Giovedì 9 dicembre il Partito Socialista Spagnolo (PSOE) ha trovato un accordo con la formazione indipendentista catalana Insieme per la Catalogna (Junts), la formazione dell’expresident calano Carles Puigdemont che si trova a Bruxelles “in esilio”.
I contenuti dell’accordo comunicato giovedì mattina sono stati resi noti integralmente dal quotidiano spagnolo El País e prevedono la promulgazione di una legge per l’amnistia per tutti i reati connessi direttamente al processo indipendentista – Procés, in catalano – dal 2012 al 2023.
Un risultato difficilmente immaginabile fino a poco tempo fa, ma che i risultati scaturiti dalle urne a luglio hanno di fatto imposto per far “restare in sella” Sanchez e non andare verso le ennesime elezioni, che sarebbero state probabilmente un altro salto a vuoto.
Secondo quanto reso noto da uno dei capi-negoziatori dei socialisti, Santos Cerdan, non si tratterebbe di un “accordo di investitura”, ma “di legislatura”, in grado cioè di assicurare “la stabilità governativa durante la legislatura di quattro anni”.
Finora la stabilità governativa è sembrata però un “miraggio”.
Il 29 maggio scorso, il giorno dopo la tenuta di alcune elezioni municipali e regionali, il leader socialista Sanchez, a capo dell’esecutivo uscente, aveva annunciato lo scioglimento delle Camere e la tenuta delle elezioni anticipate.
Queste sono state una scommessa in cui il PSOE si è giocato il “tutto per tutto”, sfruttando una dinamica prepotentemente bipolare che ha visto di fatto riassorbita l’anomalia di Podemos dentro Sumar, la creatura politica diretta da Yolanda Diaz, e il ridimensionamento dell’estrema destra di Vox come forza quasi “normalizzata” dal Partido Popular, con cui governa differenti regioni, che certo non avrebbe disdegnato far parte dell’esecutivo.
Prima di Junts, il PSOE aveva già raggiunto l’accordo con l’altra formazione indipendentista presente nel Parlamento spagnolo – la “sinistra repubblicana” della ERC – ed ha impiegato sette giorni a raggiungere il compromesso con Junts, che ha ottenuto la creazione di una “mesa de dialogo” monitorata da attori internazionali.
Insomma, l’abbozzo di un vero e proprio processo di pace internazionalmente riconosciuto, che dovrebbe sanare le ferite apertesi, e mai più richiuse, nel 2017.
Carles Puigdemont ha salutato positivamente il fatto che d’ora in avanti, all’interno di un processo di confronto che sarà senz’altro serrato e che parte da presupposti molto differenti – la realizzazione dell’Estatut 2006 per i socialisti, un referendum consultivo, secondo quanto dice l’articolo 92 della Costituzione post-franchista, per Junts – il conflitto tra la Spagna e la Catalogna sarà posto nel “campo della politica”.
Un processo di normalizzazione delle relazioni che ha di fatto derubricato la tenuta di un referendum, a differenza della CUP che nel Parlamento catalano l’ha proposto, risultando però sola al momento del voto.
9 i voti favorevoli, 55 i contrari (PSC, Vox, Communes, PP) e 59 gli astenuti (Junts ed ERC).
Una scelta, quella di Junts ed ERC, che è stata osteggiata dalla corrente più intransigente del movimento indipendentista.
Non è possibile per il momento capire quali saranno le conseguenze di questo accantonamento dell’ipotesi del referendum sul movimento indipendentista nel suo complesso.
Insieme alla legge di amnistia, che dovrà essere sottoscritta da tutte le formazioni a sostegno dell’investitura di Sanchez (PSOE, SUMAR, ERC, JUNTS, Bildu e BNG), l’altra condizione per formare il nuovo governo è la conclusione di un accordo politico con il partito “autonomista” basco PNV, ma non dovrebbe essere un ostacolo insormontabile.
Da giovedì – secondo la legge elettorale spagnola – sono rimasti infatti solo 18 giorni per investire un capo di governo, pena il dovere tornare alle urne il 14 gennaio.
Sanchez governa il paese dal giugno 2018, ed ha rinnovato il rapporto alla sua sinistra – prima con Unidos Podemos ed ora con Sumar – come asse della sua maggioranza.
Ma è chiaro che in questo esecutivo le formazioni regionali di natura progressista (ERC per la Catalogna, Bildu per i baschi, il BNG per i galiziani) avranno un peso maggiore, cosa che però non si tradurrà immediatamente in capacità di incidere sulle scelte di fondo di un governo a trazione socialista.
L’investitura di Sanchez è ora un obiettivo alla portata dei socialisti, però è chiaro che l’amnistia per coloro che sono stati coinvolti ‘in fatti di rilevanza penale’ nel corso del processo indipendentista nell’ultimo decennio dovrà essere giuridicamente “blindata”, in modo da non poter essere annullata da un’interpretazione dei giudici.
Va infatti ricordato che una parte consistente del potere giudiziario ha già espresso nelle dichiarazioni e nei fatti la propria indole reazionaria rispetto alla soluzione politica e non penale del conflitto, e che dunque uno scontro di potere tra potere esecutivo e giudiziario è sempre dietro l’angolo.
Da circa una settimana non mancano le proteste promosse dalla destra neo-falangista di Vox contro l’ipotesi di amnistia di fronte alla sede del partito socialista a Madrid.
I video relativi mostrano un tripudio di slogan e riferimenti chiaramente franchisti, con il capo della formazione – Santiago Abascal – che ha chiesto di fatto alla polizia di “disobbedire” agli ordini governativi, definendo l’accordo dei socialisti un “colpo di Stato”. Il PP ha peraltro preso molto timidamente le distanze dalle violenze di piazza.
La presidente della regione di Madrid, Isabel Diaz Ayuso, si è spinta fino ad accusare il primo ministro di voler realizzare una “dittatura”. C’è insomma una clima di forte polarizzazione politica che rischia la drammatizzazione nei prossimi giorni, come sembrano dimostrare i fatti delle ultime ore.
Alberto Nuñez Feijoo, leader del PP, nonostante fosse a capo del partito maggiormente votato nelle votazioni anticipate del 23 luglio, non è stato in grado di farsi nominare come primo ministro, alla fine di settembre, per insufficienza dei numeri in Parlamento, dove poteva contare quasi esclusivamente sull’appoggio di Vox.
Il 27 settembre infatti ha ricevuto solo 172 voti favorevoli (PP, VOX ed una formazione delle Canarie), contro 178 contrari. Uno scenario che si è ripetuto di lì a pochi giorni con un nulla di fatto che però a sdoganato l’ipotesi che un governo conservatore in Spagna possa essere appoggiato dai neo-fascisti.
Un fatto non nuovo in Unione Europea.
Ora tocca a Sanchez che, sulla carta, ha i numeri per riuscire.
In una prima votazione sono necessari 176 voci per poi andare dal Re e ricevere l’incarico di formare il governo – la Spagna è una monarchia, va ricordato – mentre nella votazione successiva, da tenere entro 48 ore dopo, basta una maggioranza semplice dei 350 deputati.
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