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I dubbi di Washington sul rinnovo della cooperazione scientifica con la Cina

Il 27 agosto scade lo Science and Technology Agreement (STA) tra USA e Cina, il primo accordo bilaterale firmato tra i due paesi all’indomani della normalizzazione dei rapporti nel 1979. Un’intesa che ha 44 anni di età e che viene rinnovata ogni cinque anni, ma questa volta nulla è scontato.

A fine giugno il presidente del Comitato Ristretto della Camera sul PCC, formato a inizio anno da rappresentanti repubblicani, ma che tra i membri annovera anche vari democratici, ha inviato una lettera al Segretario di Stato Blinken. Lui e altri nove repubblicani chiedono di non rinnovare il trattato.

La preoccupazione è che Pechino lo usi per sviluppare tecnologie dual-use. Per capirci, quelle tecnologie civili che possono essere utili sul piano bellico, anche se non direttamente ascrivibili ad esso (e aver fornito componenti di questo tipo alla Russia è l’accusa più volte mossa al Dragone).

Di recente, il think tank American Enterprise Institute ha prodotto un grafico che rappresenta visivamente quanto sarebbe la reale spesa militare cinese se vi considerassimo quella civile ad essa collegabile. Si tratta di 700 miliardi di dollari, comunque meno di quella ufficiale a stelle e strisce, per cui, come è ovvio, gli investimenti dual-use non sono considerati.

I dati sono “elaborati”, se così si può dire, su stime dell’intelligence rivelate dal senatore Daniel Sullivan. Un altro repubblicano che si aggiunge a quelli della lettera a Blinken, per i quali chiaramente le presidenziali del 2024 sono motivo di un tale attivismo anti-cinese.

Ma sullo sfondo c’è la guerra sulle tecnologie avanzate condotta a forza di sanzioni dalle potenze occidentali, a cui l’amministrazione democratica di Biden è tutt’altro che estranea. E anche in questa occasione il quadro di collaborazione contestato ha un impatto mondiale.

Questo tipo di trattati sono tipici tra tanti paesi e non sono in alcun modo vincolanti. Sono una sorta di cornice entro la quale vengono poi stipulate intese specifiche, che possono essere evitate se indesiderate, e in generale facilita il contatto e lo scambio tra istituzioni scientifiche e accademiche.

Su questi binari è stata costruita la condivisione di informazioni sanitarie e sono state formulate azioni comuni sul cambiamento climatico. Per fare un esempio, è a partire da un’intesa del genere che la Cina è diventata un centro di coordinamento mondiale della sorveglianza sull’influenza.

Oggi l’asimmetria tecnologica si va addirittura ribaltando. John Holdren, ex direttore dell’Office of Science and Technology Policy della Casa Bianca, ha affermato che, proprio in virtù dei progressi della scienza del Dragone, gli USA hanno interesse a mantenere contatti per imparare e migliorare.

Eppure, tra il 2018 e il 2021, il numero di studiosi con affiliazioni sia in Cina sia negli Stati Uniti è diminuito di oltre il 20%. È l’effetto della «caccia alla streghe» della China Initiative di Trump, un fallimento nel contrasto allo spionaggio industriale che evidenzia, però, il livello delle tensioni.

Lo STA non è intoccabile, è stato modificato più volte, in particolare per ciò che riguarda le garanzie sulla proprietà intellettuale. Nelle interlocuzioni preliminari i cinesi si sono già detti pronti a venire incontro alle richieste statunitensi, ma anche se a fine mese venisse rinnovato, è innegabile che il clima entro cui una tale cooperazione si è mossa fino a oggi è cambiato.

È la competizione globale e la perdita di egemonia dell’imperialismo euro-atlantico ad aver cambiato l’orizzonte di questo tipo di accordi. E la guerra del capitale, che sia economica o militare, sacrificherà senza ripensamenti anche lo sviluppo scientifico di cui potremmo giovare tutti.

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