Menu

Il “re di Wall Street” lancia un’opa sulla Casa Bianca

Gli Stati Uniti restano comunque, anche in piena crisi di egemonia, il paese-guida dell’area euro-atlantica, per ora la più grande concentrazione di potere economico e militare del pianeta, oltretutto dotata di una certa integrazione gerarchica.

Dunque le vicende preparatorie delle prossime elezioni presidenziali – a novembre 2024 – rivestono certamente mota importanza. Da quale “soluzione politica” si troverà a Washington dipendono molte cose, anche se non tutte, come avveniva solo 20 anni fa.

A bocce ferme sembra una partita stracca, tra due vecchi 80enni per diverse ragioni impresentabili. Biden per l’evidente rimbambimento senile, la frequenza con cui inciampa in pubblico, l’assoluta assenza di carisma. Trump, che avrà comunque 78 anni, per l’altrettanto evidente profilo delinquenziale, che lo rende certamente un pericolo pubblico internazionale ma soprattutto per i suoi cittadini.

Ma non va mai dimenticato che la presidenza degli States, anche se viene presentata e gestita come una partita tra apparenze individuali secondo il metro di misura del marketing politico (tutti i papabili sono in qualche misura manchurian candidate), è fondamentalmente il risultato di uno scontro feroce tra settori del capitale.

Ciò è stato abbastanza chiaro nelle ultime due tornate elettorali, con Trump (prima versus Hilary Clinton, vincendo, poi versus Biden perdendo) a rappresentare i “settori maturi” o residuali nell’assetto produttivo statunitense, come la manifattura, gli allevatori, l’agricoltura, e i “democratici” a fare i pupazzetti di Wall Street, ossia del capitale finanziario con grande proiezione multinazionale.

Che quest’ultimo non possa sopportare l’eventuale vittoria dei settori old, per di più se il tycoon col ciuffo fosse ancora in sella, è abbastanza risaputo; quasi ufficiale.

Ma anche il doversi affidare, come terminale operativo, ad un vecchio mestierante senza idee non appare per nulla soddisfacente.

Ed allora, come in ogni film hollywoodiano che si rispetti, ecco farsi avanti il bisogno di un “salvatore dell’America”, o per lo meno di Wall Street. Insomma direttamente un rappresentante del capitale finanziario stesso, di grandi capacità manageriali e nel pieno delle sue facoltà intellettuali/energie fisiche.

IlSOle24Ore, organo di Confindustria, si è incaricata stamane di presentarcelo. E’ James Dimon, amministratre delegato (Ceo, chief executive officer, nella dizione anglosassone) di JpMorgan, la più grande banca d’affari Usa (e quindi, ma forse, del mondo), davanti a Bank of America e Citigroup.

Non è certo la prima volta che un manager di livello arriva al vertice dell’amministrazione Usa. Anzi, è praticamente una abitudine di lunga durata. Ricordiamo la “banda dei Bush” (padre e figli) che venivano direttamente dal settore petrolifero, seppure padroni di società non di primo livello. Così come Dick Cheney, vicepresidente ma titolare di Halliburton (petrolio ed edilizia), Condoleeza Rice (direttamente dal cda di Chevron). Tutti “repubblicani”, ossia voci dei settori “maturi”.

Mentre i “democratici”, un tantino più discreti, si sono quasi sempre accontentati di “politici di professione” che, una volta eletti, imbottivano di manager finanziari la loro amministrazione.

Chiarissima, insomma, la divisione delle parti e dei settori di capitale.

Ma mai una star di Wall Street aveva provato ad “entrare in politica”, partendo direttamente dalla principale carica politica mondiale. Ovviamente con i “democratici”.

A suo modo, insomma, sarebbe un evento storico. Con molte ricadute di tipo politico e persino “culturale”.

Difficile far coincidere gli ideali della democrazia rappresentativa con una figura alla Gordon Gekko, ovvero con l’archetipo degli squali di Wall Street, capaci di distrugge industrie ed intere comunità se questo garantisce loro qualche “ragionevole profitto”.

Questa ostilità popolare per gli “squali della finanza” è molto più diffusa negli States che non qui in Europa. Un po’ perché lì sono più abituati a dover fare i conti con le conseguenze della loro azioni, ma anche perché l’idea di “essere il popolo”, e quindi la fonte di legittimazione del potere politico, è più radicata lì che non nella stanca Europa abituata a tollerare ancora i monarchi e gli aristocratici come figure degne di un qualche rispetto, anziché dell’odio assoluto.

Un po’ perché, per quanto grandi e ciniche siano le banche del Vecchio Continente, di certo non hanno quella dimensione e potenza.

Paradossalmente, quindi, la “discesa in campo” di uno come Jamie Dimon potrebbe aumentare la credibilità della proposta trumpiana, mentre – al contrario – probabilmente convincerebbe buona parte della “sinistra democratica” (i Bernie Sanders e le Ocasio Cortez, insomma) a ridurre quasi a zero il proprio “fiancheggiamento” del partito “democratico”. In ogni caso non sarebbe credibile per gli elettori delle classi popolari, con qualche effetto anche sulla stessa eleggibilità di Dimon o qualcuno con il suo “profilo”.

Se il “re di Wall Street” lancia un’opa sulla Casa Bianca vuol dire che quel sistema tutto è tranne che una “democrazia”. E’ come se dicesse “basta con i prestanome, ora ci pensiamo direttamente noi“.

Come si vede, quella che appare – al Sole e Confindustria – come una “eccellente soluzione” può rivelarsi un aggravamento del problema.

Ed è quel che accade quando una crisi sistemica si avvita su se stessa, moltiplicando tentativi in varie direzioni che producono tutti un risultato negativo.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

1 Commento


  • Eros Barone

    Il dato di fatto che occorre ribadire è che il Partito Democratico è il partito di Wall Street, espressione, creatura e strumento di un blocco di potere formato dalla frazione finanziaria del capitale monopolistico USA e dai vertici militari: una plutocrazia più una stratocrazia. Dal canto suo, Trump non è uscito dal nulla, la sua politica è reazionaria, razzista e sciovinista, ma non è un demone dell’inferno, essendo anch’esso, non diversamente da Biden, un tipico prodotto della società nord-americana. La dura contesa con la Cina e con la Russia e la subordinazione sempre più pesante dell’Unione Europea sono necessità strutturali di lungo periodo per l’imperialismo statunitense. Tutto ciò dimostra che gli Stati Uniti sono ormai entrati in una fase di crescenti turbolenze interne ed internazionali, che ne aggraveranno criticità e debolezze creando condizioni favorevoli allo sviluppo e alla radicalizzazione della lotta di classe non solo nell’America del Nord, ma in tutto il mondo. I comunisti, dal canto loro, non possono e non devono schierarsi con nessuna delle parti in campo, ma lavorare per costruire, tanto a livello internazionale quanto nei singoli paesi, quel campo autonomo e indipendente del proletariato rivoluzionario e delle forze antimperialiste, che consenta loro di conquistare gli strati popolari che oggi finiscono preda di avventure reazionarie le quali null’altro rappresentano se non nuove forme della medesima schiavitù: per usare la metafora con cui lo scrittore americano Gore Vidal ha definito il bipartitismo, l’altra ala della stessa aquila.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *