalista anticomunista in gioventù, liberale e nazionalista durante la dissoluzione della jugoslavia, poi membro del partito radicale di Vojslav Seselj, ministro dell’informazione durante il secondo governo di Slobodan Milosevic, allora composto dal Partito Socialista serbo di Slobodan Milosevic, Sinistra Jugoslava di Mira Markovic (moglie di Slobodan Milosevic) e dal Partito Radicale Serbo, il partito erede del «vojvoda» Momcilo Djuic, cetnico tornato dall’esilio e collaboratore del criminale di guerra fascista Mario Roatta.

E poi «nazionalista e democratico» dissidente in contrasto la la linea vetero-nazionlista di Seselj nello SRS. Fino a diventare un liberale europeista aperto all’occidente e sostenitore di una politica neutralista della Serbia in campo internazionale. Uomo che è riuscito a costruirsi un immagine di leader sobrio in una Serbia distrutta dai bombardamenti della NATO nel 1999, scioccata dall’omicidio di Zoran Djindjic e in perenne crisi economica, in continuo bilico tra l’Occidente e le aspirazioni russe sulla regione.

E come garante degli investimenti tedeschi, ma anche cinesi; e simpatizzante del trumpismo (quando ancora era Bolton a tracciare la politica estera americana nella regione). Ma allo stesso momento più volte sospettato di opportunismo persino dai suoi alleati russi.

In sintesi, un prestigiatore che è sempre riuscito a passare allo stesso tempo per vittima degli intrighi internazionali, e timoniere di una Serbia che deve guardare avanti, nella prospettiva europeista pur mantenendo i vantaggi di una posizione neutrale.

Uomo al governo e all’opposizione allo stesso tempo, vincitore tra gli sconfitti in patria ma perdente caduto in piedi nella contesa tra le grandi potenze. Un po’ Obrenovic e un po’ Karadjordjevic, e allo stesso tempo figlio dell’apertura in politica estera della Serbia durante il periodo di Tito, come ama definirsi con sprezzo del ridicolo.

Le ultime elezioni parlamentari del giugno hanno visto la coalizione di Vucic vincere con il 63%, favorito dall’astensione di buona parte dell’ex opposizione parlamentare, in primo luogo del Partito Democratico di Serbia e per la prima volta, e dall’esclusione del Partito Radicale Serbo di Seselj dal parlamento, che non è riuscito a superare la soglia di sbarramento, si suppone anche grazie a finanziamenti segreti che il partito di Vucic avrebbe elargito alla lista ecofascista «Levijatan» che è riuscita a spaccare l’elettorato tradizionalmente più vicino a Seselj, ex padrino politico di Vucic.

Così Vucic è riuscito ad assicurarsi la quota necessaria di parlamentari per portare a termine le riforme costituzionali necessarie a riconoscere la secessione del Kosovo e ad assicurarsi la credibilità necessaria al tavolo dei negoziati, senza bisogno di passare dal referendum costituzionale.

L’accordo tra Serbia e Kossovo sotto egida USA

L’accordo “fuffa” del 4 settembre è nato proprio su queste aspettative. Il contenuto dell’accordo – di per se irrilevante – conteneva però un particolare e che avrebbe causato non poche polemiche: tra le clausole contenute nell’accordo ce n’era una che avrebbe dovuto impegnare le parti ad:

1) Un riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele e lo spostamento delle rispettive ambasciate;

2) All’inserimento di Hezbollah nella lista dei gruppi terroristici;

3) L’impegno ad acquistare la tecnologia 5g solo da paesi ritenuti «affidabili» e a «diversificare gli approviggionamenti energetici», quindi un attacco alla Russia e alla Cina, uno degli attori più attivi nella regione e a livello mondiale unico concorrente a spaventare gli stati uniti d’America nel settore dell’Hi Tech.

I negoziati che hanno portato all’accordo, svoltisi curiosamente quasi in contemporanea con il cosidetto “Patto d’Abramo”, sono stati subiti accolti con delusione da Parte della Turchia e della Russia, in primo luogo la Turchia si troverebbe tagliata la strada verso le sue aspirazione post-ottomane nei Balcani e dall’altro questo accordo avrebbe favorito il processo di creazione di “alleanze cuscinetto”, di cui la «Nato araba» rappresenterebbe la sua estensione meridionale, nonostante non fosse rivolto direttamente alla Turchia che resta comunque parte insostituibile della NATO e alleato con relativa autonomia politica e tendenze subimperialistiche.

Ha dell’incredibile, ma a quanto pare Vucic si sarebbe accorto di questi tre punti solo durante la firma dell’accordo nello Studio Ovale, alla presenza di Trump, Hoti e del corpo diplomatico americano, tra lo stupore dei suoi consiglieri ed un evidente imbarazzo generale.

Incassando lo sfottò della portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova che ha scritto provocatoriamente su facebook: «Se siete invitati alla Casa Bianca e la sedia è posizionata come se foste sotto interrogatorio, sedetevi come nella foto numero due. Chiunque voi siate. Credetemi», accompagnandolo ad una iconica foto del presidente serbo seduto al centro dello studio ovale e isolato da tutti gli altri e una seconda tratta da Basic Istinct in cui Sharon Stone siede a gambe incrociate durante un interrogatorio della polizia. Mossa che ha irritato non poco il governo serbo e che ha accarezzato la pancia dell’opposizione (ammesso che ce ne sia una).

Molti giornalisti occidentali hanno letto in questo scambio al vetriolo i prodromi di una possibile rottura tra Mosca e Belgrado, che però resta irrealistica dal momento che Mosca non può permettersi di perdere un alleato nel cuore dell’Europa e la Serbia non vuole perdere il suo privilegio di posizione neutrale che pesa nella tavolo delle trattative con entrambi gli schieramenti.

A riprova di questo la firma dell’ultimazione del tratto balcanico del “Turkish Stream” che collegherà ben sei paesi della penisola balcanica alle riserve di gas naturale russo attraverso il Mar Nero e le acque territoriali turche, con cui verranno bypassate le strutture energetiche presenti in territorio ucraino e da cui la Serbia riceverà almeno 14 miliardi di metri cubi all’anno, progetto ultimato di recente e inaugurato alla presenza di Vucic ad inizio anno.

Le elezioni in Kosovo: la vittoria di Albin Kurti

La crisi politica affonda le sue radici nella subalternità del Kosovo rispetto alle agende politiche estere delle potenze estere (Usa, Germania, UE, Turchia in primis), nonostante lo scenario balcanico sia passato in secondo piano rispetto alle prioritaria guerra commerciale contro la Cina, che sta impegnando la maggior parte delle risorse e delle energie del dipartimento di Stato americano.

L’ipotesi più accettata è che nonostante il cambio di amministrazione USA non cambieranno significativamente i piani NATO per la normalizzazione dei rapporti e il riconoscimento della secessione da parte serba. Come nota Alberto Negri: Il braccio di ferro tra Stati Uniti e Germania per la questione del North Stream 2 sembra in questo senso in perfetta continuità con la politica estera di Trump e non sembra profilarsi quel ritorno al multilateralismo come auspicato dalle socialdemocrazie europee.

Ma le recenti elezioni che hanno visto il trionfo di Vetevendosje potrebbero riservare sorprese in questo senso. Abbiamo chiesto ad un militante di Organizata Politike, un’organizzazione di sinistra radicale albanese che è stata coinvolta nelle lotte operaie e studentesche degli scorsi anni.

Che sostiene invece che il cambio di amministrazione «Favorirà Albin Kurti che non punta a formare un governo stabile e vuole dilatare i tempi del negoziato per rafforzare la sua posizione politica interna nel lungo periodo, approfittandone del clima di instabilità politica e compattare la sua base elettorale puntando sul vittimismo e sull’immobilità degli organismi internazionali».

E aggiunge «Non credo che ci sarà alcuno scambio territoriale. Lo scambio territoriale non sembra essere nell’ordine immediato poichè l’agenda estera americana, con Biden, non è interessata ad una soluzione nel breve termine sulla questione del riconoscimento, quindi Albin Kurti avrebbe gioco favorevole nel rafforzare la sua polizione politica interna, di fronte ai fallimenti dei negoziati condotti fino ad ora sotto l’egida delle precedenti amministrazioni USA».

Quindi potrebbe «proporsi come autentico risolutore della crisi e rivendicare una sua paternità politica nel processo di riconoscimento». Mentre per quanto riguarda l’omogeneità della nuova maggioranza aggiunge «alcuni vecchi alleati di governo, in primo luogo Vjosa Osmani, in rotta di collisione con l’LDK [] il partito di centrodestra fondato da Ibrahim Rugova, NdC] hanno condotto una scissione in seno al LDK, in polemica con il suo vecchio partito rispetto alla decisione di sfiduciare il precedente governo di Albin Kurti. Hanno quindi costituito un gruppo candidatosi all’interno della lista di Vetevendosje, che potrebbe nel medio e lungo periodo compromettere l’omogeneità della maggioranza, perchè unica forza poilitica di governo ad avere una leadership ed un’autonomia politica rispetto alle posizioni di Albin Kurti».

Interrogato su un possibile sbocco della crisi politica in senso di classe afferma: «Sono scettico sul fatto che esista una sinistra in Kosovo, Vetevendosje afferma di affondare le sue radici nella tradizione socialista, ma ha tolto qualche giorno fa dal suo programma di governo l’aumento dell’aliquota progressiva promesso durante la scorsa campagna elettorale. Che sarebbe andato a danno dei grandi oligarchi e in favore dei ceti medio bassi. In questa maniera Albin Kurti ha tradito le sue «premesse socialiste», in nome di interessi particolari della società kosovara e preferendo la pacificazione sociale alla giustizia, in modo di ottenere ancora più influenza all’interno della società kosovara, per mezzo dei suoi gruppi oligarchici».

I due referenti della politica economica di VV sono sono infatti «Besnik Bislimi e Hekuran Murati, due liberisti di destra dichiarati». Due possibili nomi per il dicastero all’economia del prossimo governo Kurti.

Per quanto riguarda la minoranza serba, che continua ad essere guidata politiamente dalla «Lista Srpska», emanazione diretta del partito di Vucic in Kosovo, «è in realtà più complessa la situazione, vale a dire: secondo la costituzione del Kosovo la minoranza serba avrebbe diritto ad un dicastero, e l’anno scorso ci furono molte polemiche in merito al fatto che Albin Kurti non avrebbe voluto includerla in un eventuale squadra di governo, o meglio, avrebbe voluto farlo ma escludendo i parlamentari della lista sprska, in favore di altri rappresentanti della società civile serba, più allineati alle posizioni di governo, e che secondo Kurti sarebbero stati passibili di mandato, poichè nella Costituzione del Kosovo non viene specificato che debbano essere scelti tra i parlamenti eletti con le quote di minoranza riservate ai gruppi etnici di minoranza. Si profilerebbe quindi un rafforzamento Zajednica Srpskih Opstine, organismo di autogoverno della minoranza serba in Kosovo costituitosi nel 2013 a seguito degli accordi di Bruxelles, che ha raccolto fino ad’ora l’adesione di 10 municipalità a maggioranza serba, situate sia a nord dell’Ibar che a sud.

Albin Kurti in merito alla questione dell’ambasciata a Gerusalemme ha dichiarato «che avrebbe cambiato decisione solo nel caso in cui l’Unione Europea avesse sollecitato un cambiamento rispetto alla politica di annessione israeliena», di fatto stracciando l’accordo con Trump, «riuscendo in questa maniera a sollevarsi dalla responsabilità politica di un eventuale riconoscimento, che si rivelerebbe rischioso nei rapporti diplomatici con la Turchia».

Cosa cambierà con Biden?

Con l’insediamento di Biden alla Casa Bianca, alcuni politici locali e altri analisti esteri, un po’ per ignoranza, un po’ per cattiva fede stanno cominciando a ventilare ipotesi su un cambio di direzione sostanziale delle politica estera di Washington nella regione.

Auspicando un ritorno ad un approccio multilateralista e ad un ripristino della patente di «plenipotenziario ufficiale» del blocco NATO alla Germania e alle istituzioni europee. Ma nella sostanza il contenuto dell’accordo, sebbene schizofrenico e volutamente non risolutivo potrebbe tornare comodo nei fatti pure a Joe Biden, che però non sarebbe più in tempo nel determinare un cambio di rotta sostanziale per quanto riguarda l’influenza del capitale occidentale e il timido processo di sganciamento dalla catena del valore tedesca come catalizzatori dell’indebolimento del soft power occidentale.

Non tanto per colpa dei pasticci di Trump, ma per il fatto che le istituzioni europee, stanno indebolendosi a causa delle scelte economiche disastrose condotte dalle classi dirigenti di questi stati periferici (consigliate dai liberisti di scuola tedesca) fin dai tempi della transizione e della restaurazione del capitalismo, e questa condizione potrebbe venire esasperata in particolare dalla pandemia di COVID 19 e dalla recessione che, come abbiamo già visto, ha già funzionato da detonatore di conflitti sociali, come nel caso della rivolta di Tirana seguita all’omicidio di Klodjan Rashaj .

Joe Biden, che ricordiamo essere un conoscitore delle vicende balcaniche: fu infatti tra i più accaniti sostenitori del bombardamento alle postazioni della Republika Srpska nel 1995 e grande accusatore di Milosevic che definì “uno dei leader europei più pericolosi e maniacali mai visti dopo Hitler, iniziatore di quattro conflitti”.

Non quindi nuovo ai fatti di interesse balcanico, ma uno dei più attivi sostenitori della politica estera di Clinton, riporta infatti la sua firma, assieme a quella del senatore McCain la risoluzione del congresso mirata all’intervento militare e all’occupazione del Kosovo. Legato al Kosovo anche per motivi di natura personale, fu infatti in Kosovo che il figlio Joseph Robinette «Beau Biden», morto di tumore nel 2015, lavorò in per conto dell’OSCE in un programma di formazione della magistratura locale.

Quindi la debolezza non sta nel contenuto o nella forma dell’accordo e non è nemmeno colpa esclusiva di Donald Trump, che ha approfittato dei negoziati per rafforzare le posizioni di Israele e per farsi un po’ di campagna elettorale. Ma sicuramente la crisi ha delle radici ben profonde che cominciano dal periodo di transizione e che sono conseguenze dirette dell’applicazione del neoliberismo, e degli eventi che hanno devastato la regione negli anni ’90.

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