Negli ultimi mesi, nei paesi occidentali che spesso si vantano di difendere la democrazia e il libero dibattito, sono aumentate le misure che limitano il diritto di espressione dei sostenitori della causa palestinese. La tendenza è preoccupante, e si esprime in sempre più svariate forme.
Assistiamo a divieti di manifestare, annullamenti di conferenze pubbliche, cancellazioni di impegni di artisti e intellettuali, sanzioni contro comici, proscrizioni di slogan tradizionali, sospensioni di sovvenzioni pubbliche a istituzioni universitarie, intimidazioni giudiziarie.
In Francia, nell’aprile scorso, diverse personalità politiche di opposizione sono state convocate dalla polizia nell’ambito di un’indagine per apologia del terrorismo, e un responsabile sindacale è stato condannato a un anno di reclusione (con pena sospesa) per lo stesso motivo.
In Germania invece, già nel 2019 una risoluzione del Bundestag aveva qualificato come antisemita il movimento « Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni » (BDS), mentre dopo l’attacco del 7 ottobre l’opinione pubblica tedesca ha assistito a una crescente pressione per mettere a tacere le manifestazioni di solidarietà con la resistenza palestinese.
Negli Stati Uniti, il Congresso ha ampliato la definizione di antisemitismo per includere alcune critiche a Israele, e il sindaco di New York, Eric Adams, ha inviato centinaia di poliziotti per sgomberare studenti pacifisti propalestinesi dalla Columbia University, etichettando il movimento come una minaccia radicale.
La legittimazione di misure repressive da parte di governi sedicenti “liberali” si è spesso appoggiata sul pretesto della lotta al terrorismo, come avvenuto dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 e i successivi attentati jihadisti in Europa.
I governi occidentali hanno sviluppato un arsenale legislativo che consente di restringere i diritti fondamentali in nome della sicurezza, dapprima a titolo eccezionale, poi in modo permanente. Questo approccio ha facilitato la ricontestualizzazione del conflitto israelo-palestinese come una ‘difesa della democrazia’ contro il ‘terrorismo di Hamas’.
La censura non si limita al conflitto israelo-palestinese. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022 ha spinto molti alleati di Kiev a bandire gli atleti russi dai Giochi Olimpici di Parigi, a cancellare concerti di musicisti che non denunciavano pubblicamente il presidente russo, e a vietare in Europa i media Russia Today e Sputnik in nome della lotta contro le fake news.
Negli Stati Uniti, il bando dei media russi è stato accolto come necessario, nonostante simili misure siano generalmente considerate tipiche dei regimi autoritari.
Prima ancora della guerra in Ucraina e a Gaza, con l’elezione di Donald Trump nel 2016 una parte delle élite politiche occidentali avevano incoraggiato l’assimilazione degli avversari politici a nemici interni o agenti al soldo di Mosca.
Recentemente, persino l’ex presidente democratica della Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi affermava che una parte degli studenti mobilitatisi a favore della Palestina erano “legati alla Russia” e chiedeva che il Federal Bureau of Investigation (FBI) indagasse sulla questione.
Il perimetro delle libertà pubbliche si restringe quando il rifiuto della censura mobilita esclusivamente coloro che si vogliono mettere a tacere. Negli Stati Uniti, la legittima lotta contro il razzismo, il sessismo e l’omofobia ha portato, specialmente nelle università, al desiderio di imporre una ‘ortodossia progressista’ volta a creare un ambiente sociale ed educativo libero da ogni discriminazione.
Un esempio sono le sei pagine di criteri di “diversità, equità e inclusione” imposte agli insegnanti californiani – “riconoscere che le identità sociali e culturali sono diverse, fluide e intersezionali“, “analizzare i propri pregiudizi e lavorare per correggere i torti che hanno causato“.
Inizialmente, la destra ha giudicato queste nuove regole come espressione di intolleranza e “woke“, quando poi ha invece chiesto che le università proibiscano qualsiasi supporto alla causa palestinese, in quanto potrebbe offendere gli studenti ebrei.
Perché le élite che si definiscono colte, liberali e aperte che guidano le autoproclamate democrazie ricorrono a metodi che ricordano quelli dei despoti che mettono alla pubblica gogna? In primo luogo, a causa del discredito dei governanti.
“Le istituzioni sicure e fiduciose concedono maggiori libertà alla popolazione quando sanno di essere fidate e non hanno nulla da temere” osserva l’avvocato e giornalista Glenn Greenwald.
“Al contrario, quando queste stesse istituzioni perdono la loro credibilità, diventano più autoritarie e repressive perché hanno paura“. Quindi squalificano o censurano informazioni e opinioni dissonanti, etichettandole con termini infamanti – fake news, estremismo, discorsi di odio, incitamento alla violenza, apologia del terrorismo.
Il governo degli Stati Uniti, ad esempio, ha fatto pressioni su Facebook e Twitter per sospendere gli account degli utenti percepiti come ostili alle politiche governative, anche quando il contenuto dei messaggi era esatto o rientrava in un dibattito legittimo.
Questo outsourcing della censura a oligopoli privati è prosperato durante la pandemia di Covid-19. Discutere l’origine del virus online era di fatto vietato sulle piattaforme.
Nell’ottobre 2020, pochi giorni prima delle elezioni presidenziali, la maggior parte dei grandi media e dei social network, di propria iniziativa, ha impedito la diffusione di documenti compromettenti trovati su un laptop personale abbandonato da Hunter Biden e pubblicati dal tabloid conservatore New York Post.
Basandosi su una dichiarazione di 51 ex funzionari dell’intelligence che identificavano questo scoop come una “operazione di disinformazione russa“, i dirigenti editoriali ostili a Trump hanno censurato ciò che si rivelerà essere un’informazione esatta… ma solo una volta che il padre di Hunter Biden sarebbe stato eletto presidente.
Nulla a che spartire con Trump, ma anche questo evento palesa il canone di una censura progressista considerata virtuosa. Sostenuta da una base sociale borghese e istruita, mira a proteggere il paese dalle scosse che nel dibattito pubblico sono definite ‘populiste’, associate a un elettorato meno istruito.
Questa censura collega volentieri le opinioni che disapprova a una mancanza di informazione, intelligenza, moderazione e capacità di cogliere le sfumature. Tale razionalizzazione dell’autoritarismo si generalizza quando la sinistra assomiglia più a un’aula magna di esperti piuttosto che a un fronte popolare.
Dal divieto di parlare di Gaza al boicottaggio delle Olimpiadi, passando per la sospensione di sovvenzioni alle università tedesche, le purghe studentesche a New York e la lista nera degli accademici di Bild, si impone questa domanda: se Stati Uniti, Unione Europea, Germania e Francia, considerati come paesi democratici, autorizzano una tale valanga di misure repressive contro i militanti della causa palestinese, la democrazia occidentale è ancora un modello per il resto del mondo?
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