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Si riapre lo scontro sui “Corridoi Strategici”. Competizione a tutto campo

All’inizio di questo secolo c’è stata la Nuova Via della Seta (BRI) proposta dalla Cina per facilitare gli scambi tra Asia ed Europa. Poi è arrivata “La Via del Cotone” (IMEC) avanzata dagli Stati Uniti in contrapposizione a quella cinese. Adesso, a scombinare le carte, si è inserita la Turchia.

Il presidente turco Erdogan, contrario al piano di un corridoio commerciale che colleghi l’Asia del sud e l’Europa senza passare dalla Turchia, ha rilanciato con un progetto alternativo per collegare Golfo Persico ed Europa. “Lo ho detto chiaramente e lo ripeto: senza la Turchia non si fa nessun corridoio” aveva tuonato Erdogan dopo il recente vertice del G20 a Delhi.

Al G20 i leader di India, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Unione Europea avevano firmato un protocollo di intesa per la realizzazione del progetto denominato India-Middle East-Europe Economic Corridor (Imec). Un progetto sostenuto soprattutto dagli Stati Uniti in antagonismo alla Belt Road Iniziative cinese.  Si tratta di un corridoio strategico basato su linee di collegamento marittime e ferroviarie con l’obiettivo di arrivare in Grecia attraverso Emirati Arabi, Arabia Saudita, Giordania e Israele.

Ma questo corridoio (che ha l’obiettivo di abbattere i tempi di consegna delle merci del 40% e risparmiare sui costi delle assicurazioni e del carburante) tagliava fuori la Turchia.

Erdogan ha immediatamente replicato che “La Turchia è un importante centro di commercio, la nostra posizione garantisce la linea di collegamento più’ conveniente da est a ovest. Se si vuole collegare il Golfo Persico con l’Europa la Turchia rimane la via più logica”.

A differenza del corridoio Imec,  quello avanzato da Erdogan prevede un sistema di collegamenti ferroviari e di autostrade che unisca i porti di Emirati e Qatar con l’Europa attraverso Iraq e Turchia.

Erdogan ha rivelato che Emirati, Qatar e Turchia sono “prontissimi a iniziare” e nessuno dei partner coinvolti “ha intenzione di perdere altro tempo”. Il progetto di sviluppo infrastrutturale riguarda essenzialmente l’Iraq e prevede la costruzione di una linea ferroviaria a doppio binario lunga circa 1.200 chilometri e un’autostrada di collegamento con il porto di Al-Faw, nella provincia irachena di Bassora.

Turchia e petromonarchie del Golfo hanno sottolineato la possibilità che il corridoio commerciale venga affiancato anche da oleodotti e gasdotti e da impianti industriali lungo il percorso. Si tratta di un investimento previsto di 17 miliardi di dollari, da cui si prevedono ricavi di 4 miliardi di dollari l’anno.

Lo scontro sui “corridoi strategici” risale però ai primi anni Novanta, quando dopo la dissoluzione dell’Urss agli interessi capitalistici si era aperto l’immenso spazio euroasiatico. Progetti per investimenti infrastrutturali si erano dipanati sulla mappa di questa parte del mondo con un reticolo di corridoi fatti da ferrovie, autostrade, oleodotti, gasdotti con l’obiettivo di fare arrivare nei paesi a capitalismo avanzato le risorse dell’Asia ex sovietica e facilitare la logistica delle merci in entrambe le direzioni.

Ma sui corridoi strategici si sono anche aperti o provocati conflitti feroci. I diritti di passaggio (le royalties) e la collocazione degli impianti industriali lungo il percorso, sono ben presti diventati una posta in gioco durissima.

Nel 1993 il progetto del Corridoio Baku-Ceyhan – dall’Azerbaijan alla Turchia mediterranea – doveva apertamente bypassare quello russo che sbucava sul Mar Nero (Novorossik). Lo scontro tra questi due progetti di corridoio, più noti come South Stream (russo) e Nabucco (statunitense) si è dipanato fino ai nostri giorni, innescando sanguinosi conflitti sui loro percorsi e sui quali in troppi hanno perso memoria.

Ad esempio il Nabucco doveva passare sul territorio dei curdi in Turchia, i quali da allora sono stati sottoposti ad una repressione sempre più feroce per “pacificare” il territorio. Analogamente iniziavano i “sifonamenti” e i sabotaggi degli oleodotti e gasdotti russi in Cecenia e in altre repubbliche caucasiche – che portarono a due ferocissime guerre – per indebolirne la competitività con il corridoio Baku-Ceyhan.

Perfino nei Balcani, lo scontro tra il Corridoio 8 (sostenuto da Usa e Gran Bretagna che sbucava sull’Adriatico) rispetto al Corridoio 10 (sostenuto da Mosca e Berlino e passando in Serbia sbucava in Germania), non è stato affatto estraneo alla guerra scatenata dalla Nato contro la Serbia nel 1999. Su questo abbiamo scritto ampiamente in quegli anni lavorando sulle intuizioni di un osservatore attento come Alberto Negri.

Curiosamente, i primi a parlare della Nuova Via della Seta furono gli Stati Uniti nel 1994 con il “Silk Road Strategy Act”. La stessa invasione dell’Afghanistan nel 2001 da parte degli Usa e della Nato va inquadrata ben dentro questa nuova geografia politica dei corridoi strategici in Asia.

In qualche modo anche il Tav in Val di Susa va inquadrato in questo scontro sui corridoi strategici, dove alle esigenze economiche si sono affiancate anche quelle militari.

La Nuova Via della Seta cinese è stata concepita in una fase di concertazione tra le maggiori economie mondiali sotto l’egemonia statunitense. Ma poi, alla fine del XX Secolo, dalla globalizzazione si è passati alla competizione globale e molte camere di compensazione – la Cina nel 2001 entrava nella Wto, la Russia dal 1997 era membro del G8 e nel 2002 chiese di entrare nella Nato – tra i vari interessi strategici delle maggiori potenze sono saltate.

Inoltre, se nei primi anni Novanta i Corridoi strategici erano asimmetrici (tutti dovevano convergere nell’area economica europea più ricca), adesso che le economie asiatiche corrono di più di quelle europee vanno pensati in duplice direzione…e a condizioni paritarie e reciprocamente vantaggiose.

Le insopprimibili necessità di una logistica efficiente e veloce in paesi capitalisti, dove la circolazione delle merci ha sopravanzato i problemi della loro produzione, hanno così riaperto lo scontro sui Corridoi strategici.

Ma stavolta gli attori in campo sono molto più numerosi di quelli dei primi anni Novanta. La spinta al multipolarismo è anche questo. Il problema è che, per dirla con Khol, questa sarà “una questione di pace o di guerra nel XXI Secolo

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2 Commenti


  • paolo regolini

    Se non mi sbaglio, in questo eccellente contributo -al tempo stesso politico, economico, militare e logistico- NON compare neppure una volta la parola “geopolitica”, che non significa quasi niente e tuttavia abundat in ore stultorum, assieme a “linea di faglia” o “resilienza” e simili amenità.
    Spesso usate impropriamente, talora per coprire con “latinorum” o “”inglesorum” vuoti abissali di comprensione e disamina dei fatti.
    Chi sa non necessita di vacui virtuosismi barocchi e può dire con parole semplici cose difficili, senza banalizzarle ma rendendole a tutti comprensibili e fruibili.
    Imparate, vecchie sempreverdi educande, giovani narcisisti virgulti, ciarlatani ad libitum: prima studiare, poi scrivere. Possibilmente senza scopiazzare qua e là, scadendo in risibili, tediose, inutili collettanee /rassegne stampa Schillaci style, di cui non si sente bisogno alcuno, in quanto perfettamente inutili.
    Come diceva quel serpente di rivoluzionario che risponde al nome di gesù cristo “.. il vostro parlare si sì il sì, no il no. Il di più viene dal maligno…” (Mt 5, 17-37)
    Senza altro aggiungere, quindi, paolo regolini


    • Redazione Roma

      Non si cita la geopolitica perchè è pur importante ma non basta a spiegare la complessità dei processi, una visione esclusivamente geopolitica è più che parziale. Sul resto delle osservazione facciamo fatica a seguirti

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