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Gli Stati Uniti e la NATO militarizzano l’Asia nordorientale

La Nuova Guerra Fredda si sta rapidamente intensificando, con gravi conseguenze per le persone in tutto il mondo. La nostra serie di briefing fornisce i dati chiave su questi problemi di preoccupazione globale.

Il 22 ottobre, gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud hanno tenuto il loro primo esercizio aereo congiunto. L’esercitazione militare ha avuto luogo dopo che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il primo ministro giapponese Fumio Kishida e il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol si sono riuniti a Camp David ad agosto “per inaugurare una nuova era di partenariato trilaterale”.

Sebbene la Corea del Nord sia stata spesso evocata come un nemico regionale per giustificare la militarizzazione, la formazione di una coalizione trilaterale tra gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud è un elemento chiave degli sforzi di Washington per contenere la Cina.

La militarizzazione del Nordest dell’Asia minaccia di dividere la regione in blocchi antagonisti, minando decenni di cooperazione economica reciproca e aumentando la probabilità di scoppio di un conflitto, in particolare riguardo a Taiwan, coinvolgendo i paesi vicini in una rete di alleanze.

La Remilitarizzazione del Giappone

Negli ultimi anni, incoraggiato dagli Stati Uniti, il Giappone ha subito la sua più ampia militarizzazione dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Dopo la sconfitta del Giappone, una nuova costituzione postbellica fu stilata da funzionari di occupazione degli Stati Uniti ed entrò in vigore nel 1947.

In base a questa “costituzione della pace”, il Giappone si impegnò a “rinunciare per sempre alla guerra […] e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le dispute internazionali“.

Tuttavia, con la Rivoluzione Cinese del 1949 e lo scoppio della Guerra di Corea nel 1950, gli Stati Uniti cambiarono rapidamente rotta in Giappone. Secondo gli storici del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, “l’idea di un Giappone nuovamente armato e militante non allarmava più i funzionari statunitensi; al contrario, la vera minaccia sembrava essere l’espansione del comunismo, in particolare in Asia“.

La causa della modifica e dell’elusione della “costituzione della pace” del Giappone fu presa in carico dal partito nazionalista di destra, il Partito Liberale Democratico (LDP), che ricevette milioni di dollari di sostegno dalla Central Intelligence Agency (CIA) degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda e governa il paese quasi senza interruzioni (tranne nel 1993-1994 e nel 2009-2012) dal 1955.

Nell’ultimo decennio, il LDP ha trasformato la politica di difesa del Giappone. Nel 2014, non riuscendo a modificare la costituzione, il governo del LDP guidato da Shinzo Abe l’ha “reinterpretata” per consentire una “pacifismo proattivo” e ha revocato il divieto delle truppe giapponesi di partecipare a combattimenti all’estero, consentendo al paese di partecipare a interventi militari per aiutare gli alleati, come gli Stati Uniti.

Nel 2022, l’amministrazione Kishida ha definito la Cina “la sfida strategica più grande mai posta alla pace e alla stabilità del Giappone” e ha annunciato piani per raddoppiare la spesa militare al 2% del prodotto interno lordo (in linea con i paesi NATO) entro il 2027, rovesciando il limite imposto al Giappone dopo la guerra che limitava la spesa militare all’1% del PIL.

L’amministrazione ha anche abrogato una politica risalente al 1956 che limitava la capacità missilistica del Giappone a difendersi dai missili in arrivo ed ha adottato una politica che consente la possibilità di colpire in risposta.

Questa mossa ha aperto la strada per l’acquisto di 400 missili Tomahawk statunitensi a partire dal 2025, con la capacità di colpire le basi navali cinesi e russe situate sulle coste orientali dei rispettivi paesi.

Assoluzione del Colonialismo Giapponese

Storicamente, gli sforzi di Washington nel creare alleanze multilaterali nell’Asia-Pacifico sono falliti a causa del retaggio del colonialismo giapponese. Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti ricorsero a una rete di alleanze bilaterali con i paesi della regione conosciuta come il “Sistema di San Francisco”.

Il primo passo nella creazione di questo sistema fu il Trattato di Pace di San Francisco (1951), che stabilì relazioni pacifiche tra le Potenze Alleate e il Giappone.

Per accelerare l’integrazione del Giappone come alleato, gli Stati Uniti esclusero le vittime del colonialismo giapponese (tra cui la Cina, l’amministrazione guidata dal Kuomintang a Taiwan e entrambe le Coree) dalla conferenza di pace di San Francisco e scusarono Tokyo dall’assumersi la responsabilità dei suoi crimini coloniali e di guerra (tra cui massacri, schiavitù sessuale, sperimentazione umana e lavoro forzato).

La nuova alleanza trilaterale tra gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud è riuscita a superare gli ostacoli precedenti perché l’amministrazione di Yoon in Corea del Sud ha sospeso la responsabilità del Giappone per i crimini commessi durante il suo dominio coloniale sulla Corea (1910-1945).

In particolare, l’amministrazione di Yoon ha abbandonato una sentenza del 2018 della Corte Suprema sudcoreana che riteneva responsabili le aziende giapponesi come la Mitsubishi per il lavoro forzato dei coreani. Invece di essere finalmente ritenuto responsabile, il Giappone è stato nuovamente esonerato.

Verso una NATO asiatica?

Nel 2022, la NATO ha nominato la Cina una sfida per la sicurezza per la prima volta. Quell’anno, il summit è stato anche il primo a cui hanno partecipato leader della regione Asia-Pacifico, tra cui Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda (questi quattro paesi hanno partecipato nuovamente nel 2023).

Nel frattempo, a maggio, è stato riferito che la NATO stava pianificando di aprire un “ufficio di collegamento” in Giappone, anche se la proposta sembra essere stata accantonata, almeno per ora.

L’alleanza trilaterale Stati Uniti-Giappone-Corea del Sud rappresenta un passo importante verso il raggiungimento di capacità di livello NATO in Asia, in particolare in termini di interoperabilità riguardo alle forze armate, all’infrastruttura e alle informazioni.

L’accordo raggiunto nel meeting di Camp David ad agosto impegna ciascun paese a incontri annuali e a esercitazioni militari. Queste esercitazioni militari permettono alle tre forze armate di praticare la condivisione di dati e la coordinazione delle attività in tempo reale.

Inoltre, l’Accordo Generale sulla Sicurezza delle Informazioni Militari (GSOMIA) tra il Giappone e la Corea del Sud – molto ambito dagli Stati Uniti – estende la condivisione di informazioni militari tra i due paesi non solo alla “limitazione ai missili e ai programmi nucleari della Corea del Nord“, ma anche alle “minacce dalla Cina e dalla Russia“.

Questo consente agli Stati Uniti, al Giappone e alla Corea del Sud di sviluppare un quadro operativo comune, la base dell’interoperabilità nel teatro militare del Nordest asiatico.

Promuovere la pace

All’inizio di quest’anno, in riferimento all’Asia-Pacifico, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Cina, Nicholas Burns, ha dichiarato che il suo paese è “il leader in questa regione”.

Mentre la Cina ha proposto un concetto di “sicurezza indivisibile“, che significa che la sicurezza di un paese dipende dalla sicurezza di tutti, gli Stati Uniti adottano un approccio ostile che cerca di formare blocchi esclusivi.

L’atteggiamento egemonico di Washington verso l’Asia sta alimentando le tensioni e spingendo la regione verso conflitti e guerre, in particolare riguardo a Taiwan, che Pechino ha definito una “linea rossa“.

Per scongiurare la situazione nel Nordest asiatico sarà necessario allontanarsi da una strategia basata sul mantenimento del predominio degli Stati Uniti. Coloro posizionati per guidare questo movimento sono le persone che già stanno lottando sul fronte, dai cittadini di Gangjeong che si oppongono a una base navale per le navi da guerra degli Stati Uniti dal 2007 agli abitanti di Okinawa che lottano per non essere più l’aeromobile portante insulare degli Stati Uniti, fino alle persone di Taiwan che potrebbero alla fine essere le più colpite da una guerra nella regione.

* da No Cold War

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    BANGLADESH: SCIOPERI E MANIFESTAZIONI PER AUMENTI SALARIALI NELLE AZIENDE DELL’ABBIGLIAMENTO

    Gianni Sartori

    Le proteste dei lavoratori del tessile in Bangladesh sono ricorrenti per cui non è il caso di stabilire quale sia stato l’inizio dell’ultima fase, abbastanza radicale da forare il muro dell’informazione.

    Considerando soltanto gli ultimi quindici giorni va ricordato che nella mattinata del 30 ottobre gli operai di alcune aziende di Gazipur, Ashulia e Savar (ma le lotte si erano presto estese ad altre località) avevano protestato vigorosamente con manifestazioni, picchetti e anche bloccando l’autostrada.

    Da tempo i lavoratori (in maggioranza donne) chiedono un aumento: il triplo dell’attuale salario mensile minimo di 8300 takas (70 euro). Con la richiesta di arrivare a 23mila takas (190 euro) indispensabili per affrontare l’aumento del costo della vita.

    Fatalmente erano scoppiati duri scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Le cariche si intensificavano nel pomeriggio con ampio uso di manganelli e gas lacrimogeni.

    Nel corso degli incidenti un lavoratore di un’azienda del gruppo Energy Pack (Rasel Hawlader) rimaneva a terra cadavere per un colpo di arma da fuoco. Il fatto non poteva che infiammare ulteriormente la protesta. Gli operai in lotta, dopo aver incendiato un furgone della polizia, avevano forzato l’ingresso della Jamuma Fashion e di qualche altra azienda. Compiendo all’interno azioni di sabotaggio e devastazione. In particolare la fabbrica di confezioni ABM di Konabari veniva data alle fiamme risultando completamente distrutta.

    Altri scontri si registravano nella prima settimana di novembre nella città di Ashulia (a ovest di Dacca) quando circa diecimila operai hanno tentato di impedire la ripresa del lavoro nel corso di uno sciopero di massa che aveva coinvolto oltre seicento aziende. I manifestanti, oltre a scagliare pietre e mattoni sulla polizia che sparava proiettili di plastica, tentavano di bloccare le strade.

    Tra i feriti più gravi, una donna di 35 anni colpita al volto durante la protesta che si svolgeva a Sreepur (una sessantina di chilometri da Dacca).

    Le aziende coinvolte nello sciopero erano centinaia, comprese alcune delle più grandi del Paese (Gap, Walmart, H&M, Zara, Bestseller, Levi’s, Marks and Spencer, Primark, Aldi…).

    Per sopire le proteste gli industriali avevano garantito un congruo aumento dei salari entro una settimana. Aumento che alla prova dei fatti risulterà comunque inconsistente (se non addirittura “ridicolo” stando ad alcune fonti sindacali).

    Secondo soltanto alla Cina, il Bangladesh al momento risulta essere uno dei maggiori esportatori nel campo dell’abbigliamento. Con oltre 3500 aziende e quasi quattro milioni di lavoratori, in maggioranza donne.

    Ancora lanci di gas lacrimogeni e di pallottole di plastica il 9 novembre contro gli operai che a migliaia manifestavano per l’inconsistenza dei previsti aumenti. Da parte dei sindacati inoltre venivano denunciati arresti e intimidazioni.

    Il 7 novembre il comitato del salario minimo aveva fornito i dati dell’aumento salariale per circa quattro milioni di lavoratori del tessile. Si trattava del 56,25% del salario mensile di base, per cui si arrivava a 12.500 takas (104 euro). Cifra giudicata irrilevante di fronte all’aumento del costo della vita e quindi rigettata da lavoratori e sindacati.

    Tra le maggiori proteste, quella di Gazipur dove venivano nuovamente bloccate alcune strade. Venivano erette barricate, poi date alle fiamme e lanciate pietre contro le forze dell’ordine. Anche nella periferia nord di Dacca migliaia di operai erano usciti dalle fabbriche di Ashulia e scesi nelle strade per protestare. Un esponete della Federazione indipendente degli operai dell’abbigliamento del Bangladesh, Mohammad Jewel, veniva arrestato e tre operai (quelli finora accertati) perdevano la vita nel corso della protesta.

    Gianni Sartori

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