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Forni crematori in Colombia: l’orrore dall’estrema destra contro contadini e sindacalisti

Fino a che punto una classe dominante è disposta alla barbarie pur di mantenere il potere nelle proprie mani? Dove si può spingere il terrorismo finanziato da una delle oligarchie più ricche di un continente, sostenuta dagli Stati Uniti, pur di non cedere una parte dei propri enormi privilegi?

La domanda sorge spontanea investigando la storia recente della Colombia in cui la lista degli orrori sembra non aver fine, né in quantità né in modalità: tre forni crematori sono stati “rinvenuti” vicino la regione del Catatumbo, alla frontiera con il Venezuela vicino la città di Cucuta.

Si parla di centinaia di persone cremate all’interno dei forni a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000, nel decennio in cui l’impiego dei paramilitari si fece più duro e pesante su tutto il territorio nazionale. Le ceneri furono sparse nei fiumi limitrofi o sciolte nell’acido in modo da cancellare qualsiasi traccia della loro esistenza. Centinaia di persone hanno quindi semplicemente smesso di esistere, cancellandone il corpo si negò anche il fatto che fossero esistite. 

Non era l’unico modo utilizzato per cancellare l’evidenza dei propri atti: nella stessa zona stanno emergendo dichiarazioni di ex paramilitari rispetto all’utilizzo di allevamenti di caimani e di maiali per far sparire i corpi di contadini e leader sociali locali.

Secondo le dichiarazioni dell’Unità di ricerca di persone date per disperse sarebbero più di 5.000 i siti in Colombia nei quali si dovranno cercare i corpi “desaparecidos”. Si stima infatti che tra le 120 e le 200 mila persone furono desaparecidas durante il conflitto delle ultime decadi, di cui quelle civili in grandissima parte per mano paramilitare. 

Secondo il medico Saul Franco de la Commission de la Verdad i forni vennero pensati “per la quantità di cadaveri che c’erano da tutte le parti. I dirigenti politici comunicarono che era necessario eliminarli, non solo per questione di immagine quanto perché evidenziavano l’intensità della guerra”.

Questo è quanto emerge dalle dichiarazioni dell’ex comandante paramilitare Salvatore Mancuso. Attualmente recluso in un carcere statunitense, negli ultimi anni si sta dimostrando un testimone chiave per gettare luce sulle responsabilità degli attori politici che promossero e trassero benefici dalla violenza paramilitare.

Le ultime dichiarazioni rilasciate alla Jurisdicción Especial para la Paz (Jep) inchiodano vari esponenti politici alle proprie responsabilità di mandati diretti delle atrocità commesse in quel periodo, prima tra tutti l’ex presidente Alvaro Uribe accusato di aver pianificato personalmente una strage di civili. 

La storia colombiana però non è slegata dalle vicende internazionali e dalle influenze straniere. Con la fine della guerra fredda gli Stati Uniti poterono concentrare i propri sforzi per combattere frontalmente la più grande e antica guerrilla del continente e sostenere il barcollante Stato colombiano avviando un’enorme operazione di sostegno militare, logistico e finanziario denominata Plan Colombia.

Ufficialmente diretto contro il narcotraffico, trasformò nella realtà il Paese nel primo produttore al mondo di cocaina e nonché patria di alcuni dei cartelli della droga più grandi che spadroneggiano nel Continente (come dimostra il caso dell’Ecuador di questi giorni).

Gli USA dirottarono in quindici anni più di dieci miliardi di dollari a sostegno della “modernizzazione dello Stato” e dell’esercito colombiano, trasformando Colombia nel secondo capitolo di spesa estera, dopo Israele, degli Stati Uniti.

Furono aperte sette basi militari dichiarate, più altri punti di stanziamento di truppe in territorio colombiano, sostenute dalla più grande ambasciata USA all’estero (superata in dimensioni solo da quella di Kabul durante l’occupazione dell’Afghanistan).

I militari statunitensi in Colombia potevano agire liberamente come se fossero su suolo nazionale con una immunità totale, qualsiasi crimine contestato verrà processato solo in patria. Un accordo militare che ricorda tristemente quello che sta stipulando l’Ecuador in queste settimane. 

Dalla caduta del muro di Berlino si assiste quindi a una rinnovata strategia contro-insurgente che vide tra le altre cose la creazione e addestramento di brigate paramilitari per tentare di piegare la guerriglia delle FARC-EP e soprattutto distruggere e terrorizzare il tessuto sociale che viveva nelle campagne.

La violenza paramilitare fu una mazza che si abbatté sul popolo colombiano, usata non solo per combattere la guerriglia con metodi più brutali di quelli che erano teoricamente consentiti all’esercito, ma per spazzare via qualsiasi movimento popolare esistente e accrescere lo strapotere di latifondisti e industriali.

La concentrazione della terra in uno dei paesi più diseguali al mondo, unico nella regione a non aver mai effettuato una riforma agraria dai tempi delle colonie, riuscì addirittura ad aumentare toccando oggi l’indice di concentrazione 0,89 (dove il valore 1 significa un solo proprietario di tutto il territorio nazionale).

Oggi gli sforzi del nuovo esecutivo guidato da Petro, il primo a marca progressista nella storia della Colombia, sono volti a rilanciare un’agenda di profonda rinnovazione del Paese, delle istituzioni statali e della ricostruzione della verità storica rispetto al conflitto, oltre che avviare un dialogo di pace a tutto tondo con i vari gruppi armati presenti nel Paese.

Proprio nell’ottica della ricostruzione della memoria storica di quanto avvenuto nel conflitto colombiano e delle responsabilità di parte dello Stato in questi fatti, il Governo ha lanciato negli scorsi mesi un’importante cerimonia pubblica di incontro tra istituzioni statali, rappresentanti diplomatici e associazioni delle vittime all’interno del processo di Pace Totale e per la No Repetición. 

Durante l’evento il cancelliere Álvaro Leyva Durán ha dichiarato che il terreno in cui sorgono i forni sarà dato in gestione ai familiari delle vittime per la realizzazione di un centro della memoria, ispirandosi all’esperienza di alcuni musei creati nei campi di sterminio nazifascisti europei.  

Il progetto politico dell’esecutivo si trova di fronte a una strada tutta in salita ma intrapresa con determinazione, affrontando i grossi attori economici e politici che non accettano né la perdita del controllo del governo né tanto meno che emergano le relazioni tra paramilitarismo, narcotraffico e politica che tutt’oggi determinano una parte importante dello spettro politico del paese.

Per quanto l’evidenza di presenza paramilitare si sia ridotta negli ultimi anni, essi restano un mano oscura che opera nel Paese, continuando a liquidare oppositori sociali e determinando importanti dinamiche della gestione del potere. Solo negli ultimi tre anni sono più di 1.500 i leader sociali uccisi, in un periodo di supposta pacificazione del Paese. 

Resta fondamentale il lavoro che attualmente sta svolgendo la Jurisdicción Especial para la Paz (Jep) che ha riconosciuto da poco l’ex leader paramilitare Mancuso come un componente de facto delle forze armate colombiane, quindi accoglibile sotto la propria giurisdizione giacché egli operava in coordinazione diretta con i più alti gradi dell’esercito e delle forze politiche avendo a disposizione distintivi ufficiali delle varie forze armate (il Congresso del governo di destra precedente si era affrettato a impedire che paramilitari potessero testimoniare ed entrare sotto la giurisdizione della Jep proprio per impedire la riapertura di quel capitolo di storia). 

La Colombia del Gobierno del Cambio di Petro continua il cammino di riforme strutturali interne al Paese, di restituzione della verità storica e assumendo posizionamenti internazionali coraggiosi come dimostra il recente sostegno al popolo palestinese e le dure parole dirette contro Israele, postura che ha portato i due paesi al limite della rottura diplomatica.

Azioni importanti, dirette verso orizzonti politici impensabili fino a qualche anno fa nel Paese latinoamericano. 

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