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Blue Collar Blues: lo sciopero dei lavoratori dell’auto negli USA

«Se non faremo progressi significativi entro mezzogiorno di venerdì 22 settembre, altre sezioni del sindaco saranno chiamate ad agire e ad unirsi allo sciopero».

Così ha affermato Shawn Fain, l’attuale presidente della United Auto Workers International, in un video-messaggio Facebook questo lunedì.

Finora lo sciopero del sindacato dei lavoratori dell’automotive  ha riguardato circa 13 mila lavoratori di tre stabilimenti delle Big 3 (General Motors, Ford e Stellantis), ma come già annunciato in precedenza potrebbe estendersi ad altri siti che verrebbero comunicati all’ultimo momento.

In altri stabilimenti la controparte padronale è ricorsa alla serrata, mandando a casa i lavoratori per mancanza dei pezzi.

Nei vari rally e nelle “pratiche di picchetto” uno dei cori più cantati dai membri del sindacato che raggruppa 146 mila lavoratori è stato: «We’re ready to strike».

Ma basta visionare i video provenienti dalle varie locals del sindacato per capire che è il morale è alto e fa abbastanza impressione vedere quella selve di braccia con il pugno alzato e la t-shirt della UAW.

Il fine dell’attuale direzione del sindacato non è far incrociare le braccia in tutti gli stabilimenti delle Big 3 – ipotesi che rimane comunque sul tappeto – ma costringere la controparte a cedere rispetto alle richieste dei lavoratori, senza dissanguare le casse del sindacato (che paga 500 dollari alla settimana più una quota dell’assicurazione sanitaria ad ogni scioperante).

Come afferma lo storico del movimento operaio statunitense Erik Loomis, la strategia adottata da Fain: «crea uno scenario a cui le aziende non possono realmente prepararsi» prendendo le dovuto contromosse.

Lo sciopero ha sempre più una valenza “politica” ed inquieta l’attuale amministrazione statunitense, in bilico tra cercare di limitare l’impatto negativo sull’economia e non alienarsi le simpatie della base sindacale ad un anno dalle elezioni presidenziali, dove una manciata di voti determinerà le sorti degli sfidanti specie nei Swing State.

In Michigan – cuore produttivo dell’industria automobilistica del Mid-West – Biden vinse di un soffio con il 50,6%.

In Pennsylvania, quattro anni prima, parte della base del sindacato – storico bastione dei democratici – voltò loro le spalle per l’ex outsider del Grand Old Party.

Trump ha detto che non parteciperà al secondo dibattito delle primarie dei Repubblicani, e che si recherà a Detroit nel Michigan per fare un discorso agli scioperanti.

Fain ha praticamente detto a Biden che l’endorsement del sindacato se lo deve guadagnare e che non vuole ingerenze nelle trattative da parte dell’attuale amministrazione.

Riferendosi a Trump, il presidente della UAW ha affermato: «Ogni singola fibra del nostro sindacato è in gioco per combattere la classe dei miliardari e un’economia che arricchisce persone come Donald Trump a discapito dei lavoratori».

Insomma, un bell’esempio di autonomia sindacale reale rispetto alla politica.

La battaglia che la la UAW sta conducendo è sia per ripristinare standard complessivi che avevano caratterizzato la categorie grazie ad un lungo processo di lotte condotte a partire dagli Anni Trenta proprio per il riconoscimento del sindacato – allora parte della Congress for Industrial Organization (CIO), che nel dopoguerra si unì all’ American Federation of Labor – e dall’altro per fare sì che la transizione all’elettrico non si risolva in disoccupazione per i lavoratori degli stabilimenti sindacalizzati.

Il timore è anche che non sia prevista la presenza del sindacato nei nuovi stabilimenti per l’auto elettrica.

In una vecchia intervista al Financial Times, Jim Farley, CEO della Ford, aveva affermato che il passaggio all’elettrico comporterà una riduzione della manodopera di circa il 40%, mentre un precedente studio del sindacato stimava a 35 mila i posti di lavoro in meno.

Nell’impostare la transizione ecologica nel settore – si pensi alle massicce sovvenzioni statali per gli investimenti green, note come IRA (Inflation Reduction Act) – l’attuale amministrazione ha posto l’accento sulla collocazione dei posti di lavoro in Nord America, e non sul fatto che dovessero essere union labor, a differenza delle promesse iniziali.

Re-industrializzazione sì, insomma, ma senza le garanzie possibili grazie alla presenza del sindacato.

Tesla e Rivian – i due maggiori produttori di veicoli elettrici statunitensi – si caratterizzano già ora per l’accesa attività antisindacale, tesa a non far attecchire la UAW al proprio interno (specie nell’azienda che fa capo a Musk), ma anche le ‘Big 3’ che investono in joint venture con aziende straniere vogliono tenere il sindacato fuori dei cancelli.

Questo tabù antisindacale è stato rotto in uno stabilimento del Nord-Est dell’Ohio, dove i circa 700 lavoratori della Ultium Cells – una joint venture tra General Motors e la sud-coreana S.K. – hanno votato poco meno di un anno fa per entrare il sindacato.

Una prima significativa vittoria, ma che si affianca a numerose sconfitte in altri stabilimenti del Sud. La tedesca VW ha investito nel sud degli Stati Uniti e pratica l’union busting, così come le altre aziende.

A volte, come nel caso di uno stabilimento della Rivian, si tratta di un’azienda che ha rilevato uno stabilimento in fallimento (ex-Mitsubishi) assumendo parte delle stesse maestranze, ma ha tenuto fuori la UAW.

Nel settore dell’automotive attualmente lavorano  negli USA poco meno di un milione di addetti: 390mila in produzione diretta e 539mila nella supply chain della componentistica. La forza lavoro sindacalizzata è circa il 16% contro un tasso di sindacalizzazione complessivo negli USA del 10%.

La presenza del sindacato o meno ha un preciso riflesso salariale. Nelle aziende off limits gli stipendi – comunque tendenzialmente in calo dal 1990 – sono inferiori di oltre il 10%.

Se il mercato delle auto elettriche riguarda solo l’8% del totale del settore, il numero di impiegati e gli investimenti in electric vehicle sono in netto aumento.

I lavoratori dell’automotive di fatto combattono contro gli effetti che il salto di qualità tecnologico prevedibilmente imporrà alla categoria, così come stanno facendo da più di un mese i lavoratori dello spettacolo di Hollywood, i lavoratori del settore aeroportuale ed i lavoratori degli scali portuali dell’Ovest.

Insomma, una battaglia comune contro un processo di ristrutturazione articolato ma unitario.

Per tornare al video-messaggio di Fain, il presidente della UAW fa un parallelo proprio tra due fasi di grandi cambiamento negli Anni Trenta ed oggi. Non per nulla il tipo di azione intrapresa è stata battezzata con la pratica del Stand Up Strike di quegli anni, quando gli operai occuparono le fabbriche della GM.

«We are not waiting around and we’re not messing around», afferma Fain, in sostanza dicendo che non vogliono perdere altro tempo visto che le richieste della UAW sono state consegnate 8 settimane fa.

Una nuova deadline è stata data e a questo nuovo appuntamento i lavoratori si faranno trovare nuovamente pronti.

Ed il blues delle tute blu sembra molto indigesto,e sia per l’establishment del Partito Democratico sia per quello repubblicano.

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1 Commento


  • Maurizio

    qui c’è stata la camusso e poi landini, ho detto tutto

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