L’ingegnere Ferras Hamad, statunitense di origine palestinese, ha intentato una causa contro il colosso dei social media Meta per discriminazione e licenziamento illecito. Ad un tribunale della California ha infatti sostenuto di aver perso il proprio posto di lavoro per aver impedito la censura di contenuti riguardanti la Palestina.
Hamad era impiegato dalla multinazionale nel gruppo di machine-learning (un settore dell’Intelligenza Artificiale). Il suo lavoro di risoluzione di un apparente problema di Instagram, che provocava la soppressione dei post palestinesi, avrebbe portato al suo licenziamento lo scorso febbraio.
Le accuse sono decisamente pesanti: la compagnia sarebbe persino arrivata a cancellare le comunicazioni interne dei dipendenti che informavano della morte dei propri parenti a Gaza. Sarebbe stata condotta anche un’indagine interna sull’uso della bandiera palestinese nei post.
A dicembre Hamad aveva sollevato il fatto che erano state poste restrizioni sui contenuti di personalità palestinesi, senza validi motivi. In particolare, un video del fotoreporter palestinese Motaz Azaiza che mostrava un edificio distrutto nella Striscia era stato classificato come pornografico.
Dopo essere stato informato di essere sottoposto a controlli interni, Hamad ha presentato un reclamo all’azienda per discriminazione, e un mese dopo sarebbe arrivato il licenziamento. Il suo dirigente dentro Meta ha confermato che la sua attività si è svolta nel recinto delle sue funzioni.
E tuttavia, il suo licenziamento è stato giustificato con la violazione della politica aziendale sull’accesso dei dati. Nello specifico, il motivo è stato poi individuato nel fatto che nel colosso è proibito lavorare su account di figure che si conoscono personalmente (Azaiza, in questo caso).
Hamad nega qualsiasi rapporto personale col fotografo. Meta non ha ancora risposto alle richieste di commento al riguardo da parte di Reuters, che ha reso pubblica la notizia.
Una sorta di ‘esternalizzazione’ della censura alle grandi piattaforme private non è una novità, e non è il primo caso legato al conflitto in Medio Oriente. Le proteste di dipendenti Google sul progetto Nimbus, in virtù del possibile utilizzo militare da parte di Tel Aviv, aveva portato anche al licenziamento di 28 di loro.
Vari gruppi per i diritti umani hanno più volte criticato Meta per la gestione dei contenuti riguardanti la situazione palestinese. Circa 200 suoi dipendenti hanno espresso le loro preoccupazioni in una lettera aperta, indirizzata al CEO Mark Zuckerberg.
Ma la censura è ormai una pratica assodata tra gli strumenti delle cosiddette ‘democrazie’, che giustificano ogni cosa proprio con la necessità di tutelare se stesse. È un modo per nascondere il rifiuto e l’incapacità di gestire il dissenso, tipico di una società democratica appunto, e imporre un pensiero unico favorevole a una vera e propria mobilitazione militare.
Guerra e repressione sono da sempre connesse, e anche l’Occidente è ormai pienamente espressione di questo pericoloso binomio.
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