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Porti, merci e migranti, il doppio standard omicida

Il messaggio di Sea Watch all’iniziativa di Livorno “Porti chiusi alle armi, aperti ai migranti”, organizzata dai lavoratori portuali Usb.

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Grazie per l’invito. Siamo veramente molto contenti di essere qui con voi. Non dimenticheremo mai l’offerta di un porto sicuro per la Sea-Watch 3 fatta dai portuali di Livorno nel 2019, all’apice della politica dei porti chiusi.

Da allora siete stati veramente un’ispirazione per noi. E quindi siamo qui innanzitutto per esprimere il nostro pieno sostegno al vostro impegno nella solidarietà e nella difesa dei diritti umani – lotte che ci uniscono. Mentre voi vi opponete al transito di armi destinate all’oppressione delle popolazioni di stati lontani, noi ormai siamo le ultime navi europee che cercano attivamente le barche di quelle persone e che offrono loro un’ultima possibilità per arrivare in Europa.

E come voi, rappresentiamo uno sguardo civile indipendente su ciò che accade nel Mediterraneo di oggi; cosa passa, cosa e chi viene bloccato, chi muore, chi perde, chi guadagna.

Siamo qui in primis per questo, per fare un commento, forse scontato, su cosa passa e su chi non passa le frontiere.

Se da un lato c’è una circolazione totale, libera e anzi supportata dei flussi di denaro e merci (al punto da rendere necessario interventi come i vostri, mirati a bloccare i carichi di armi), dall’altro si orientano e si limitano gli spostamenti delle persone, per lo meno di quelle che non portano grosse somme di denaro con loro (perché poi chi ha qualche milione di dollari a disposizione può di fatto comprare un passaporto maltese), al punto da rendere necessari interventi come i nostri, mirati ad evitare che le persone muoiano in mare o vengano respinte in un paese in guerra.

Questo è quello che facciamo nel Mediterraneo centrale. E anche se siamo sicuramente più famosi per le navi (per altro più in tema con la giornata di oggi) queste sono spesso bloccate.

E allora vogliamo parlarvi anche delle missioni di ricognizione aerea che portiamo avanti dal 2017.

All’inizio si trattava semplicemente di individuare velocemente le imbarcazioni in difficoltà e segnalarle alle navi, civili e militari, che si occupavano dei salvataggi e dei rapidi sbarchi in Europa.

Dal 2018 in poi, invece (e in generale a partire dagli interventi repressivi di Minniti, nel quadro di un governo che ha colpito duramente tutte le forme di movimento politici e sociali) vuol dire supportare le poche navi ONG le poche volte che riescono ad essere in mare.

Quando queste sono assenti facciamo pressioni sulle autorità europee perché si assumano le loro responsabilità nei confronti delle persone in difficoltà in mare. Nel peggiore dei casi, quando nessuno interviene per portare in salvo le persone in pericolo, l’ultima cosa che ci resta da fare è documentare cioè che succede per rendere, se non giustizia, almeno verità alle persone vittime della frontiera più letale del mondo.

Quello che succede può essere un’intercettazione da parte della cosiddetta Guardia Costiera libica o alle volte anche un naufragio (632 morti certe dall’inizio del 2021).

Un attore ora sempre più centrale sono le compagnie mercantili. Ci siamo trovati spesso a provare a convincere delle navi a effettuare salvataggi e a far sbarcare le persone in Europa, con risultati molto diversi.

Capita che non rispondano neanche alla radio, a volte effettuano respingimenti sotto coordinamento sia libico che italiano. Altre volte hanno effettuato salvataggi, e anche lì si prospettano scenari molto diversi.

Le navi della Augusta, di supporto alle piattaforme petrolifere hanno un accordo con il Governo italiano per sbarcare o trasbordare immediatamente le persone, mentre la scorsa estate, nel corso di una nostra missione, abbiamo ottenuto il salvataggio di 27 persone su una barca con il motore rotto con una tempesta in arrivo da parte di una nave, Maersk Etienne, diventata famosa per essere stata bloccata nel più lungo stand off di sempre (38 giorni tra Lampedusa e Malta).

In questo rientrano strategie prettamente economiche delle compagnie che prevedono delle perdite dovute ai blocchi successivi alle operazioni di salvataggio. Alcune compagnie hanno spostato le loro rotte più a nord per ridurre il rischio di essere coinvolte in casi di distress.

La Maersk (più grande compagnia mercantile al mondo) probabilmente ha calcolato che convenisse aspettare in silenzio con una nave bloccata per 5 settimane (con diversi tentativi di suicidio a bordo) piuttosto che fare pressioni sui governi europei.

Prima si parlava di blocchi delle navi e criminalizzazione dei movimenti, questi sono aspetti comuni tra le nostre lotte, due dei tanti che abbiamo individuato negli ultimi mesi, scegliendo di supportare pubblicamente i vostri scioperi e i vostri interventi contro i carichi d’armi.

Ed è evidente che siano lotte che stiamo svolgendo con qualche successo, a giudicare da quanto si stia impegnando la magistratura a criminalizzare le nostre attività di solidarietà.

Mentre l’Europa non solo continua ad alimentare i conflitti nel Sud Globale, ma costruisce un apparato militare immenso per respingere quanti fuggono proprio da quei conflitti, a finire sotto indagine oggi non c’è chi lascia che le persone anneghino in mare o chi stipula accordi con quei Paesi nei quali vengono violati i più elementari diritti umani, ma voi che organizzate scioperi e manifestazioni contro le navi della morte e noi che, nel Mediterraneo Centrale salviamo vite umane.

Mentre a voi vengono contestati reati di associazione a delinquere, le procure anti-mafia ci accusano dello stesso reato, oltre che di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Oppure ci fanno dei Port-State Controls, un metodo per tenerci fermi in porto per mesi sotto qualche pretesa – mentre da voi si muore sul lavoro per mancato rispetto delle norme sulla protezione dei lavoratori sui mercantili o sulle banchine.

E quindi c’è già molto che ci unisce. E noi siamo qui anche per approfondire questo legame –partendo da una riflessione proprio sullo slogan “porti chiusi alle armi, aperti ai migranti.

Quali sono i legami tra guerra e migrazione? Cosa unisce chi lotta contro la guerra nei porti e chi lotta contro la frontiera in mare?

Innanzitutto: il fatto che la gente fugge dalla guerra nei paesi di destinazione del materiale bellico che respingete dai vostri porti: zone di guerra come la Libia, lo Yemen, il confine tra Turchia e la Siria.

I nostri equipaggi sono da anni testimoni diretti delle violenze fisiche, psicologiche e sessuali subite da chi fugge da quei paesi a seguito di guerre, persecuzioni politiche, povertà endemiche.

Ai traumi vissuti nei paesi di origine si aggiungono anche quelli inenarrabili causati dai percorsi migratori forzati, in assenza di canali d’accesso sicuri. Ma la frontiera ci dimostra anche quanto la guerra e la costruzione di quest’apparato militare non siano fenomeni che riguardano solo paesi e popolazioni distanti.

La frontiera stessa è un teatro di guerra. L’apparato militare gestisce i centri di detenzione, gli hot-spot, il nostro mare e i paesi dell’altra sponda, attraverso infrastrutture punitive e carcerarie costruite coi nostri soldi, la nostra tecnologia e a nostro nome.

Nel Mediterraneo di oggi, non sono solo gli stati NATO che vengono sempre più coinvolti nella gestione delle frontiere; ma anche il capitale militare. La frontiera ormai è un’industria militare, un mercato enorme che entro il 2025 varrà oltre 65 miliardi di euro, in cui svolgono un ruolo da protagonista le aziende private specializzate nella progettazione e nel commercio di armi e tecnologie da guerra.

Per fare un esempio rilevante, uno dei paesi all’avanguardia dell’esportazione di apparati di sorveglianza non solo in Europa, ma anche negli USA e in Australia, è Israele. I droni usati da FRONTEX per dare supporto logistico alla cosiddetta Guardia Costiera libica sono stati inventati da Elbit Systems e Israel Aerospace Industries – entrambe aziende israeliane, che gestiscono l’apparato di controllo sul territorio palestinese.

Questi strumenti vengono testati prima sul popolo palestinese, per poi essere trapiantati sulla frontiera e usati nella guerra contro i migranti. I porti italiani sono una tappa non solo nello spostamento di armi dall’occidente verso l’oriente: la merce viaggia anche in direzione contraria.

Un terzo legame tra la guerra e la migrazione importante proprio per la dimensione internazionalista riguarda l’espansione militare e neocoloniale della frontiera in paesi terzi come la Libia o la Turchia.

Stati frontalieri che l’Unione Europea utilizza come mercenari nella lotta contro la migrazione, finanziandoli per condurre quelli che noi chiamiamo “respingimenti per delega”.

Questi finanziamenti europei – non più classificati come sussidi per lo sviluppo economico del paese ma come finanziamento a scopo puramente militare – legittimano regimi autoritari e risultano nel rafforzamento del controllo penale sia dei migranti che dei cittadini di quei stessi paesi. Ed è importante riconoscere quanto l’apparato della nostra frontiera condizioni le lotte sociali nei paesi dell’altra sponda.

Lì, come qui in Europa, la frontiera è uno strumento per la gestione della povertà. Facciamo solo l’esempio della Tunisia, dove centri di detenzione per i migranti, funzionano come recinto per i disoccupati e indebitati del paese – e offrono una risposta penale ad un problema sociale.

Nel frattempo, qui in Europa, la frontiera – in quanto sistema di criminalizzazione della miseria – serve a segmentare e disciplinare la forza lavoro. Chi non è utilizzabile viene lasciato morire; chi lo è,arriva marchiato.

Negli hot-spot, le persone migranti capiscono subito che il loro stare qui è soggetto al controllo poliziesco e che loro potranno in ogni momento essere dichiarate superflue.Insomma, la guerra che si gioca in frontiera è una lotta di classe, anche se questa è una dimensione spesso occultata nei discorsi sulla migrazione contemporanea.

Ma non vogliamo concludere con questo pessimismo. Anche se in questo contesto di lotta impari è normale sentirsi impotenti.

Ma tornando al mare, paradossalmente, una cosa che forse siamo in grado di vedere meglio noi che ci mobilitiamo proprio nel mare è che, anche se la frontiera si auto-rappresenta come un sistema iper-intelligente ed efficiente, una fortezza impenetrabile, la realtà è che è piena di buchi e punti deboli. I sistemi di sorveglianza si guastano in continuazione e non sono intelligenti quanto crediamo.

La frontiera europea è un apparato crudele e disumano ma non è invincibile. Si rompe in continuazione. Molto spesso viene sconfitto dai migranti stessi. Ogni volta che riescono ad attraversare il mare – a forzare il blocco.

Chloe Howe Haralambous, Francesco Bouchard

/Sea-Watch Italia.

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